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ITALIA-CARCERI
tratto dal n. 04 - 2006

La riabilitazione dei detenuti attraverso il lavoro

Detenuti in carne e ossa, non fascicoli


«Le attività professionali in carcere sono utili solo se collegate a esperienze che continuino anche fuori. Altrimenti sono come promesse non mantenute». Parla don Sandro Spriano, cappellano del carcere di Rebibbia a Roma


Intervista con don Sandro Spriano di Paolo Mattei


Don Sandro Spriano sta in carcere dal 1991. C’è entrato come cappellano quando aveva cinquant’anni di vita e ventisei di sacerdozio. Quello in cui vive è uno degli istituti penitenziari più grandi d’Italia: Rebibbia, a Roma. Lo abbiamo incontrato per farci raccontare le sue impressioni riguardo alle esperienze lavorative in cui sono coinvolti i detenuti, per sapere se e quanto sono efficaci e utili ad “assicurare il reinserimento nella vita libera”, per dirla con una delle formule usate nei documenti della burocrazia carceraria.
Don Sandro Spriano

Don Sandro Spriano


Quali sono le difficoltà che si incontrano nel realizzare un’attività lavorativa professionalmente formativa in un istituto penitenziario?
DON SANDRO SPRIANO: Innanzitutto è difficile trovare detenuti disponibili a impegnarsi in qualcosa di diverso dal cosiddetto “lavoro domestico”, quello che si svolge a rotazione e che serve per il “sopravvitto”. Il novanta per cento delle persone che stanno in carcere non ha mai avuto, per mille motivi, una forma di vita lavorativa stabile. La maggior parte di loro non considera il lavoro quotidiano come uno strumento buono. Esso rappresenta tutt’altro, una fatica inutile, o utile soltanto per guadagnare quanto serve per le sigarette o per il sapone. A Rebibbia, per esempio, trovare venti persone, su milleseicento, che siano disponibili a iniziare un’esperienza di lavoro professionalmente formativa è una fatica improba. Il carcere ha contribuito a diseducare la gente anche su questo. L’istituzione carceraria funziona a compartimenti stagni, in cui ognuno è a capo del suo orticello. È una struttura che vive in funzione del lavoro degli operatori, non in funzione dei detenuti.
E i corsi professionali svolti all’interno degli istituti hanno una qualche utilità?
SPRIANO: Non servono a niente se non sono collegati a un’esperienza che continui anche fuori dal carcere. Quasi sempre si tratta di finanziamenti ultimamente destinati agli operatori, giovani pagati dalle Regioni e dalle Province... I veri utenti, i detenuti, non ne traggono alcun beneficio. E il collegamento interno-esterno, ossia un percorso che dia la possibilità di realizzare compiutamente fuori ciò che si è imparato dentro, non viene costruito volutamente.
Perché?
SPRIANO: Perché c’è una forte sfiducia di fondo nei confronti dei detenuti, anche quando sono tecnicamente degli “ex”. Non sono considerati persone normali. Sono giudicati estranei al contesto sociale di chi sta fuori, tipi irrecuperabili, insomma. Tossicodipendenti, extracomunitari... Il tossicodipendente è difficilmente riabilitabile, l’extracomunitario molto probabilmente verrà espulso. A chi gioverebbe investire su di loro? La sfiducia è forte nei confronti di persone reputate irrimediabilmente improduttive. L’idea è allora la solita, quella secondo cui bisogna soltanto “contenerle”. C’è questa mentalità, fuori. E quindi anche l’inserimento di coloro che danno buone garanzie di stabilità e continuità risulta difficilissimo.
Non c’è solo la sfiducia, ma anche la burocrazia...
SPRIANO: C’è una tale quantità di orpelli limitativi anche fuori dal carcere, che la pena continua a persistere nel tempo successivo alla riacquistata libertà. Le pene accessorie durano dieci anni, durante i quali l’ex detenuto è interdetto dai diritti civili, non può prendere la patente, non può firmare un contratto per la casa, non può accedere a un ordine professionale... C’è un’infinità di limitazioni che tende a mantenere detenuto a vita anche chi ha ormai scontato la pena.
Non è solo il sistema carcerario ad avere colpe, allora.
SPRIANO: Certamente no, la mia è una critica al nostro sistema politico in cui la giustizia viene fatta coincidere soltanto con la punizione. Tutto viene punito col carcere, oramai. Giustizia è fatta quando il colpevole va dentro.
E invece l’articolo 27 della Costituzione...
SPRIANO: ... O riusciamo a recuperare la concezione di una giustizia che non si accontenta soltanto di punire, ma che lavora per rimettere a posto i cocci di qualcosa che si è rotto, per rieducare, oppure... La punizione illude. E rendere il carcere più bello non favorisce la “rieducazione”, per usare la parola della Costituzione che lei cita.
Si dice che il lavoro delle cooperative sociali abbia diffuso dentro le mura piccoli germi di umanizzazione.
SPRIANO: L’opera delle cooperative sociali può funzionare solo se il loro progetto prevede che le persone introdotte al lavoro durante la detenzione siano accompagnate anche quando escono dall’istituto penitenziario, in una prospettiva di inserimento nel mondo esterno. Molte cooperative sociali si limitano a “fare protocollo”, organizzano cioè una effimera attività lavorativa dentro le mura e poi mollano tutto. I detenuti coinvolti possono guadagnare due soldi, se glieli danno, ma poi rischiano di non essere più seguiti da nessuno. Le cooperative sociali dovrebbero saper “traghettare” fuori il detenuto lavoratore e farsi garanti per lui presso il datore di lavoro cui egli fornirà la sua opera. Così il datore si sentirà più tranquillo, perché saprà di poter contare sulla presenza di un soggetto responsabile. E il detenuto desideroso di lavorare, alla fine compirà positivamente il suo percorso.
Quali esperienze positive ha in questo senso?
SPRIANO: Tre persone, dopo aver lavorato in carcere per la cooperativa di cui mi occupo, hanno trovato impiego fuori: una presso un notaio, un’altra da un commercialista e la terza in un istituto medico. Sono oggi tre uomini contentissimi. La cooperativa continua ad averli in carico, in una sorta di subappalto: i datori lasciano a essa il compito di fare le loro buste paga. Vedo che la cosa funziona. E il notaio adesso sta iniziando a pensare di assumere direttamente l’ex detenuto. Ci sono voluti tre anni per inserirli, per aiutarli a superare le difficoltà di orientamento cui si trovavano di fronte una volta fuori dal carcere. Non avevano una educazione al lavoro come lo intendiamo noi. D’altronde, aiutare a cambiare la mentalità di una persona che, per esempio, ha vissuto di rapine per vent’anni e che adesso ha deciso di condurre un’esistenza diversa, non è impresa di un giorno.
Una goccia nel mare, però è qualcosa di buono che accade...
SPRIANO: Tutto questo impegno da parte di alcune cooperative sociali non è riconosciuto nemmeno dagli operatori interni del carcere in cui esse lavorano con risultati positivi. La maggior parte di questi operatori non crede a una possibilità di reinserimento. E di queste piccole gocce nel mare non si accorge quasi nessuno. Spesso parlo con operatori dell’istituto penitenziario in cui lavoro e noto come non conoscano nemmeno il numero delle cooperative presenti nel carcere. È un dramma.
Che cosa bisognerebbe fare, secondo lei, per far crescere questo tipo di iniziative?
Il laboratorio di sartoria a Rebibbia, Roma

