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INCHIESTA
tratto dal n. 06 - 2006

A quarant’anni dalla nascita della Federazione italiana settimanali cattolici (Fisc)

La lunga strada dei “giornali del curato”


Viaggio nella rete dei settimanali diocesani italiani, 160 testate, un milione di copie vendute. Fenomeno di giornalismo “dal basso”. Con un passato e un futuro pieno di ambizioni…


di Gianni Valente


Alcune testate di settimanali diocesani

Alcune testate di settimanali diocesani

«Nel campo giornalistico, dove a ogni passo si incontrano delle tombe di effimeri, quattro anni di vita sono già un buon risultato». Così nel gennaio 1886 scrivevano i redattori del Resegone, il foglio fondato quattro anni prima dai cattolici “intransigenti” di Lecco con lo scopo di contrastare la «sfrenata licenza di una stampa che tutto svisa, pur di suscitare funestissimo l’odio contro la religione e depravare sempre più la società, già precipitata in un abisso di corruzione». Da allora, di anni ne son passati altri 120. Oggi il Resegone, vivo e vegeto «settimanale d’informazione del Lecchese», sul suo sito internet si vanta di essere «il solo punto dal quale Lecco si vede com’è». E i già compiaciuti redattori di allora forse oggi strabuzzerebbero gli occhi, davanti al folto drappello di vecchie glorie ultracentenarie – dall’Araldo abruzzese di Teramo alla Trebbia di Bobbio, dal Letimbro di Savona alla Gazzetta di Foligno – che figurano nella lista sempre più affollata dei settimanali diocesani italiani.
Quelli che un tempo erano etichettati come i “giornali del vescovo” sono fatti così: erba tenace, che non molla. Mentre i circuiti mediatici e anche la storiografia cattolica si ostinano a ignorarli, segregandoli nel limbo marginale della “stampa minore”, i fogli legati alle diocesi e alla comunità della Chiesa italiana stanno vivendo l’ennesima tappa della loro silenziosa ma ininterrotta espansione. Nel 1966, quando fu fondata la Federazione italiana dei settimanali cattolici (Fisc), i primi ad aderire al nuovo organismo furono una quarantina. Nel 1996 se ne contavano 137. L’ultimo indirizzario sfornato dalla Fisc nell’anno 2003-2004 raccoglieva 158 testate. Ma don Giorgio Zucchelli, direttore del Nuovo Torrazzo di Crema e attuale presidente della Fisc, assicura che negli ultimi mesi è stata raggiunta la soglia dei 160. Proprio in questi mesi va su e giù per tutta Italia a coordinare i progetti su base regionale – finanziati anche dalla Conferenza episcopale italiana con 150mila euro all’anno – che dall’Emilia Romagna alla Sicilia, dalle Marche alla Puglia, allungheranno ben presto la lista. «Il traguardo» confida a 30Giorni con baldanza lombarda «è di avere un settimanale per ognuna delle 226 diocesi italiane». Se il media system drogato di informazione sempre più virtuale continua a trattarli con sufficienza, chi si è accorto per tempo delle potenzialità di questo fenomeno mediatico così radicato nel “Paese reale” – quasi un milione di copie complessive vendute ogni settimana, senza resa per tutt’Italia, un indotto di lettori calcolato intorno ai quattro milioni – sono gli operatori della pubblicità, che cominciano a considerare l’intera rete nazionale come interlocutore unitario delle proprie strategie: «Da qualche mese» racconta Zucchelli «ci hanno contattato quelli della agenzia Publikompass. Con loro e con altri abbiamo allo studio alcuni progetti di inserzione pubblicitaria flessibili, sia sul piano nazionale che a livello regionale…».

