Tra Repubblica e Costituente
Il referendum del 2 giugno per scegliere tra Monarchia e Repubblica. L’elezione e i lavori dell’Assemblea costituente. I primi governi De Gasperi e un Paese da ricostruire. La promulgazione della Carta fondamentale dello Stato
di Giovanni Sale S.I.

Nella foto di sfondo, una manifestazione per la Costituente a Torino nell’ottobre 1945; il Corriere della Sera del 6 giugno 1946, La Voce Repubblicana del 9 ottobre 1947, un manifesto del Partito socialista italiano di unità proletaria e uno della Democrazia cristiana, una foto di Nenni, Ruini, Vernocchi, De Gasperi e Togliatti all’epoca del primo governo De Gasperi (10 dicembre 1945-13 luglio 1946)
Invece il “voto politico”, cioè quello per l’Assemblea costituente, in qualche misura riproduceva quello amministrativo delle elezioni di primavera. La Democrazia cristiana si confermò come il primo partito politico del Paese (8.012.355 voti), seguito dai socialisti (4.674.977 voti) e dai comunisti (4.287.054); la somma dei due partiti di sinistra però sopravanzò, anche se soltanto di poco, il voto democristiano considerato da solo. Gli elettori – per la prima volta le donne erano state ammesse al voto – avevano premiato i cosiddetti partiti di massa, che erano quelli che avevano anche partecipato alla Resistenza e che ora venivano chiamati dagli elettori a riscrivere la nuova Carta costituzionale. Il risultato delle elezioni fu valutato dalla Dc e dalle gerarchie vaticane molto positivamente, mentre i partiti di sinistra (legati tra loro da un “patto di unità d’azione”), al contrario, lo interpretarono come un’inaspettata sconfitta. L’impegno da essi profuso nella campagna elettorale, sia attraverso strumenti organizzativi assai efficienti, sia con l’impiego di mezzi economici molto rilevanti ricevuti dall’estero, in particolare dall’Unione Sovietica, era stato infatti enorme e faceva sperare in un risultato elettorale soddisfacente. La sconfitta fu particolarmente amara per il Pci, che era stato il partito maggiormente attivo nella lotta partigiana e più influente nei Comitati di liberazione nazionale. Esso non soltanto guadagnò meno voti del partito concorrente, la Democrazia cristiana (104 deputati contro i 207 della Dc), ma fu persino superato dall’alleato socialista (115 deputati), che divenne così il primo partito della sinistra. Così, la sconfitta elettorale condusse a una resa dei conti all’interno del Pci e quindi a una critica da parte dell’ala più radicale del partito, capitanata da Secchia e Longo, alla linea morbida di “democrazia progressiva” verso il socialismo adottata da Togliatti a partire dal primo governo di unità nazionale (1944). Nonostante le critiche mosse a Togliatti, in realtà i dirigenti del Pci si rendevano conto che, almeno per il momento, non era possibile cambiare strategia politica, perché ciò avrebbe finito con l’isolare il Pci all’interno dello schieramento delle forze democratiche, condannandolo in questo modo a diventare un partito di opposizione. Tanto più che Stalin non era intenzionato a sostenere i comunisti italiani in una eventuale azione rivoluzionaria-insurrezionale tesa a instaurare il socialismo in Italia, sia perché la penisola in base agli accordi di Yalta non rientrava nella zona di influenza sovietica, sia perché ciò avrebbe provocato, come era accaduto in Grecia, una pronta reazione degli angloamericani i cui reparti armati si trovavano ancora in Europa, con il rischio di innescare un’altra guerra che in quel momento l’Urss non sarebbe stata capace di portare avanti. La decisione adottata dai dirigenti del Pci fu di continuare per il momento nell’esperienza in parte già consolidata dei governi di unità nazionale e, allo stesso tempo, di intensificare nel Paese la lotta politico-sindacale per guadagnare al partito gran parte del mondo operaio, oltre, naturalmente, a larghe fasce dei ceti medi, che nelle ultime elezioni avevano votato per la Dc. In una parola il Pci si organizzava per essere allo stesso tempo partito di governo e partito di lotta, cioè di opposizione. Tale ambiguità non giovò certo alla stabilità e all’unità di azione della nuova compagine ministeriale, capeggiata da De Gasperi, e fu per lunghi mesi, in realtà fino all’esclusione delle sinistre dal governo nel maggio 1947, occasione di perenne conflitto tra il presidente del Consiglio e Togliatti e fonte di instabilità per l’azione di governo.

