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INEDITI
tratto dal n. 07/08 - 2006

GLI EBREI NASCOSTI NEI MONASTERI

Con gli occhi di una bambina


La storia di una famiglia ebrea di Torino salvata dalle religiose agostiniane dei Santi Quattro Coronati, raccontata da una delle figlie, che quando fu nascosta nell’antico monastero aveva otto anni


di Amalia Viterbo


Sono nata il 18 agosto 1935 a Torino: mia madre era maestra elementare e mio padre mediatore in pelli grezze. Mi seguirono altri tre figli: Laura (1938), Davide (1939) e Silvio (1946).
Nonostante le persecuzioni razziali e i pericoli della guerra, la mia infanzia è stata abbastanza serena per l’atmosfera familiare tranquilla e rassicurante che i miei genitori seppero creare attorno a noi figli.
Ricordo bene che nell’autunno 1938 la mamma dovette lasciare la scuola in quanto ebrea; papà, invece, continuò il suo lavoro autonomo, e viaggiava molto, ma quando era a casa ci stava molto vicino e ci faceva giocare. Quando avevo circa tre anni, mi regalò una bicicletta con le ruote posteriori e mi insegnò a pedalare nel corridoio di casa: a me piaceva tanto vederlo salire sulla mia piccola bicicletta e ridevo a crepapelle.
Poco dopo lo scoppio della guerra iniziarono i bombardamenti sulla città; le sirene suonavano nel cuore della notte e tutti dovevamo abbandonare i nostri letti caldi per rifugiarci in cantina: più di una volta papà e mamma, dopo averci avvolti in fretta e furia in una coperta, ci portavano in braccio, addormentati, al rifugio.
C’era l’oscuramento dei vetri delle finestre perché i piloti degli aerei non scorgessero luci; spesso però gli spostamenti d’aria provocati dalle bombe facevano andare in frantumi i vetri, e poiché non si trovava da sostituirli, si ricorreva al legno compensato, che ben presto comparve in tutte le case della città.
Uno scorcio del chiostro dei Santi Quattro Coronati in una foto d’epoca

