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ITALIA, COOPERAZIONE
tratto dal n. 01/02 - 2006

COOPERATIVE. I problemi evidenziati dalla scalata fallita della Unipol alla Bnl

Quel che resta dopo“l’Opa anomala”


Parla Giuseppe De Rita, presidente del Censis: «Il vero nodo è la contendibilità delle cooperative: Unipol ha tentato una scalata alla Bnl, ma non era scalabile essa stessa, in quanto le cooperative non sono società per azioni»


Intervista con Giuseppe De Rita di Roberto Rotondo


La sede delle Assicurazioni Unipol a Bologna

La sede delle Assicurazioni Unipol a Bologna

Una cooperativa può comprare banche, avere conti miliardari offshore, manager con stipendi da capogiro, affari in tutto il mondo? La domanda è stata sollevata, ma è rimasta senza risposta mentre infuriava la battaglia delle polemiche e delle inchieste per la scalata alla Banca nazionale del lavoro da parte della cooperativa Unipol, gigante nel mondo delle assicurazioni in Italia e polmone finanziario della Lega delle cooperative. Fallita la scalata, come tutti sanno, dopo le feste natalizie, e spenti i riflettori sulle polemiche e sulle inchieste, si può affrontare la domanda sulla crisi dell’immagine del cooperativismo in Italia, sulla sua utilità e sui suoi limiti. Anche perché le due principali centrali cooperative – la Lega, che conta oltre 13mila gruppi associativi, e la Confcooperative, con 18mila società aderenti, sono realtà non certo irrilevanti dell’economia italiana. Giriamo quindi le nostre domande a Giuseppe De Rita, sociologo, presidente del Censis.

Professor De Rita, da dove nasce la crisi attuale?
GIUSEPPE DE RITA: Nasce da un vecchio problema, ovvero la compresenza che c’è sempre stata nel mondo cooperativistico, dagli inizi fino agli anni Novanta, di due anime molto differenti tra loro: l’anima più nobile della cooperazione, quella che la faceva nascere per fare la spesa insieme, per lavorare insieme, per costruirsi la casa, e, dall’altra parte, l’anima degli affari. La storia della cooperazione, fino agli anni Settanta, e per buona parte degli Ottanta, ha visto predominare la prima anima, all’interno di una coesistenza comunque difficile.
Difficile perché?
DE RITA: Perché fin dal periodo che seguì la fine della Seconda guerra mondiale – allorché la cooperativa si formava per trovare generi a poco prezzo e poi dividerli tra i soci, oppure per realizzare prodotti agricoli o per comprare la barca da pesca, e via via si espandeva diventando un’azienda – si avvertiva che le esigenze cambiavano perché bisognava creare capitale, guadagnare, produrre bilanci. Ma il problema non fu mai affrontato pubblicamente fino alla prima – e anche ultima – Conferenza nazionale sulla cooperazione del 1977, in cui Romano Prodi e io, in qualità di relatori, insistemmo molto sull’idea che le cooperative dovessero “fare holding”. La nostra idea era che non potevano restare sparpagliate a fare un po’ di tutto. L’immagine delle piccole cooperative solidali non funzionava più per quelle cooperative che erano sul mercato e che erano di fatto diventate delle aziende. Ci fu un grande contrasto all’idea di creare holding, specialmente nel mondo cattolico. Il più acceso oppositore fu Giuliano Vecchi, molto bravo, molto intelligente, ma dell’idea che occorresse mantenersi fedeli all’immagine iniziale della cooperativa: micro e piccole aziende, agganciate alla realtà sociale. Invece fu positiva la risposta del presidente della Lega di allora, Vincenzo Galletti, e del presidente della Confcooperative, Enzo Badioli. I due si mossero in forma diversa. Badioli decise che una verticalizzazione del mondo cooperativo doveva passare attraverso le banche, e, senza toccare la struttura delle piccole casse rurali, creò a livello più alto una Federazione delle casse rurali e la Banca centrale del credito agricolo. L’Iccrea (Istituto centrale del credito cooperativo), di cui era presidente, divenne un polmone finanziario centrale che poteva intervenire a favore del mondo cooperativo cui faceva riferimento. Galletti invece pensò che per dare un valore aggiunto alle aziende della Lega, che ne aveva di grandi nel campo della manutenzione, delle opere pubbliche e della grande distribuzione, bisognasse entrare nella siderurgia. Così si mosse per creare una specie di “piccolo Iri”, ma il Partito comunista di allora mandò Napolitano e Chiaromonte a Bologna per bloccare tutto. Galletti, che comunque era al centro della bufera per alcune operazioni azzardate, fu “accompagnato” a fare il direttore della Fiera di Bologna, e la Lega tornò su un’immagine di cooperazione tradizionale. Dopo di che nessuno ha più toccato quest’argomento. Nessuna conferenza né convegno, o riflessione o studio.
Come si arriva alla situazione attuale?
DE RITA: Ci si arriva perché la negazione teorica dell’idea di holding – idea che nel mondo cattolico si scontrava con il mito dello spirito di solidarietà cooperativistico di base, e nel mondo comunista con il mito efficientista dell’espansione della grande azienda con migliaia di soci – non ha fermato le lancette dell’orologio della storia. Dalla metà degli anni Ottanta a oggi, alcuni processi sono andati avanti ugualmente. Consorte non ha fatto altro che quello che aveva fatto Badioli, ma in forma diversa: Badioli aveva fornito una centrale finanziaria tramite due centrali bancarie e Consorte ha creato la banca di riferimento del movimento delle cooperative, ha fornito la garanzia finanziaria della Lega. Quando Consorte afferma di aver salvato tantissime coop che andavano male, di aver dato loro soldi, consulenze, di averle ristrutturate, in realtà conferma di aver fatto una holding. L’ha fatta “sub specie”, perché l’ha realizzata attraverso una compagnia di assicurazioni e non tramite una banca come Badioli, o attraverso un polo industriale come voleva Galletti. Ma la sostanza non cambia: se hai migliaia di dipendenti e stai sul mercato, non puoi non avere un polmone finanziario.
È così necessario?
DE RITA: È la struttura interna dell’azienda che lo richiede, altrimenti sei troppo fragile. Se hai aziende come la Coop che, ad esempio, deve concorrere con i francesi di Auchan, giganti che arrivano dappertutto, come puoi pensare di fare investimenti senza un polmone finanziario adeguato? Restando nella metafora, il polmone quando inspira sembra che risucchi tutte le energie al suo interno, ma poi le redistribuisce. Inoltre, dov’è lo scandalo se questo polmone viene costituito partendo da una compagnia di assicurazioni? Se la cosa importante è soddisfare la necessità di allargare la propria disponibilità finanziaria, si quota in Borsa, entra in gioco e fa provvista, per dirla in maniera un po’ brutale.
Giuseppe De Rita