La seduta inaugurale dell’Assemblea costituente nell’aula di Montecitorio il 25 giugno 1946
Subito dopo le elezioni iniziarono le “grandi manovre” tra i maggiori partiti politici per risolvere le principali questioni istituzionali, quali l’elezione del capo provvisorio dello Stato, la presidenza della nuova Assemblea costituente, nonché, subito dopo, la formazione del nuovo governo. «Quanto alla successione, cioè alla Repubblica» confidò De Gasperi al nunzio in Italia, «mi è stato proposto un governo a tre: la presidenza della Repubblica a me, il posto di presidente del Consiglio a Nenni o Romita […]. Ai comunisti il Ministero degli Esteri; tuttavia non me la sento di essere un presidente di Repubblica: non vedo un Nenni al governo come capo e molto meno un Togliatti, fino, ma più “perfido”, agli Esteri. Piuttosto tenterei di sganciare i socialisti dai comunisti, proponendo per i primi la presidenza della Repubblica, ed io restando ove sono. Se si sganciassero, i comunisti non entrerebbero nel Gabinetto: ma vi si riuscirà? Chiedo: “Non può la Democrazia cristiana insieme con i partiti monarchici fronteggiare le sinistre?”. Risposta: “Sì! Avremmo aritmeticamente quanto basta per reggerci appena appena, ma non potremo durare”» (archivio di Civiltà Cattolica). Su suggerimento dello stesso De Gasperi, i maggiori leader politici proposero di affidare la presidenza dell’Assemblea costituente al socialista Nenni; questi però preferì declinare l’offerta in favore di Saragat, reputando per il momento più utile per il suo partito una sua partecipazione al nuovo governo repubblicano, nella speranza di potervi ottenere un Ministero chiave, come di fatto avvenne. L’Assemblea costituente iniziò puntualmente i suoi lavori il 25 giugno, con l’elezione del suo presidente nella persona del socialista Giuseppe Saragat, cui succedette, poco tempo dopo, il comunista Umberto Terracini.
Circa l’elezione del capo provvisorio dello Stato la sinistra, in particolare i socialisti, aveva avanzato la candidatura di Benedetto Croce. Essa però non era gradita alla Santa Sede: Croce infatti era l’esponente più rappresentativo in Italia del pensiero idealistico-immanentista, contro il quale la Chiesa cattolica aveva aspramente combattuto per lungo tempo. Eleggerlo alla presidenza della Repubblica significava affermare a piene lettere che l’Italia repubblicana nasceva sotto il segno della tradizione liberale anticattolica, e ciò nel momento in cui il popolo italiano aveva dato la maggioranza dei voti a un partito di ispirazione cristiana. Ciò inoltre avrebbe significato disconoscere la pacificazione tra Stato e Chiesa del 1929, contro la quale Croce si era battuto in Senato, e rigettare i princìpi di fondo che l’Accordo del Laterano aveva sancito. De Gasperi dal canto suo si oppose risolutamente alla candidatura Croce (come anche a quella Nitti, avanzata dai comunisti), e ciò sia per compiacere il Vaticano sia anche perché essa era stata avanzata per mettere in difficoltà la Democrazia cristiana e propose i nomi di Orlando e di De Nicola. L’Assemblea costituente il 28 giugno elesse capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola, che era stato presidente della Camera dei deputati dal 1920 al 1924 e nel 1943 consigliere illuminato e prudente di Vittorio Emanuele III, durante la sua breve permanenza a Salerno. Egli alla fine, dopo le insistenze del presidente De Gasperi, si decise ad accettare la candidatura, che fu accolta e votata da tutti i partiti dello schieramento politico, a condizione però che il suo mandato sarebbe cessato appena scaduti i termini previsti per la carica provvisoria.