Uno scorcio del chiostro dei Santi Quattro Coronati in una foto d’epoca

Nel 1941 compii i sei anni, ma come ebrea non potevo frequentare la scuola pubblica del mio quartiere. Perciò i miei genitori mi iscrissero alla prima classe della scuola ebraica. Ogni mattina con papà prendevo il tram numero13, che allora passava in via San Donato, non lontano da casa. La mia maestra era la signorina Bianca Amar che c’insegnava anche l’ebraico: era molto buona e giusta e anche se con lei sono stata un solo anno scolastico ne ho sempre serbato un ottimo ricordo. Mi fece tanto piacere rivederla dopo la guerra, e in particolare negli ultimi tempi della sua vita quando era ospite della Casa di riposo ebraica.
Nel 1942 i bombardamenti si intensificarono e papà, che si era salvato miracolosamente da un attacco aereo al treno su cui viaggiava (il suo vagone si era fermato sotto una galleria), decise lo sfollamento dalla nostra abitazione torinese verso una piccola località della valle di Lanzo, il Fè. I nonni non vollero muoversi e rimasero a Torino, ma le incursioni aeree erano sempre più numerose e devastanti, dal Fè vedevamo i bagliori delle bombe incendiarie. Mamma era molto preoccupata per la vita dei suoi genitori e un giorno ritornò con me in città e quasi li obbligò a scappare da Torino. Da quel giorno nonna Gemma e nonno Marco vissero con noi fino alla fine della guerra.
Io avrei dovuto frequentare la seconda elementare, ma mi era proibito sedermi con gli altri scolari in quanto ebrea. La maestra locale fu molto gentile e comprensiva e venne appositamente per me tutti i sabati pomeriggio da Precaria, dove abitava, al Fè, distante due chilometri. Mi assegnava i compiti per tutta la settimana e mi spiegava le lezioni; non ricordo il suo nome, ma la sua bontà e la sua pazienza sono ben impresse nella mia mente. Non ricordo neppure in che modo mi fu poi riconosciuta l’ammissione alla terza elementare.
L’inverno di quell’anno fu particolarmente freddo; tutti portavamo scarponi chiodati per non scivolare sulle lastre di ghiaccio che si formavano sui sentieri.
Altri parenti ci raggiunsero al Fè: la mamma della nonna, che chiamavamo “nonna bis”, due giovani suoi nipoti e nostri cugini, Ugo e Franco, una sorella di mio padre, zia Gina, con la figlia Editta e il figlio Bruno, sposato e padre di un piccolo bambino. La bisnonna, nonostante l’età, usciva ogni giorno e per ripararsi le mani dal freddo usava un manicotto di pelliccia. Era una donna dalla tempra fortissima e sapeva imporre la sua personalità. Ricordo che parlava quasi sempre in dialetto e arricchiva i suoi discorsi con vecchi modi di dire, come “sacucin d’Ulanda!” se per caso era irritata. Ma nonna bis, Ugo e Franco rimasero con noi poco tempo e si trasferirono poi a Mattie, in val di Susa.
Nel paese ci conoscevamo tutti e i rapporti erano molto buoni: i figli dei contadini e di altre famiglie torinesi sfollate erano i nostri amici di giochi, eravamo molto affiatati e ci divertivamo con poco. Ad esempio confezionavamo abiti con le grandi foglie dei castagni, disegnavamo sui muri con pezzetti di talco o di mattone che trovavamo sui sentieri. Ci piaceva anche sfregare il talco o il mattone per ottenere quella polvere bianca e rossa che noi utilizzavamo come cipria. Abitando in campagna, anche noi bambini nati in città abbiamo imparato a conoscere molto bene la natura e gli animali domestici e selvatici. Trascorrevamo le giornate serenamente e la guerra non ci insidiava.
Ma nel ’43 tutto cambiò, in particolare dopo l’8 settembre. I soldati tedeschi giravano ovunque, anche l’oasi del Fè divenne pericolosa perché la caccia agli ebrei era durissima. Papà capì che bisognava fuggire il più presto possibile verso il sud d’Italia, dove le truppe angloamericane, sbarcate in Sicilia, stavano risalendo la penisola. La prima idea era di raggiungere Napoli, ma il progetto andò in fumo perché le vie di comunicazione erano impraticabili. Si decise allora di andare a Roma, dove sia mamma che papà conoscevano persone fidate. Essendo in sette, le valigie e i fagotti erano numerosi e ingombranti. Tuttavia il viaggio in treno filò liscio anche se parve interminabile per le numerose soste che talora duravano parecchie ore. Il tratto della linea gotica in Toscana fu molto lungo da superare perché i tedeschi vi avevano concentrato uomini e armamenti e ogni loro treno aveva la precedenza sul nostro. A Firenze sostammo tantissimo, e dal finestrino vedevamo i soldati tedeschi radersi, consumare i pasti, fumare.
La sera del 16 ottobre finalmente raggiungemmo la stazione romana Termini, e anche se stufi del lungo viaggio, i miei genitori decisero di trascorrere ancora quella notte sul treno.
Fu un’idea brillante. Nella città era in pieno svolgimento il rastrellamento degli ebrei. Come è tristemente noto, ne furono deportate in Germania alcune migliaia e di essi pochissimi fecero ritorno.
Paracadutisti tedeschi durante un rastrellamento in una strada di Roma nella primavera 1944

Paracadutisti tedeschi durante un rastrellamento in una strada di Roma nella primavera 1944

