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SCUOLA CATTOLICA
tratto dal n. 05 - 2006

«Un mestiere è come una cascina su cui non grandina mai»


Così diceva san Leonardo Murialdo, che si dedicò alla gioventù povera e abbandonata di Torino, e fu tra i protagonisti della nascita delle prime scuole professionali in Italia. Ne parla lo storico Giovenale Dotta, esperto del cattolicesimo torinese dell’Ottocento. Intervista


di Giovanni Ricciardi


I piccoli apprendisti calzolai

I piccoli apprendisti calzolai

«Un mestiere è come una cascina su cui non grandina mai», ripeteva spesso san Leonardo Murialdo ai ragazzi cui aveva dedicato la sua vita di sacerdote. Molti di loro venivano dalle campagne intorno a Torino, e sapevano bene che cosa volesse dire un pezzo di terra e una casa su cui contare. Ma nella grande città dov’erano immigrati, spesso non avevano neppure un tetto sotto il quale tornare alla sera. E solo un lavoro ben appreso avrebbe potuto garantire loro un futuro dignitoso.
Leonardo Murialdo proveniva da una famiglia della ricca borghesia torinese. Non era stato contadino lui. Tuttavia entrò ben presto in contatto, dopo la sua ordinazione, nel 1851, con un piccolo gruppo di sacerdoti che avevano scelto di dedicarsi alla gioventù “povera e abbandonata” che popolava la periferia della capitale sabauda. E fu protagonista, insieme a don Bosco e ad altri sacerdoti dell’Ottocento, della nascita delle prime scuole professionali in Italia, dando con la sua opera, sia pure piccola in confronto a quella dei Salesiani, un contributo originale e innovativo: una vera e propria rete di iniziative sociali pionieristiche per l’epoca in cui visse. Ne parliamo con Giovenale Dotta, sacerdote della Congregazione giuseppina fondata dal Murialdo, professore di Storia della Chiesa ed esperto del cattolicesimo torinese dell’Ottocento.