Dopo la nomina del capo provvisorio dello Stato, il presidente del Consiglio De Gasperi rassegnò le dimissioni del governo. Il presidente De Nicola diede l’incarico di formare il nuovo Gabinetto allo stesso presidente del Consiglio uscente, che era anche il leader del partito che aveva vinto le recenti elezioni politiche. Nacque così il II governo De Gasperi, sostenuto dai tre grandi partiti di massa, democristiani, socialisti e comunisti, e dai repubblicani; la distribuzione dei Ministeri però non avvenne questa volta secondo il criterio della “pariteticità” – come nei passati governi ciellenisti – ma sulla base del consenso popolare ottenuto dai singoli partiti. Fu cioè il primo governo politico del dopoguerra. De Gasperi oltre alla presidenza del Consiglio si riservò anche il Ministero dell’Interno e assunse ad interim anche quello degli Esteri (fino alla firma del Trattato di pace): successivamente però questo sarebbe andato a Nenni. I comunisti ottennero quattro Ministeri, tra i quali quello di Grazia e Giustizia (Gullo) e quello delle Finanze (Scoccimarro); lo stesso numero di ministri ebbero i socialisti. I restanti Ministeri furono assegnati alla Dc (alla Pubblica istruzione andò Gonella). Togliatti, come si è detto, preferì rimanere fuori del governo, nonostante l’avviso diverso di De Gasperi, per occuparsi del partito.
Il primo grande problema che il nuovo governo dovette affrontare fu quello della crisi economica postbellica: l’inflazione, infatti, aveva ripreso a salire, toccando in quell’anno il picco del 35%, mentre anche i generi di prima necessità, a cominciare dal pane, iniziavano a scarseggiare sul mercato interno. Anche gli aiuti di guerra concessi dagli Alleati (Unrra) iniziarono a diminuire per cui per la popolazione italiana si preparava un inverno molto duro sotto tutti gli aspetti. I partiti di sinistra, anziché aiutare il governo nel suo sforzo disperato di rendere meno grave la situazione economica, cercavano in tutti i modi di acutizzare lo scontro politico, ripetendo nelle piazze e sui giornali di partito che la responsabilità maggiore della crisi economica era dovuta all’indirizzo economico liberista seguito dal governo – il quale affamava i lavoratori tenendo bassi i salari (riducendo così la domanda interna) per agevolare la Confindustria e il grande capitale – e proponendo al contrario irrealizzabili politiche di programmazione della produzione sul modello sovietico. Tale politica del “doppio binario”, condotta in particolare in quei mesi dal Pci – che si presentava, cioè, come partito di governo e allo stesso tempo come partito di lotta e di opposizione –, se non aiutò il Paese a uscire dalla grave crisi economica e sociale, giovò certamente al partito di Togliatti per riconquistare la leadership del movimento operaio in Italia. Facendo leva su questa tattica politica egli infatti riuscì a dare al suo partito – uscito in parte sconfitto e moralmente abbattuto dalla recente competizione elettorale – nuovo slancio e a tenere sotto scacco, agendo su due fronti opposti, il governo, anche nelle importanti questioni di politica estera.
In questo periodo (inizi gennaio 1947) si colloca il primo viaggio di De Gasperi negli Stati Uniti. Dal governo di questo potente e ricco Paese egli sperava di ottenere aiuti economici e sostegno nelle controverse questioni concernenti il Trattato di pace: il viaggio fu molto utile dal punto di vista politico e pose le basi per i futuri aiuti economici che il governo americano avrebbe di lì a poco prestato al nostro Paese. Intanto però in Italia la situazione politica era andata rapidamente deteriorandosi: il “viaggio americano” del presidente del Consiglio contribuì ad acutizzare lo scontro tra comunisti e democristiani. Dopo che i repubblicani fecero mancare il loro sostegno al governo (19 gennaio), De Gasperi rassegnò le dimissioni e fu nuovamente incaricato dal capo dello Stato di formare un nuovo esecutivo. Il III governo De Gasperi fu praticamente una riproposizione di quello precedente, con una base politica di consenso più ristretta, ma con alcune novità nella distribuzione dei Ministeri.