Il mattino seguente ci recammo all’albergo Massimo D’Azeglio, molto vicino alla stazione. La paura si trasformò in terrore quando la cameriera, chiamata dal portiere perché ci aiutasse a trasportare i bagagli, vista la nonna Gemma, esclamò contenta: «Ciareja, madama Levi, non mi riconosce? Sono stata commessa della salumeria Costa in via Cibrario». La nonna rispose al saluto con un filo di voce e le fece cenno di tacere. Il cognome Levi è uno dei più noti anche ai tedeschi per qualificare una persona come ebrea; quando fummo nella stanza, la nonna spiegò ogni cosa all’ignara cameriera, la quale chiese scusa.
Per ovvi motivi non rimanemmo a lungo nell’albergo; i trasferimenti furono abbastanza numerosi finché venimmo accolti in un convento di suore. Molte persone ci aiutarono, in particolare il professor Onorato Tescari che era introdotto nell’ambiente del Vaticano. Egli ci presentò alla madre superiora del convento dei Santi Quattro Coronati, e una suora, Maria Artemia, ci offrì la sua stanza, dove però papà e nonno non potevano restare per insufficienza di spazio. Essi passarono le loro notti in una cappella attigua al settore del convento dove vivevano le suore di clausura.
Il professor Tescari era un uomo alto di statura, magro di corporatura, con i capelli grigi e gli occhi azzurri. Era un uomo di vasta cultura classica e amava in particolare sant’Agostino, di cui aveva tradotto le opere. Era piuttosto riservato, ma molto affabile. Tramite il professor Tescari, che gentilmente ci aveva procurato il permesso, potei visitare in compagnia della mamma una parte della Città del Vaticano di cui ricordo poco, mentre mi sono rimaste impresse le guardie svizzere con le loro uniformi multicolori e le lance appuntite.
Durante la giornata in convento papà e nonno ci raggiungevano e uscivamo con loro fino all’ora del coprifuoco. Quando pioveva o faceva molto freddo restavamo in convento: potevamo visitare tutti i locali, dalla grande cucina ai laboratori dove le sordomute cucivano, dalla lavanderia alla cappella nella quale una giovane e bella suora insegnava a noi ragazzi le preghiere.
C’era anche un grande giardino coltivato e con piante da frutta; in un lato avevano costruito la porcilaia e ricordo molto bene che a noi piaceva tantissimo guardare i maialini succhiare il latte oppure osservare l’agitazione nei suini adulti quando si avvicinava alla porta la suora con il secchio del mangime.
Nei primi tempi del nostro soggiorno in convento avevamo ancora i documenti di identità sui quali era stampato «di razza ebraica». Quando venimmo a sapere che le SS non rispettavano l’inviolabilità dei monasteri, la madre superiora del settore di clausura, suor Maria Rita, donna dotata di grande intelligenza, si preoccupò della nostra incolumità e, tramite le sue numerose conoscenze, ci fece avere documenti con false identità. I nonni presero il cognome Mancini, noi quello De Sanctis; luogo di nascita Napoli, residenza lungomare Caracciolo. L’autore delle carte false era un semplice, ma coraggioso, brigadiere della polizia, il signor Ampio.
Dopo la cattura di alcune famiglie ebree nascoste nel monastero di San Paolo fuori le Mura, anche i miei genitori ebbero paura e, con l’aiuto delle suore, cercarono un nascondiglio sicuro nel caso che anche il monastero dei Santi Quattro Coronati venisse perquisito dalla Gestapo. A mia madre fecero indossare gli abiti di una suora e a noi fu mostrata una botola nascosta da un armadio.
Una sera fummo presi dal panico perché papà e mamma non erano ancora rientrati ed era già scattato il coprifuoco. Per di più la portinaia del convento venne tutta trafelata a dire alla madre superiora che i tedeschi stavano per penetrare. In un attimo abbandonammo la nostra stanza e scendemmo nella botola: il cuore batteva forte e l’angoscia cresceva col passare del tempo. I miei genitori non erano arrivati e pensavamo che li avessero catturati. Dopo circa un’ora sentimmo spostare l’armadio e pensammo di essere stati scoperti; invece erano le suore che venivano a comunicarci lo scampato pericolo e l’arrivo dei miei. I nostri volti si rasserenarono e ci abbracciammo. Per nostra fortuna la portinaia aveva preso un abbaglio perché aveva scambiato per tedeschi dei contrabbandieri di caffè.
Quando eravamo nel convento andavamo spesso nei giardini del Colle Oppio dove giocavamo a rincorrerci, ma guai se calpestavamo le aiuole e i prati! Subito venivamo redarguiti e richiamati dai genitori o dai nonni, i quali temevano che passassero le guardie municipali e ci dessero la multa, o che ci chiedessero i documenti che erano falsi. E proprio a Roma nonna Gemma, sempre paziente e buona, mi diede uno schiaffo – l’unico – perché avevo attraversato di corsa una strada.
Quell’anno naturalmente non frequentai la scuola; cambiammo ancora residenza e ci trasferimmo in un grande appartamento sito in via Pierluigi da Palestrina, vicino a piazza Cavour. L’alloggio apparteneva a una famiglia fascista che si era spostata nell’Italia settentrionale. In una stanza avevano rinchiuso ciò che non potevano trasportare e noi ragazzi eravamo molto curiosi di sapere cosa c’era al di là di quella porta, ma la chiave l’avevano portata via. Rispetto allo spazio limitato della camera del convento, la nuova residenza ci sembrava un paradiso e potevamo correre nel lungo corridoio e fare tanti giochi. Alcuni li inventavamo noi: ne ricordo uno in particolare che si svolgeva nella sala da pranzo. Salivamo uno alla volta su una sedia a capotavola, poi camminavamo sul tavolo e quando arrivavamo al centro, proprio sotto il lampadario, ci chinavamo, incrociavamo le braccia sul petto e dicevamo “da bade, dabù”, poi scendevamo sulla sedia posta all’altra estremità del tavolo e così via finché non eravamo stufi.
Abitando in quella casa eravamo molto più liberi di giocare che nei giardini pubblici, per il timore dei genitori e dei nonni di qualche nostra trasgressione che, come ho già detto, li costringesse a presentare i documenti falsi. Un giorno eravamo sole in casa, la nonna Gemma e io, squillò il campanello e io andai ad aprire. Era la guardia comunale che ci doveva consegnare le tessere annonarie. Chiamai la nonna e la guardia le domandò: «Come si chiama, signora?». La nonna si era momentaneamente dimenticata del cognome falso, ma, sebbene colta dalla paura, ebbe la presenza di spirito di dire alla guardia: «Scusi un attimo, ho lasciato la pentola sul fuoco». Così si allontanò, andò a prendere la carta di identità, lesse il cognome, poi ritornò e disse: «Sono la signora Gemma Mancini». La guardia le consegnò le tessere e se ne andò senza accorgersi di nulla. Richiusa la porta, la nonna dovette sedersi perché le gambe le tremavano, il cuore le batteva forte e le guance erano di fuoco.
Una strada del Ghetto ebraico di Roma in una foto d’epoca