Giuseppe De Rita

Non sarà uno scandalo, ma perché proprio una centrale finanziaria attraverso Unipol?
DE RITA: Perché nelle assicurazioni erano bravi. Hanno capito che quello era il loro mondo, un mondo in cui la situazione dal punto di vista della finanza poteva crescere. Non si può fare una centrale finanziaria in settori dove non c’è un largo margine di guadagno. Se Unipol cerca di comprare la Bnl, si può discutere se sia un passo più lungo della gamba, se ci siano troppi “furbetti del quartierino” in giro, ma la cosa ha la sua logica. Inoltre, nessuno nel mondo cooperativistico, dove invece in questi tempi si è fatto a gara per ricordare i valori umani e tradizionali della cooperazione, ha fatto l’elenco delle tantissime crisi delle piccole cooperative su cui Consorte probabilmente è intervenuto finanziariamente. Quindi il meccanismo è dato: se vai a fare discorsi “macro”, fai la macroazienda, sei nel macromercato, devi avere una macrofinanza. Se fai la cooperativa di consumo di quartiere, le dinamiche sono altre. Basta intendersi. Il cuore di questa crisi è un altro. Ed è la contendibilità delle cooperative: Unipol ha tentato una scalata alla Bnl, ma non era scalabile essa stessa, in quanto le cooperative non sono società per azioni.
Quindi il punto non è il tradimento del valore morale e sociale della cooperazione a favore di un economicismo del tutto simile a quello delle altre grandi aziende…
DE RITA: Il piano valoriale è stato il più discusso, ma, a mio avviso, è il meno importante. I valori della cooperazione, della solidarietà, “una persona, un voto”, sono belli ma superati nei fatti quando si parla di macroaziende. Se poniamo la questione Unipol sul piano dei valori, allora perché non discutiamo del piano valoriale della Popolare di Lodi, o della Popolare di Milano o di una qualsiasi altra banca popolare? Oppure della Cattolica Assicurazioni, anch’essa una cooperativa? Io invece dico che il tema più importante emerso nel caso Unipol è quello della contendibilità. Se tu mi impedisci per legge la possibilità di scalarti, io non ti posso concedere la possibilità di scalare me. C’è un’enorme asimmetria del potere se le cooperative, che non sono scalabili, possono scalare altre società. Questo vale sia per cooperative formate da poche persone, sia per quelle con migliaia di soci. L’Unipol era una scatola cinese, con tutti gli intrecci di cui abbiamo letto, però lì dov’era il comando reale non era scalabile.
Sta dicendo che le cooperative godono di alcuni privilegi…
DE RITA: Questo è l’unico privilegio. Perché quelli fiscali, rispetto ai soldi che girano in quel mondo, sono poca cosa. Il vero problema è quello delle regole. Lo stesso sta succedendo in Francia, dove cercano di difendersi dalle scalate in Borsa attraverso la legge che vieta le Opa sulle loro banche da parte degli stranieri. Loro comprano le banche italiane, ma le banche francesi non sono contendibili per legge. La reciprocità della contendibilità, invece, dovrebbe essere garantita. Questo è il vero nucleo di ambiguità, non quello sollevato dal presidente di Confindustria Montezemolo, per cui le cooperative, se si occupano di supermercati, non devono uscire dal loro mondo.
La polemica sull’Unipol ha investito anche la politica, soprattutto il partito di riferimento tradizionale della Lega delle cooperative i Ds. Ma in un quadro come quello da lei descritto, del vecchio collateralismo – per cui le cooperative rappresentano una cinghia di trasmissione tra partito e società e su di esse il controllo politico deve essere strettissimo – è rimasto ben poco. Le grandi aziende della Lega, nella prospettiva da lei delineata, devono rispondere solo al mercato e non alla politica. Ma è proprio così?