Come nasce l’interesse di Leonardo Murialdo per la formazione dei giovani?
GIOVENALE DOTTA: Dal rapporto con i primi sacerdoti torinesi che se ne occupavano. Anzitutto don Giovanni Cocchi, che fu il primo, ancora prima di don Bosco, a fondare un oratorio a Torino, quello dell’Angelo custode, nel 1840, e diede vita a molte delle opere che in seguito furono portate avanti dal Murialdo, tra cui il famoso Collegio degli “Artigianelli”. Poi, don Roberto Murialdo, cugino di Leonardo, che collaborava con don Cocchi. Infine, don Bosco, che nel 1857 gli affida la direzione di un suo oratorio, quello di San Luigi, vicino alla stazione ferroviaria di Porta Nuova che allora si trovava in periferia.
I primi oratori prevedevano già delle vere e proprie scuole?
DOTTA: All’inizio erano spazi aperti soltanto la domenica. Offrivano il gioco, il catechismo e anche un po’ di formazione scolastica. In seguito, sotto la spinta di don Bosco e del Murialdo, cominciano a svilupparsi scuole serali aperte in alcuni giorni feriali. Infine, si arriva alla nascita di vere e proprie scuole “diurne”, funzionanti nelle mattine dei giorni feriali. E in questo Murialdo seguì le intuizioni di don Bosco piuttosto che quelle del suo primo ispiratore, don Cocchi.
C’era differenza di vedute tra loro?
DOTTA: Don Cocchi fu il “pioniere” degli oratori torinesi, ma la sua impostazione educativa era, per certi aspetti, criticata da don Bosco. Dava molto spazio allo sport, agli esercizi ginnici e anche alle esercitazioni militari: meno alla scuola e alla formazione religiosa. Era un prete “liberale”, molto vicino agli ambienti governativi e per questo non piaceva alla parte più intransigente del cattolicesimo italiano, poco incline a compromessi con la corte sabauda e con il governo liberale. Va detto però che nel clero torinese, e men che meno in Murialdo e don Bosco, questa linea “dura” non fu mai prevalente. Ma don Cocchi arrivò addirittura a un tentativo di partecipazione, con i suoi ragazzi, alla battaglia di Novara nel 1849, che fallì miseramente e costituì un grave colpo alla sua “onorabilità”. Per qualche anno non si interessò più agli oratori, e fondò il Collegio Artigianelli, che poi sarà anch’esso “rilevato” dal Murialdo.
La fama di Leonardo Murialdo è legata proprio a questo Collegio. Quale fu la specificità di quest’opera?
DOTTA: Don Cocchi, fondando il Collegio, aveva inteso offrire un tetto alla gioventù più povera e abbandonata della città, ragazzi che magari frequentavano già gli oratori, ma che, a differenza di altri, non avevano una famiglia e una casa alle spalle: orfani o figli di famiglie in cui la piaga dell’alcolismo aveva preso piede, o che avevano conosciuto il carcere. Dopo averlo fondato, nel 1849, don Cocchi ne lasciò la direzione, dal 1852, ai “teologi” Tasca e Berizzi. Berizzi riuscì a costruire una sede nuova, che è ancora l’attuale, nel 1863. E qui fu possibile perfezionare una scelta fatta già pochi anni prima: offrire vitto, alloggio, formazione, ma anche una seria preparazione professionale. Don Bosco crea i primi laboratori a Valdocco nel 1853, il Collegio Artigianelli lo segue nel 1856.
Da cosa fu dettata la scelta di impiantare laboratori professionali all’interno del Collegio?
DOTTA: Inizialmente, sia don Bosco che il Collegio Artigianelli mandavano i ragazzi a fare apprendistato presso officine e datori di lavoro. Ma non sempre questi ultimi erano interessati a insegnare davvero un mestiere. Spesso accettavano i ragazzi solo perché avevano bisogno di manovalanza, senza contare che l’ambiente di lavoro era spesso degradato e moralmente pericoloso. Di qui la scelta di creare luoghi di lavoro interni all’istituto che privilegiassero il momento formativo, in cui si potessero insegnare tutte le fasi del lavoro artigianale e consentire a chi ne usciva di creare una propria attività o di essere assunto a pieno titolo, come operaio specializzato, in laboratori già esistenti. Quando il Murialdo, nel 1866, accettò la direzione del Collegio Artigianelli, proseguì decisamente in questa direzione. Gli Artigianelli furono il suo principale impegno fino al 1900, l’anno della morte. Ospitava gratuitamente e stabilmente circa 180-200 giovani. All’inizio convivevano bambini e adolescenti. In seguito, spostò i più piccoli, dai 6 ai 12 anni, in un collegio con scuola elementare da lui fondato a Volvera, vicino a Torino.
Come erano organizzati i laboratori?
DOTTA: La scelta cadde, sulla falsariga dell’esperienza di don Bosco, sui mestieri che potevano più agevolmente garantire ai giovani un rapido inserimento nel mercato del lavoro. Si comincia nel 1856 con i calzolai e i falegnami; nel 1858 si apre la legatoria dei libri, nel 1861 il corso per gli ebanisti all’interno della falegnameria, nel 1863 quello degli intarsiatori del legno. Nel 1864 vengono avviati il laboratorio dei sarti e la tipografia, che conobbe un discreto sviluppo con l’apertura di sezioni per compositori e stampatori. Gli scultori in legno, i fabbri ferrai e i tornitori in ferro vennero per ultimi. I ragazzi avevano così una certa possibilità di scelta, tra cui anche quella di trasferirsi fuori Torino per studiare nella colonia agricola di Rivoli, fondata dallo stesso Murialdo. Gran parte delle ore erano dedicate all’apprendistato. Oltre a questo, si faceva un’ora di scuola al mattino e una alla sera, per una migliore formazione di base.
A che età cominciava la formazione professionale?
DOTTA: I ragazzi entravano agli Artigianelli a 12 anni. Frequentavano due anni di apprendistato generale, imparando vari lavori, in genere i più leggeri. A 14 anni, poi, sceglievano definitivamente una specializzazione, e continuavano a frequentare la scuola fino a 19 anni. Questo è un dato importantissimo per l’epoca: la formazione durava a lungo, proprio perché Murialdo non voleva che i suoi ragazzi entrassero troppo presto nel mondo del lavoro, ma dava loro la possibilità di maturare umanamente e spiritualmente. Murialdo fu così uno dei primi a battersi anche pubblicamente contro la piaga del lavoro minorile in Italia, che verrà affrontata dal legislatore solo a partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento.