Una strada del Ghetto ebraico di Roma in una foto d’epoca

I mesi passavano e gli angloamericani avanzavano con molta lentezza. Finalmente sbarcarono ad Anzio, poco distante da Roma, e pensavamo di essere presto liberi. Si sentivano le cannonate, ma la resistenza tedesca fu tenace. I rifornimenti di viveri cominciarono a scarseggiare e i prezzi al mercato nero salivano alle stelle. Papà aveva portato con sé del denaro, ma il protrarsi della guerra aveva ridotto al lumicino le nostre risorse.
Si mangiava poco e male perché tutto scarseggiava e con la tessera si aveva diritto a razioni irrisorie; soltanto al mercato nero si poteva acquistare ogni sorta di cibo, ma i prezzi erano proibitivi per le nostre possibilità. A Tor di Nona c’erano varie persone che vendevano illegalmente; avevano un’organizzazione straordinaria e quasi mai la polizia riusciva a pescarli, perché quando in lontananza giungeva il grido: «Piove, piove!»; significava che un questurino era nei paraggi. Immediatamente tutti i venditori abusivi facevano sparire la mercanzia nelle loro abitazioni e sospendevano gli affari fino a che il pericolo fosse scomparso. Poi, come d’incanto, ricomparivano con i loro prodotti e il commercio riprendeva.
Bisognava escogitare qualche sistema per racimolare un po’ di soldi: mamma andava per strada a vendere rocchetti di filo, aghi, spilli, ma i guadagni erano minimi. Un amico di mio padre venne a sapere che il comando militare tedesco doveva effettuare un trasporto di pellami al nord; il babbo si offrì di accompagnare l’autista e di trovare un acquirente, dimostrando un coraggio non comune per provvedere alla famiglia. L’affare riuscì alla perfezione e papà senza grandi difficoltà fece ritorno con un bel gruzzolo che ci permise di sopravvivere fino alla Liberazione.
Le truppe alleate erano sempre più vicino a Roma e nella città non arrivava più cibo. Si mangiavano carrube, pane duro e nero; mancava la corrente elettrica e si usavano le lampade ad acetilene o ad allume di rocca, che emettevano poca luce e tanto fumo. I mezzi pubblici non circolavano più; la città era come cinta d’assedio.
Le truppe tedesche alla fine di maggio del ’44 ripiegarono verso il nord, molti erano feriti ma non tutti trovavano posto sui camion o sulle auto dell’esercito, perché nei combattimenti molti erano stati distrutti. Per rimpiazzare gli uomini caduti o feriti gravemente, Hitler non aveva esitato a mandare al fronte giovanissimi ragazzi di 16-17 anni ancora imberbi, ma con la stessa tracotanza dei loro compagni adulti. Per fortuna in città non vi furono gravi scontri; solo nelle zone periferiche i tedeschi tentarono, ma invano, di fermare gli angloamericani. I soldati della Wehrmacht erano allo sbando: io li ho visti laceri e stanchi mentre abbandonavano Roma.
Un giorno il nonno fu preso da compassione per quei giovanissimi soldati tedeschi ed esprimendosi nella loro lingua si avvicinò a un gruppetto che si era fermato nel giardino di piazza Cavour per una breve sosta e diede loro dei soldi perché si dissetassero.
Un ricordo di parecchio tempo prima: un giorno mia madre, mia sorella e io eravamo sul tram, nella vettura c’erano alcuni soldati tedeschi e uno di loro, quando vide la piccola Laura con i suoi riccioli biondi, le si avvicinò e l’accarezzò, e disse che gli ricordava la sua bambina che da parecchio tempo non poteva più abbracciare. Anche se il gesto compiuto dal soldato era di tenerezza, mia madre ebbe tanta paura perché i militari germanici incutevano terrore non soltanto per le armi che portavano, ma soprattutto per il loro comportamento rigido e duro e per la loro lingua così metallica e imperiosa. Ancora adesso, quando sento parlare in tedesco mi vengono i brividi e se mi capita che mi vogliano vendere un prodotto tedesco, mi rifiuto di acquistarlo.