DE RITA: È un problema di potere. Chi è più potente, il mondo cooperativo o il partito politico di riferimento? La mia impressione è che, negli ultimi tempi, era più potente il mondo cooperativo. Avevano più soldi, stavano dappertutto, erano in tutti gli affari. Ma anche per le cooperative bianche il discorso è simile. Il presidente della Confcooperative Luigi Marino è molto più riservato, non fa protagonismo, ma oggi non esiste quasi più un collateralismo cattolico. Non che non ci sia parecchia politica nel mondo cooperativo, ma i partiti non sono più il referente ultimo.
Di certo è cambiato il contesto storico. Non c’è più il partito di Togliatti o Berlinguer. C’è stato il crollo del muro di Berlino, la Bolognina, non era più possibile mantenere un rapporto di controllo così diretto delle cooperative e, dall’altra parte del fronte, è scomparsa la Dc, e anche le cooperative bianche hanno perduto il loro punto di riferimento…
Le cooperative rosse hanno più voglia di arrivare, hanno più slancio politico, hanno più capacità di stare nei giochi che contano. Non credo che un consorzio della Confcooperative osi presentarsi alla gara del Comune di Napoli per la gestione delle multe, mentre gli altri lo farebbero
DE RITA: È vero, ma bisognerà pur trarne le conseguenze. Se da un quindicennio a questa parte i partiti non si sono potuti occupare di indirizzare la cooperazione, perché il contesto storico cambiava, perché non avevano le forze per farlo, allora Fassino ha sbagliato a domandare telefonicamente a Consorte se avevano comprato o no una banca. Perché è meglio riconoscere che in questo momento sono su un altro piano. Se invece gli telefoni, dai l’impressione di essere ancora un collaterale o di avere bisogno di loro, di voler comunque far parte del gioco. Ma anche dall’altra parte, essendo finita la Dc, Marino e le cooperative bianche sono andate dove volevano, è stato fisiologico. Inoltre le cooperative bianche non hanno mai avuto una struttura gerarchica come quelle rosse, sono sempre state un arcipelago di piccole realtà frammentate.
E allora come dovevano comportarsi i politici?
DE RITA: Fossi stato nei Ds, avrei detto: «Questo è un mondo straordinario, che sta vivendo una fase di espansione enorme e ha bisogno di una centrale finanziaria, che è Unipol. Se questa cooperativa di assicurazioni vuole accrescere la sua potenza di centrale finanziaria, faccia pure, noi non ce ne interessiamo». Se poi Unipol non aveva i soldi è un’altra cosa, ma in linea di principio sono convinto che avrebbero dovuto dire con coraggio che queste operazioni rientrano nella logica delle holding. Quello che sorprende è che i dirigenti dei Ds non hanno avuto né la lucidità di fare un discorso di questo genere, né la chiarezza che ebbero negli anni Settanta quando, sbagliando, posero il veto alle holding. Ma forse non si rendevano conto di cosa stesse succedendo.
C’è ancora oggi una differenza di stile tra la Confcooperative e la Lega?
DE RITA: La differenza è quella di sempre. Le rosse hanno più voglia di arrivare, hanno più slancio politico, hanno più capacità di stare nei giochi che contano. Sono più aggressive sul mercato. Lei non troverà un consorzio della Confcooperative che osi presentarsi alla gara del Comune di Napoli per la gestione delle multe, mentre gli altri penso che lo farebbero. Bernabei, con il suo metodo di cooptazione negli affari, ha fatto più scuola nella Lega che nella Confcooperative. La Lega e alcuni suoi manager sono dentro l’oligarchia del potere economico mentre gli altri no, le loro sono aziende normali, spezzettate, senza grandi punti di riferimento. Se questo sia un bene o un male, non lo so. Magari è un bene, perché poi l’oligarchia si restringe, si sterilizza, ma è un fatto che Consorte era un oligarca, mentre nella Confcooperative, di oligarchi che trattano alla pari con un Tronchetti Provera o con un Benetton non ne trovi.


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