Anomalia italiana
Solo i sociologi più avveduti – come il professor Ilvo Diamanti e il suo allevo Luigi Ceccarini dell’Università di Urbino – hanno intuito che la galassia nascosta dei settimanali diocesani è uno strumento unico per avere il polso degli umori profondi che si muovono nella Chiesa – e anche nella società – italiana. Non esiste in nessun altro Paese una simile rete di testate sparsa – sia pur in modo non uniforme – su tutto il territorio, che registra e giudica gli eventi ecclesiali e mondani dal punto d’osservazione “periferico” delle Chiese locali. E che proprio per la sua immanenza alle realtà locali rappresenta una “flotta” variegata e difforme.
Il primo macroscopico dato di differenziazione è proprio la non omogenea distribuzione territoriale. Più del 50% delle testate diocesane è concentrato al nord – Piemonte, Lombardia e Triveneto. Una discreta percentuale è dislocata nelle regioni “rosse” del centro (32%). Dei 32 periodici presenti al sud quasi la metà sono concentrati nelle due isole maggiori. La debolezza del Mezzogiorno peninsulare è sottolineata dal fatto che Molise e Lucania sono le uniche regioni senza alcuna redazione diocesana. Ma la disomogeneità del fenomeno-settimanali si registra soprattutto ab intra. Confrontando profili e contenuti delle singole testate, è facile rilevare che accanto a un drappello trainante di giornali “veri”, confezionati con rigore professionale e in grado di occupare porzioni rilevanti – fino, in qualche caso, a raggiungere posizioni di monopolio – del mercato informativo locale, si affiancano testate di riflessione identitaria e fogli d’apparato dove le pagine finiscono monopolizzate dalle iniziative ecclesiali, in primis dall’agenda del vescovo e dei suoi collaboratori.
Il baricentro nordico e la stessa diversità di profili dei tanti “giornali del vescovo” sparsi per la penisola sono il punto d’arrivo di un lungo cammino. Da quasi centoquarant’anni i settimanali diocesani vivono e registrano dalla propria postazione a suo modo privilegiata le vicende del cattolicesimo italiano, con le sue luci e le sue ombre.


Nel nome di Dio. E del popolo sovrano
In principio ci fu l’Opera dei Congressi. Nell’Italia uscita dal Risorgimento, la Questione romana e il Non expedit tagliavano fuori i cattolici dalla partecipazione diretta alla vita politica. I primi periodici cattolici di base fioriscono allora, non tanto per input vescovile e prelatizio quanto per germinazione spontanea dal basso, come strumenti di collegamento e di espressione di quel multiforme e vitale “Paese reale” – cooperative agricole, leghe operaie e contadine, casse rurali, ambulatori, cucine e latterie sociali – che il movimento cattolico suscita senza contatti e commistioni con le istituzioni del nuovo Stato. Il primo, il Monte Rosa di Varallo Sesia, vede la luce già nel 1867. La Voce del Popolo di Torino (fondato da San Leonardo Murialdo come bollettino delle Unioni operaie cattoliche) inizia nel 1876. Nel 1878 è la volta di Verona Fedele. Al Congresso cattolico di Lodi del 1886 tale fioritura spontanea si trasforma in indicazione programmatica, con l’approvazione di un ordine del giorno dell’Albertario (il sacerdote-giornalista, direttore dell’Osservatore Cattolico, che finirà anche in prigione per la sua opposizione intransigente al regime liberale) nel quale «si fa voto che, secondo bisogno, siano pubblicati e disseminati piccoli giornali a basso prezzo e che trattino con criteri da cattolici, nei centri popolosi, le questioni religiose, morali, materiali, in forme gradevoli al popolo». Quella fase iniziale imprimerà per sempre alla stampa cattolica “di base” la vocazione localistica che ancora oggi segna i settimanali diocesani: già al Congresso cattolico di Lucca del 1887 ai giornali del movimento si dà l’input di «aderire alle necessità e ai gusti di ogni centro piccolo e grande, di cercare particolarmente la cronaca», fornendo a tutti informazioni «sulle necessità quotidiane della vita, sull’andamento dei prezzi, sulle quotazioni di bestiame, sul movimento dei commerci». I settimanali diocesani sono in gran parte condizionati dall’intransigentismo cattolico, che rivendica la restituzione del “maltolto” del 1870 come premessa per por fine all’autoesclusione dei cattolici dalla vita politica. Ma, come ha scritto Gianfranco Garancini, «l’opposizione al potere statale e alla classe dirigente e la difesa del papato nei riguardi delle usurpazioni temporali sono temi solo apparentemente primari». In realtà, i settimanali cattolici «sono figli della parte corale e “operaia” del movimento cattolico». La loro immanenza agli interessi concreti delle masse popolari cattoliche escluse dal potere è il vero terreno di scontro contro «la setta nefanda che opprime il Paese», rappresentante di quel liberalismo che «ha derubato la popolazione e continua col suo governo iniquo ed insensato a derubarla» (L’Osservatore Cattolico, 5 maggio 1898). Da questa lettura realistica delle condizioni del popolo, più che dall’intransigentismo riguardo a Questione romana e rapporti tra Stato e papato, traggono radice le persecuzioni (confische, chiusure, arresti) che l’Italietta massonica e oligarchica riserva ai settimanali cattolici – colpiti insieme a quelli socialisti – sul finire dell’Ottocento. Uno scontro con l’establishment che – dopo la parentesi dell’Italia giolittiana e dell’ingresso dei cattolici nella vita politica – si ripeterà con esiti ancor più cruenti sotto il fascismo. La denuncia delle carenze democratiche, la difesa dei diritti dei lavoratori e delle autonomie territoriali, già al centro dello scontro coi governi liberali, si ripete nel Ventennio. Ne seguono sedi devastate, arresti di giornalisti, sequestri di intere tirature. Parecchie testate, anche per le ristrettezze economiche, in quel periodo sospendono le pubblicazioni.