La sera tra il 3 e il 4 giugno giunsero dalla strada delle grida. Noi non capivamo. Poi ci sembrò che dicessero: «I ladri, i ladri!». Invece urlavano: «Gli americani, gli americani!». Il mattino dopo vedemmo sfilare i carri armati alleati e tutti eravamo pazzi di gioia. Che differenza tra i soldati tedeschi e gli angloamericani ben pasciuti, ben vestiti e ben armati! Lanciavano alla gente festante tavolette di cioccolata e altre prelibatezze che da tanto più nessuno aveva assaporato.
Poco alla volta in città la vita riprese. Mamma ottenne il posto da maestra nella scuola elementare pubblica e io potei frequentare, con un anno in ritardo, la terza elementare, mentre la mia sorellina Laura iniziava la prima. Ma il ritorno a Torino non era ancora possibile e le preoccupazioni per i parenti rimasti colà erano grandi perché non avevamo loro notizie da molto tempo.
Mamma, utilizzando le sue limitate conoscenze della lingua inglese, fece conversazione con molti militari angloamericani e divenimmo amici di un soldato nero americano che spesso veniva a trovarci e ci portava tante buone cose da mangiare. Si chiamava Johnson, era alto e robusto e sulle sue possenti mani teneva senza alcuno sforzo due di noi bambini e ci faceva girare come se fossimo su una giostra. Gli eravamo molto affezionati; purtroppo lo mandarono in Normandia, dove morì in combattimento.
Papà riprese il suo lavoro con i clienti del sud, non sempre senza pericoli nonostante la Liberazione. Il momento più grave fu quando, in uno dei tanti viaggi per lavoro, venne arrestato dalla M.P. (Militar Police) e messo in prigione per alcuni giorni. Fu un’esperienza traumatica che sconvolse il babbo: i suoi capelli diventarono di colpo bianchi come se fosse invecchiato improvvisamente di dieci anni. I fatti si svolsero così: papà e un amico erano a bordo di un camion e facevano ritorno a Roma. Nei pressi di Terracina dei soldati americani con la jeep bloccarono il camion, imposero a papà e all’amico di scendere e li obbligarono a seguirli con urla, spintoni e schiaffi. Erano ubriachi e sostenevano che il camion viaggiava a velocità troppo elevata e che, nonostante i loro ripetuti segnali di fermarsi, il camion aveva proseguito la sua corsa. Il babbo e l’amico protestarono per i modi con i quali venivano trattati, ma i soldati non sentirono ragioni e li trasferirono al loro comando; furono rinchiusi in una cella e trattenuti per alcuni giorni. Papà non pensava mai più di subire dei maltrattamenti e un’ingiustizia proprio dagli americani che considerava liberatori. Fu per lui un grave colpo che ebbe ripercussioni sia sulla psiche che sul fisico. Diceva che i tedeschi, pur tanto odiati, non l’avevano mai trattato così duramente quanto gli americani, nei quali aveva riposto tante speranze per un mondo migliore.
Avemmo il piacere di rivedere zia Rita Montagnana, sorella della nonna, e suo marito Palmiro Togliatti, che si erano stabiliti a Roma dopo il lungo soggiorno in Unione Sovietica. Rita e Palmiro vennero alcune volte a farci visita e noi andammo a casa loro. Lei era sempre sorridente e attivissima. Palmiro aveva un aspetto molto compassato, a prima vista sembrava freddo e distaccato, invece, soprattutto con noi bambini, era disponibile, ci prendeva in braccio e ci raccontava favole ed episodi della sua vita
