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ITALIA-CARCERI
tratto dal n. 04 - 2006

La riabilitazione dei detenuti attraverso il lavoro

Benvenuti a “Due Palazzi Valley”


Gli operatori del consorzio “Rebus” hanno messo in piedi tra le mura del penitenziario patavino una specie di distretto artigianal-industriale in piccola scala


di Eugenio Andreatta


Un detenuto del carcere Due Palazzi di Padova nel laboratorio 
di cartotecnica

Un detenuto del carcere Due Palazzi di Padova nel laboratorio di cartotecnica

Mentre milioni di teleutenti si pongono l’angoscioso dilemma su come i ragazzi del Grande Fratello e degli altri sottoprodotti catodici ce la faranno a superare i momenti di noia, 60mila reclusi nelle patrie carceri hanno un problemino leggermente più serio: cosa fare, oltre che guardare il soffitto dalla branda, 24 ore al giorno, sette giorni alla settimana, mesi e anni. Qualcuno, tutta la vita. Non ci si pensa. Il principale problema del carcere è l’ozio forzato, l’inutilità, il senso del niente. Qualsiasi corso, il più stravagante – dal teatro alla scrittura creativa, dalla bigiotteria all’onnipresente computer – non va mai deserto. Pur di far qualcosa. Qualsiasi cosa.
«Per un detenuto – ma sarebbe così per tutti noi – la mancanza di lavoro è abbrutimento». Giovanni Tamburino ne sa qualcosa. È presidente del Tribunale di Sorveglianza del Veneto, conosce il carcere come pochi. «Non si può pensare a un detenuto che con le attività ricreative o sportive occupi anni di vita. Uno così è portato a pensare che il male che ha fatto sta producendo altro male su di sé. Diciamo che si intossica».
Proviamo a rovesciare il punto di vista. «Date del lavoro a un detenuto e lo vedrete cambiare. Non succede sempre: ma quasi sempre sì». Nicola Boscoletto, presidente del consorzio “Rebus”, nel carcere penale Due Palazzi di Padova nel giro di cinque anni ha fatto 206 inserimenti lavorativi di detenuti, di cui 50 all’esterno. Numeri piccolissimi, rispetto alla fame di lavoro che urla da dietro le sbarre. Grandissimi rispetto alla media, per cui, con numeri a due cifre di cui la prima è 1, si grida al miracolo. «I numeri sensazionali sono altri», dice il presidente del consorzio. «Quelli sulla recidiva. Chi ha lavorato con noi è tornato a delinquere circa nel dieci per cento dei casi. A fronte dell’80 per cento nazionale. Queste sì contano, io le chiamo le cifre della speranza».
Detto per inciso, Boscoletto e soci in carcere a Padova, con il contributo determinante dell’allora direttore Carmelo Cantone e dei suoi successori, hanno messo in piedi una specie di distretto artigianal-industriale in piccola scala. Le lavorazioni in corso occupano tre capannoni del carcere penale (una storia infinita questi capannoni, bloccati anni e anni: nel mondo carcerario la burocrazia raggiunge vette inaccessibili) con manichini in cartapesta e materiale plastico, valigeria, legatoria e cartotecnica, pasticceria, giardinaggio. E poi altre che mettono a dura prova un immaginario collettivo costruito pazientemente da decenni di telefilm americani. Il call centre per esempio. Avete capito bene: detenuti con il telefono in mano (controllati, ovvio) che raccolgono prenotazioni per visite ospedaliere o vendono vacanze e olio d’oliva via cavo. Ancora: cucina e pasticceria. Altri luoghi comuni sfatati. La mitica “sbobba del penitenziario” non avrebbe mai superato le certificazioni di qualità Iso 9000 a cui si è sottoposto il consorzio. Secondo: detenuti con il coltellaccio in mano, ma solo per fare i quarti di pollo o affettare le carote. E non gente che è dentro per reati minori («Non prendiamo a lavorare i migliori moralmente, ammesso e non concesso che ci sia un metro per queste cose», commenta Boscoletto). Terzo, i panettoni della pasticceria non vengono destinati alle mense dei poveri ma al più prestigioso caffè italiano, il Pedrocchi, che le vende a un prezzo più che discreto con grande soddisfazione dei clienti. Perché tutto quello che si produce qui, poi va sul mercato.
Morale? Nessuna. Ma proprio neanche l’ombra. «Hanno un totale distacco da ogni forma di ideologia precostituita sulla pena». È Giovanni Maria Pavarin, magistrato dell’Ufficio di Sorveglianza di Padova, che parla. «Con loro non bisogna mica star tanto là a discutere. Hanno messo una vanga e un rastrello in mano ai detenuti, gli hanno insegnato a fare i primi lavori del verde e senza tanto parlare la persona capisce che viene in qualche modo amata. E se una persona viene amata ti risponde. Quello che ti dà in cambio è che smette di fare la vita che ha sempre fatto. E si accontenta anche degli ottocento euro al mese».


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