II secondo governo De Gasperi (13 luglio 1946- 20 gennaio 1947), sostenuto dai tre grandi partiti di massa e dai repubblicani
Il nuovo governo (il secondo tripartito e il terzo retto da De Gasperi) giurò fedeltà nelle mani del capo provvisorio dello Stato la mattina stessa del 2 febbraio, mentre la presentazione del programma di governo all’Assemblea costituente per ottenere da essa la fiducia, fu rinviata a dopo l’elezione del nuovo presidente della Costituente, che avvenne l’8 febbraio nella persona di Umberto Terracini. Subito dopo, il presidente De Gasperi presentò all’Assemblea il programma di massima del nuovo governo e insistette sulla necessità per l’Italia di firmare il Trattato di pace, rinviando a epoca successiva, quando la normalizzazione delle relazioni internazionali lo avrebbe consentito, la questione della revisione delle clausole più punitive. Il Trattato, dopo non poche peripezie istituzionali, fu firmato a Parigi per parte italiana dall’ambasciatore Meli Lupi di Soragna, il 10 febbraio, come previsto, mentre nel Paese venivano osservati dieci minuti di silenzio in segno di protesta. Il 2 febbraio, quasi sommessamente veniva votata la fiducia al III governo De Gasperi. Questo fu un governo brevissimo; dagli storici e dagli osservatori politici fu considerato come un semplice governo di transizione, anche se non lo fu nella mente di coloro che lo sostennero. Esso durò soltanto tre mesi (dal 2 febbraio al 13 maggio 1947): ma in questo breve lasso di tempo accaddero nell’ambito della politica in Italia e nel mondo avvenimenti importantissimi, che avrebbero fortemente influenzato il destino dell’Europa, e non soltanto di questa, per quasi cinquant’anni. Fu in questo periodo infatti che la crisi internazionale che già covava sotto la cenere da diverso tempo, si acutizzò e lo scontro politico-strategico tra Stati Uniti e Unione Sovietica venne in piena luce: iniziava cioè il periodo della “guerra fredda” tra le due superpotenze.
Il necessario compromesso costituzionale
Il testo provvisorio della Costituzione preparato dalla “Commissione dei 75” e successivamente rivisto dal “Comitato dei 18” fu portato per la discussione e per l’approvazione davanti all’Assemblea costituente il 4 marzo 1947. Il presidente Terracini stabilì l’ordine dei lavori nel modo seguente: discussione generale della struttura della Carta costituzionale; esame dei dieci titoli di cui era composta (quattro della prima parte concernente i «diritti e doveri dei cittadini», e sei della seconda riguardante l’«ordinamento della Repubblica»); infine, esame dei singoli articoli. La discussione generale si chiuse il 12 marzo con un discorso del presidente della “Commissione dei 75”, l’onorevole Ruini, mentre quella sui titoli, iniziata il 13, terminò il 21 marzo. In tali impegnative discussioni si cimentarono i maggiori esponenti delle forze politiche: sia gli uomini della vecchia guardia liberale, sia i nuovi leader dei cosiddetti “partiti di massa”, sia i maggiori giuristi e intellettuali presenti nella Costituente: tra gli altri, Calamandrei, Mortati, Croce, Marchesi, La Pira. Dopo di che si passò all’esame e all’approvazione dei singoli articoli. Questa fase iniziò il 22 marzo e si concluse, dopo la lunga interruzione estiva (dal 22 luglio al 10 settembre), il 22 dicembre, quando fu votato il testo definitivo, che entrò poi in vigore il 1° gennaio del 1948.
Circa il modello di Costituzione da adottare, nell’Assemblea costituente si delinearono due tendenze in qualche modo contrapposte: i rappresentanti della vecchia classe dirigente prefascista proposero un tipo di Costituzione “corta”, sul modello dello Statuto albertino, che si ponesse in continuità con le vecchie istituzioni della tradizione liberale, come se il fascismo, la guerra e la lotta di liberazione, fossero state semplici vicende, o quasi insignificanti parentesi, di un passato recente in qualche modo da rimuovere e dimenticare. Invece i rappresentanti dei grandi partiti di massa, che avevano fatto la Resistenza e che in quel momento erano alla guida del Paese, proposero un tipo di Costituzione “lunga”, che in qualche modo fosse anche di rottura con il passato istituzionale del Paese e nella quale far rientrare i grandi ideali di libertà per i quali si era lottato contro le dittature, e i princìpi di fondo della loro visione politica. Fu così che i cattolici portarono nella nuova Carta costituzionale la loro sensibilità in materia di diritti umani, di tutela della famiglia e degli altri organismi intermedi anche di livello istituzionale (autonomie locali e decentramento amministrativo), mentre i partiti della sinistra portarono la loro sensibilità per i problemi del mondo del lavoro e dello sviluppo della società civile; essi, inoltre, furono i più convinti sostenitori del modello di “democrazia parlamentare” con sistema bicamerale paritetico. Su questa materia i democristiani lavorarono per temperare l’eccessivo “parlamentarismo” delle sinistre e quindi per scongiurare il pericolo di ogni forma di giacobinismo assembleare; in Vaticano invece si sarebbe preferita l’adozione di una forma di governo che desse più poteri al presidente della Repubblica o al capo del governo in modo da assicurare al Paese governi più stabili.