Tuttavia, avemmo il piacere di rivedere zia Rita Montagnana, sorella della nonna, e suo marito Palmiro Togliatti, che si erano stabiliti a Roma dopo il lungo soggiorno in Unione Sovietica. Rita e Palmiro vennero alcune volte a farci visita e noi andammo a casa loro. Lei era sempre sorridente e attivissima: si occupava in particolare delle donne e della loro emancipazione, e aveva anche fondato il giornale Noi Donne. Palmiro aveva un aspetto molto compassato, a prima vista sembrava freddo e distaccato, invece, soprattutto con noi bambini, era disponibile, ci prendeva in braccio e ci raccontava favole ed episodi della sua vita.
Stringemmo amicizia anche con un soldato piemontese di stanza a Roma, Bruno Barbero, che continuammo a frequentare per lunghi anni a Torino, dove si era sposato e aveva aperto una tipografia.
Con la liberazione di Roma, che nel mio ricordo si identificava con l’arrivo degli americani, ripresero le funzioni religiose al Tempio. Vi andammo poche volte e tutti noi torinesi rimanemmo stupiti dei numerosi movimenti, per noi quasi teatrali, delle braccia e delle gambe sia dei fedeli che del rabbino. Il rito a Roma era diverso da quello di Torino. Continuavo a guardare attorno a me meravigliata: quanta differenza fra il comportamento composto della gente del Tempio di Torino e il gesticolare curioso degli ebrei romani!
Quando abitavamo in via Pierluigi da Palestrina, quasi tutti i giorni uscivo con il nonno Marco e percorrevamo la stessa strada lungo il Tevere, Castel Sant’Angelo, piazza San Pietro. Nonno sapeva che c’era un punto del colonnato che circonda piazza San Pietro dal quale si vedono anziché varie colonne, una sola fila, e fu lui a trovarlo. Se per terra c’erano cicche di sigarette le raccoglievamo, poi a casa nonno utilizzava il tabacco per confezionarsi manualmente le sigarette.
Durante la guerra morirono tante persone conosciute e anche miei parenti, alcuni deportati senza ritorno, altri per disagi e malattie. Ma qui desidero ricordare in modo particolare una persona che in quegli anni visse molto vicina a noi bambini: Lena. Aveva forse sedici anni quando cominciò a lavorare a servizio presso la mia famiglia a Torino. Io le ero molto affezionata e la consideravo come una sorella. Aveva pazienza specialmente con mia sorella Laura di soli tre anni che era molto capricciosa e insofferente. Lena era pure assai laboriosa e forte nonostante la sua esile corporatura. Ricordo che per pulire e lucidare bene i parquet usava la cosiddetta galera, una pesante piattaforma di metallo collegata a un manico di legno; a noi bambini piaceva molto salire sulla galera e aggrapparci al manico per farci trasportare da una stanza all’altra da Lena.
Quando sfollammo da Torino al Fè, Lena fedele ci seguì; a lei i miei genitori affidarono la custodia di tutto ciò che non poterono trasferire dal Fè a Roma. Ci separammo da lei nell’ottobre 1943 sicuri di rivederla al termine della guerra. Invece fu uccisa durante un mitragliamento del treno su cui viaggiava per recarsi a visitare la sua famiglia a Saluzzo. Aveva solo vent’anni.
Quando nell’aprile del ’45 tutta l’Italia fu libera, tornammo a Torino in una macchina privata di proprietà di un nobile veneziano, il conte Bragadin. Quel viaggio fu memorabile perché ce ne capitarono di ogni colore. Sui tornanti che portavano a Radicofani dovemmo essere trainati da un carro. Le strade erano spesso disastrate e le gomme più volte si sgonfiavano e bisognava trovare qualcuno che le riparasse. La vettura era piuttosto vecchiotta, e anche se abbastanza ampia, era stracarica di persone e di bagagli; quindi l’andatura era modesta e impiegammo diversi giorni prima di giungere a destinazione. Il conte-pilota, dopo avere lasciato a Bologna la sua amante, voleva puntare direttamente su Venezia, ma papà gli ricordò l’impegno preso a Roma e costrinse Bragadin a portarci a Torino, che rivedemmo con grande emozione anche se era stata fortemente colpita dai bombardamenti.


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