Alcune prime pagine d’epoca. Nel 1876 don Leonardo Murialdo dà inizio al bollettino Unioni Operaie Cattoliche

Alcune prime pagine d’epoca. Nel 1876 don Leonardo Murialdo dà inizio al bollettino Unioni Operaie Cattoliche

I giornali di don Camillo
Nel dopoguerra i settimanali diocesani vivono una fase incerta. Mentre si sviluppa la grande stampa laica e di partito, le difficoltà economiche e l’incertezza sulla propria identità sembrano condannare all’estinzione i residui foglietti dileggiati dal mondo laico e comunista come «circolari del curato». Come ha scritto don Giovanni Fallani, storico segretario della Fisc, «nel dopoguerra il grande palcoscenico della politica è Roma e i grandi problemi sono la ricostruzione e la difesa dal comunismo. Nulla di originale e di nuovo sembra venire dalle cento piccole Italie della provincia italiana». È solo col Concilio e con l’impulso dato da Paolo VI al giornalismo cattolico che anche i settimanali vivono un risveglio carico di nuovi fermenti. Nel 1966 i direttori di tutte le testate promosse dalle diocesi fondano la Fisc, come organismo volto a realizzare «lo scambio di collaborazione e servizi intesi a potenziare la stampa diocesana e a migliorarla sotto tutti i suoi aspetti». La rinascita di questi strumenti di base, favorita dai massimi vertici della Chiesa montiniana, è tutta imbevuta del linguaggio e della sensibilità ecclesiale dominante nel clima postconciliare. Il “documento programmatico” del Convegno di Brescia che la Fisc approverà nell’ottobre 1969 definisce come elementi essenziali per il settimanale diocesano «il rispetto del valore fondamentale dell’opinione pubblica», «il suo attuarsi nella Chiesa locale» e «l’osservanza delle norme professionali e tecniche del giornalismo». Rispetto alle vicende politiche ed economiche, si rivendica con forza che «il settimanale diocesano non accetta condizionamenti». Il soggetto promotore del settimanale diocesano viene identificato non nel vescovo o nella curia vescovile, ma nella comunità diocesana nel suo insieme che «gestisce l’impresa editoriale, attraverso un organismo competente e rappresentativo, in conformità ai criteri di una moderna impresa editoriale». Nel passaggio agli anni Ottanta, le linee programmatiche della Fisc abbandonano le parole d’ordine dell’assemblearismo ecclesiale postconciliare e muovono verso altri lidi. Già al Convegno di Lecco dell’82 l’allora presidente della Fisc don Giuseppe Cacciami denuncia «l’aggressione ideologica che i grandi mezzi di comunicazione stanno compiendo sul delicato tessuto vitale del territorio fatto di storia, di tradizioni vive, di realtà umane». Parla di «schemi culturali illuministi, siano essi marxisti o radicali» che soffocano «la vitalità di una porzione di popolo che vive la sua vita sul territorio». Paventa il connubio tra «egemonia culturale e centralismo burocratico» che riduce gli enti locali a «bandierine di un decentramento puramente quantitativo che manda in soffitta ogni diritto di partecipazione dalla base». In quegli anni, i settimanali diocesani rivendicano il loro ruolo essenziale nel sistema informativo nazionale. Rispetto alla grande stampa laica essi vogliono essere «l’altra parte della luna, la voce di culture tante volte umiliate dalla cultura ufficiale» (Gilberto Donnini). Nella loro battaglia a difesa della «cultura negata» del territorio e del Paese reale anche i settimanali rielaborano e rilanciano al loro livello il nuovo protagonismo sociale della Chiesa italiana al Convegno ecclesiale di Loreto del 1985, dove Giovanni Paolo II richiama i cattolici italici alla loro «antica e significativa tradizione di impegno sociale e politico». Il futuro cardinale Camillo Ruini già nel 1983 propugna «una pastorale che consideri le comunicazioni ecclesiali non come un suo settore, ma come una sua dimensione essenziale». Un caposaldo della riorganizzazione dell’intero sistema mediatico cattolico da lui stesso realizzato come presidente dei vescovi italiani sarà proprio il ripristino di un solido rapporto organico tra i vertici della Cei e la miriade di testate diocesane locali. Un intento programmatico che si concretizza quando su iniziativa della Cei e con il coinvolgimento degli organismi operativi della Fisc si costituisce il Servizio informazioni religiose (Sir), inaugurato nel gennaio 1989 come agenzia d’informazione religiosa che potenzia e amplia la precedente esperienza del Sis (Servizio informazioni settimanali) messa in piedi dall’Azione cattolica fin dagli anni Cinquanta. Nel corso degli anni il Sir diviene di fatto l’organo ufficioso della Conferenza episcopale italiana, accentuando anche il proprio profilo di strumento di contatto e di supporto “sinergico” tra la Cei e la rete dei settimanali diocesani, a cui dal centro vengono offerti «tempestivamente e professionalmente» articoli e servizi soprattutto su problematiche “sensibili” di rilievo nazionale (come i commenti di politica estera, le questioni di bioetica e le politiche della famiglia).
Solo i sociologi più avveduti hanno intuito che la galassia nascosta dei settimanali diocesani è uno strumento unico per avere il polso degli umori profondi che si muovono nella Chiesa – e anche nella società – italiana