Un ritratto di san Leonardo Murialdo

Un ritratto di san Leonardo Murialdo

La colonia agricola fu un’invenzione del Murialdo?
DOTTA: Anche in questo caso Murialdo riprese e perfezionò un’intuizione di don Cocchi, che aveva fondato la prima colonia agricola in Italia, nel 1852, a Cavoretto, sulla collina di Torino, spostandola poi l’anno dopo a Moncucco Torinese. Sulla scorta di questa esperienza, anch’essa di frontiera, ne erano sorte altre in varie parti d’Italia. Ma nel 1878, con l’aiuto dell’ingegner Carlo Peretti, suo nipote, il Murialdo, chiusa la colonia di Moncucco, ne aprì una nuova a Rivoli, sempre vicino a Torino, che fu veramente il fiore all’occhiello della sua rete di opere. Era organizzata con criteri agronomici avanzatissimi per l’epoca. Era specializzata in settori come la florovivaistica, il giardinaggio, l’orticoltura e la viticoltura, e conobbe un ulteriore sviluppo, anche dopo la morte del Murialdo, fino agli anni Trenta, grazie a personaggi come Guido Glotto, un ottimo agronomo che era fratello laico nella Congregazione giuseppina. La colonia di Rivoli fu spesso visitata dalle autorità governative e portata ad esempio per la sua efficienza. Del resto, i legami col governo risalivano agli anni precedenti e non era stato senza significato che nel 1872 Cocchi e Murialdo, per incarico del governo, avessero compiuto un viaggio esplorativo nell’Italia da poco unita, proprio per ispezionare altre colonie collegate o ispirate alle loro. Anche i Salesiani, che all’epoca di don Bosco avevano sperimentato in modo limitato questo sistema formativo, dopo la morte di don Bosco ripresero e svilupparono il modello della colonia agricola. E gli stessi Giuseppini ne crearono altre: ad esempio a Castel Cerreto, presso Treviglio, poi a Bengasi, in Libia, e a Roma, nella zona della Bufalotta, colonia che fu fondata nel 1915 e durò fino al 1952.
I rapporti del Murialdo con le autorità civili furono sempre positivi?
DOTTA: In linea di massima sì, anche se non mancarono attriti, sia con il governo, quando chiuse il riformatorio di Bosco Marengo nel 1883, sia con qualche settore del mondo economico, come quando nel 1872, nel quadro di un’inchiesta sull’industria in Italia, durante le riunioni indette a Torino dal Comitato per l’inchiesta industriale, la tipografia del Collegio Artigianelli venne accusata, insieme a quella di Valdocco, di fare una concorrenza “sleale” alle altre tipografie della città.
Come reagì Murialdo?
DOTTA: La sua reazione è testimoniata da una pagina dei suoi manoscritti dove si leggono giudizi assai interessanti. La tipografia era uno dei pochi laboratori del Collegio ad essere in attivo. Lavorava bene e otteneva commesse dall’esterno a prezzi talvolta più bassi di quelli praticati in città. Ma per Murialdo questo era naturale: rientrava nella logica del libero mercato, che prevede una sana concorrenza tra imprese, e costituiva anzi un bene per gli acquirenti. Un argomento direi “liberista” al cento per cento. D’altro canto, con un ragionamento di segno “opposto”, Murialdo non vedeva perché, una volta tanto, non dovessero essere i figli dei poveri, piuttosto che i “capitalisti”, a godere di un profitto legittimo. Utilizzò insomma due tesi quasi antitetiche. E riuscì così a salvare quello che gli stava più a cuore. Anche perché la paventata chiusura dei laboratori avrebbe significato la fine del progetto formativo del Collegio, quello di educare i ragazzi poveri attraverso la formazione al lavoro.
Gli studenti del Collegio Artigianelli trovavano lavoro, una volta usciti dalle scuole?
DOTTA: Quasi sempre. Anzi, nello scritto del 1872, Murialdo, per rispondere alle critiche che lo accusavano, tra l’altro, di non offrire una formazione solida agli allievi del Collegio, osservava che proprio i tipografi torinesi avevano in qualche caso assunto i suoi giovani apprendisti, pagandoli anche bene – una somma di 23 o 24 lire alla settimana, che era una paga decisamente alta per un giovane operaio all’epoca. Ma il Murialdo cercava di seguire i suoi ragazzi anche dopo che erano usciti dagli Artigianelli. E per far questo creò un’altra serie di opere interessanti e innovative.
Per esempio?
DOTTA: All’oratorio di San Martino, vicino a Porta Palazzo, che dipendeva dal Collegio Artigianelli, e di cui Murialdo fu direttore per molti anni, era stato istituito il cosiddetto “Patronato”.
Di cosa si trattava?
DOTTA: Derivava dall’esperienza del Patronage, nato per iniziativa dei cattolici francesi, soprattutto in seno alle Conferenze di San Vincenzo, che l’avevano trapiantato anche in Italia. Il Murialdo condivise e appoggiò questo esperimento, da lui conosciuto anche attraverso i suoi numerosi viaggi in Francia. Alcuni laici seguivano i giovani operai nei loro problemi quotidiani: li assistevano nella stipula dei contratti, creavano una sorta di “ufficio di collocamento” ante litteram, si recavano a trovarli sul luogo di lavoro. Si occupavano insomma di tutelare, seguire e “patrocinare” gli operai a 360 gradi. In questa azione sociale, da lui promossa e sviluppata a Torino, Murialdo si avvalse moltissimo del contributo dei laici. Così come nello sviluppo delle società cattoliche di mutuo soccorso per gli stessi operai, che avevano a Torino una sezione praticamente in ogni parrocchia, e che ebbero in Murialdo un punto di riferimento. E non va dimenticata neppure l’opera del Murialdo in favore della “buona stampa”. In un’epoca in cui il concetto di biblioteca pubblica è ancora molto lontano dall’essere considerato ovvio, promosse la diffusione di piccole biblioteche “popolari”. Dislocate nelle parrocchie e negli oratori di Torino, queste minibiblioteche, che offrivano il servizio del prestito gratuito e potevano contare dai 200 ai 1.000 volumi l’una, furono uno strumento in più per la diffusione della cultura in seno al popolo. Senza dimenticare l’enorme importanza che gli oratori torinesi ebbero nell’opera di prima alfabetizzazione della classe operaia specialmente negli anni Cinquanta e Sessanta dell’Ottocento.
Che incidenza “statistica” aveva l’opera del Murialdo?
DOTTA: Potrei portare, a titolo di esempio, la situazione dell’anno 1882. La rete di iniziative dirette dal Murialdo seguiva in quell’anno 770 ragazzi: oltre 200 nel Collegio Artigianelli, circa 400 nel riformatorio di Bosco Marengo, 50 nella Colonia agricola di Rivoli, 52 nella casa famiglia per operai, 20 nella casa famiglia per studenti, 42 nell’istituto per i piccoli di Volvera. Un numero non indifferente in una città di circa 250mila abitanti.
 il laboratorio di sartoria presso il Collegio degli Artigianelli di Torino.