Il laboratorio di sartoria a Rebibbia, Roma

SPRIANO: È necessario innanzitutto selezionare le cooperative, fare un’opera di discernimento sulla consistenza e sulla bontà di chi offre un lavoro ai detenuti. Non basta vincere i progetti. Molte cooperative approfittano del fatto che i detenuti sono “soggetti deboli” non in grado di rivendicare diritti. Spesso le buste paga sono irregolari. Questa è un’educazione all’illegalità, altro che rieducazione! È anche una forma di ricatto: noi ti aiutiamo a uscire e quindi non fare storie... E poi, come dicevo, è necessario un lavoro di accompagnamento del detenuto fuori del carcere. Senza un’attività di recupero e reinserimento, il lavoro non serve a nulla.
Ma per questo ci sono i servizi sociali, c’è lo Stato...
SPRIANO: I servizi sociali non hanno né fondi né personale adatto, e lo Stato non mostra alcun interesse al reinserimento.
E gli enti locali?
SPRIANO: Il Comune di Roma qualche anno fa, volendo fare qualcosa di buono, si inventò per chi usciva dal carcere il “kit delle 48 ore”, lo “zainetto dell’ex detenuto” dentro il quale c’erano cinque biglietti dell’autobus, una tessera telefonica, una mappa dei trasporti pubblici e altre cose... Naturalmente non servì a nulla. Si spendono milioni di euro per fare strutture che riguardano sempre di più la sicurezza interna quando tutti sanno che la sicurezza negli istituti non è più legata alle mura e alle sbarre. È legata agli stimoli positivi che tu riesci a proporre dentro e, poi, fuori dalle mura carcerarie.
Un’osmosi tra fuori e dentro. Mi pare che lei indichi questa come unica strada.
SPRIANO: Attualmente quasi tutte le cooperative che desiderano offrire delle reali chances di rieducazione ai detenuti non riescono efficacemente a gestire un serio servizio di accompagnamento perché lavorano o soltanto fuori o soltanto dentro. Ecco, è necessario essere in grado di fare questo passo assieme al detenuto che esce, e stargli accanto, quando rientra nel “mondo dei liberi”, per tutto il tempo che occorre alla sua “riabilitazione”. Un’idea di servizio ai detenuti, se non avviene questa osmosi, è perdente. Si fanno cose buone, ma sono come promesse non mantenute. E se non ti interessa il detenuto Sandro Spriano in carne e ossa ma solo il suo fascicolo, quelle cose buone non salvano.


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