L’ambasciatore Antonio Meli Lupi di Soragna firma per l’Italia a Parigi il Trattato di pace, il 10 febbraio 1947
Pio XII all’inizio dell’ottobre 1946 diede incarico ai gesuiti della Civiltà Cattolica di aiutare la Santa Sede a formulare ed esplicitare meglio il punto di vista cattolico sulle materie di interesse morale e religioso di cui si sarebbe occupata la Costituente. Essi in particolare avrebbero dovuto consigliarla su che cosa era possibile chiedere all’autorità secolare nelle materie di interesse comune, nel pieno rispetto del diritto della Chiesa e delle regole internazionali. La Santa Sede per tutta la durata dei lavori della Costituente fu oltremodo sollecita nel «portare a conoscenza» dei deputati cattolici il suo punto di vista, e non soltanto su materie di interesse religioso. Va ricordato però che ci furono questioni – non molte in realtà – sulle quali tra Santa Sede e costituenti cattolici ci furono disparità di vedute, e altre sulle quali non c’era comunanza di intenti neppure tra gli stessi costituenti democristiani. Sta di fatto però che l’apporto dato dalle gerarchie vaticane (per mezzo dei costituenti cattolici) al lavoro di redazione della nuova Carta costituzionale della Repubblica fu notevole e a volte anche di valore; spesso esso contribuì a moderare e smussare, su alcune importanti questioni di ordine sociale, il “tono radicale” che le forze politiche di destra o di sinistra intendevano darle.
Per lunghi mesi il lavoro costituzionale fu portato avanti dalle forze politiche – pur con qualche inevitabile frizione, che divenne sempre più forte col passare del tempo – con notevole senso di responsabilità e con grande determinazione. La fase più attiva del lavoro coincise con il cosiddetto periodo di “coabitazione forzata” tra i partiti della “triarchia”, che funzionò, anche se con vicende alterne, dal giugno del 1946 fino al maggio del 1947: fu in questo periodo infatti che si discussero le parti più importanti e impegnative del testo costituzionale, quelle, cioè, di carattere più ideologico e programmatico. Il tipo di Costituzione che alla fine fu approvato risentì molto di tale «compromesso costituente», tra forze politiche così diverse, quali di fatto erano la Democrazia cristiana di De Gasperi e il Partito comunista di Togliatti. È apprezzabile però il tipo di sintesi, che in essa fu sapientemente operato, fra tradizioni e ideologie così differenti, che fa della Costituzione italiana una delle più aperte e avanzate tra quelle che furono promulgate in quegli anni. La presenza in essa di «norme precettive» e di «norme programmatiche» dava poi il discrimine tra ciò che doveva essere immediatamente attuato e ciò che invece avrebbe dovuto indirizzare nel futuro l’azione politica del governo.
La fase più combattiva e laboriosa dell’intero lavoro costituente fu quella della discussione e dell’approvazione dei singoli articoli: in essa infatti le forze politiche, in particolare quelle del “tripartito”, fecero sentire tutto il peso della loro influenza politica, cercando però di non vanificare il lavoro compiuto dai costituenti fino a quel momento. Il cosiddetto compromesso costituente, ispirato al principio della collaborazione attiva tra le maggiori forze politiche e morali del Paese, sulla base del quale era iniziato e, in buona parte, proseguito il lavoro dei costituenti incaricati di scrivere la Carta fondamentale dello Stato, proprio in questa fase fu infatti messo a dura prova. Se non si arrivò a uno scontro diretto o a una rottura tra le forze politiche lo si deve anche al realismo e alla lungimiranza dei maggiori leader politici, interessati più a mantenere rapporti di collaborazione e di intesa con la controparte politica, che a insistere su alcuni principi cari alla propria tradizione ideologica.