Un coro a più voci
A scorrere i resoconti dei quarantennali dibattiti interni all’universo della stampa diocesana, c’è un cruccio che ricorre di continuo negli interventi dei direttori in tonaca e di quelli laici: la preoccupazione di fare giornali “veri”, smentendo il cliché che li confonde coi bollettini parrocchiali e li considera «espressione del livello più basso che la tecnica giornalistica può raggiungere» (Fallani). Anche oggi basta sfogliare la corposa mazzetta dei settimanali diocesani attualmente in circolazione per avere immediata percezione degli esiti differenziati prodotti dal lavoro delle diverse testate. All’ala trainante dei giornali che camminano sulle proprie gambe, sfoggiando floridi bilanci in attivo, si affiancano i fogli fortemente segnati da quelli che lo storico Gianpaolo Romanato ha individuato come vizi storici di tanta pubblicistica diocesana: ufficialità, toni enfatici per l’autorità ecclesiastica, elusione del dibattito, taglio apologetico e moralistico. La diversità di risultati dipende dal modo in cui interagiscono caso per caso diverse varianti: il rapporto di dipendenza col vescovo e con la curia, l’impronta più o meno personalistica trasmessa dal direttore, il livello professionale dei redattori, l’elaborazione locale degli input che provengono dalla Cei.
Ma l’esperienza quarantennale della Fisc consente di individuare alcune costanti. I settimanali che vivacchiano come veline ridondanti dell’autoccupazione ecclesiale finiscono per risultare poco appetibili anche per la minoranza dei cattolici praticanti. Spiega don Zucchelli: «Rimanere barricati nei confini comodi del giornale “clericale”, che parla solo di iniziative ecclesiali messe in campo dalle tante sigle cattoliche, risulta solitamente perdente dal punto di vista della diffusione. E si finisce spesso nelle secche del rosso di bilancio, che poi si cerca di tamponare con proventi ecclesiali o statali». Al contrario, l’ingrediente comune nelle “ricette locali” più apprezzate è il taglio informativo sulla realtà territoriale che già caratterizzava la stampa diocesana agli inizi della sua epopea. «I giornali che vanno bene» aggiunge Zucchelli «sono quelli che si ritagliano una platea di lettori che coincide con l’intera comunità locale, fornendo un’informazione sul territorio a 360 gradi, entrando nel concreto dei problemi del territorio anche con prese di posizione sui fatti politici. Insomma, l’ideale si verifica quando leggere il Nuovo Torrazzo – il settimanale di cui sono direttore – equivale a sentirsi cremaschi, come mangiare i tortelli o il salva con le tighe». Una prospettiva “localistica” che aggira il rischio di provincialismo ricorrendo anche al contributo dei missionari di provenienza locale, spesso arruolati come «corrispondenti» sparsi per i quattro angoli del mondo. E garantisce ipso facto, nell’affronto dei problemi politici e sociali (vedi l’articolo seguente), la persistenza di una legittima e salutare pluralità di posizioni, refrattaria a ogni meccanismo di omologazione.


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