il laboratorio di sartoria presso il Collegio degli Artigianelli di Torino.

Che cos’era il riformatorio di Bosco Marengo?
DOTTA: Un’altra opera fondata da don Giovanni Cocchi e proseguita dal Murialdo. Era un istituto che accoglieva ragazzi condannati a pene detentive, ma seguiva un programma alternativo alla carcerazione. Da qui Murialdo riuscì spesso a far arrivare ai suoi collegi molti ragazzi, strappandoli al ritorno pressoché inevitabile a comportamenti criminosi. Murialdo ne fu responsabile fino al 1883, anno in cui venne chiuso dal governo, nel quadro di una politica che tendeva a ridurre gli spazi di influenza del clero sulla società civile.
E la casa famiglia?
DOTTA: Come ho detto, gli ospiti del Collegio Artigianelli spesso erano ragazzi con enormi problemi familiari alle spalle, quali ad esempio la mancanza di una casa. Quando terminavano il loro apprendistato il problema dell’alloggio si proponeva di nuovo. Così Murialdo pensò, sul modello di opere che esistevano già in Francia, di creare dei “pensionati” per garantire un tetto ai suoi giovani anche quando iniziavano a inserirsi nel mondo del lavoro. Quella fondata dal Murialdo fu la prima casa famiglia in Italia.
La Congregazione giuseppina ha continuato tutte le opere iniziate dal fondatore?
DOTTA: Ha privilegiato, nel corso della sua storia, alcuni filoni, senza mai abbandonare del tutto gli altri. Nei primi anni dopo la morte di Murialdo si caratterizzò soprattutto per la gestione degli oratori, degli orfanotrofi, dei collegi e in parte anche delle colonie agricole. In Italia il filone agricolo si è poi quasi esaurito, a metà del secolo scorso, mentre ha ripreso vigore quello della formazione professionale industriale e artigianale, che ancora oggi è in espansione, con parecchie nuove fondazioni negli anni Ottanta un po’ in tutta Italia.
Il Collegio Artigianelli ospita ancora oggi ragazzi abbandonati e senza tetto?
DOTTA: Non è più un internato, ma continua a essere scuola professionale e rimane un punto di riferimento per molti ragazzi “difficili”, i cosiddetti drop-out, quelli che, per gravi problemi sociali e familiari, abbandonano la scuola ancora prima di aver concluso gli anni dell’obbligo. Molti di loro ci vengono affidati dai servizi sociali o dal Tribunale dei minori. E le loro storie, la loro condizione sociale e culturale a volte non sono molto diverse da quelle dei ragazzi che la carità di Leonardo Murialdo strappava alla strada e a una vita destinata quasi certamente alla precarietà o alla criminalità.


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