Home > Archivio > 09 - 2006 > L’Italia in salita
RECENSIONI
tratto dal n. 09 - 2006

L’Italia in salita


«Il Giro del 1946 fu la progressiva identificazione di un popolo in una coppia di campioni: Bartali e Coppi». Così Giuseppe Chinnici descrive nel suo libro i due grandi ciclisti, rivali ma inseparabili nella memoria collettiva


di Giovanni Ricciardi


Giuseppe Chinnici, Gino Bartali 
e Fausto Coppi. Due campioni 
tra spettacolo, competizioni sportive 
e partecipazione popolare, Nova Itinera, Roma 2006, 240 pp., euro 15,00

Giuseppe Chinnici, Gino Bartali e Fausto Coppi. Due campioni tra spettacolo, competizioni sportive e partecipazione popolare, Nova Itinera, Roma 2006, 240 pp., euro 15,00

Nulla meglio dello sport è capace di catalizzare ed esaltare il sentimento popolare, come avviene ai nostri emigranti quando riscoprono, magari solo nelle settimane dei Mondiali, l’orgoglio d’essere italiani.
Ma ciò che accadde nel dopoguerra con Fausto Coppi e Gino Bartali fu molto di più. Fu la piena identificazione di un popolo sconfitto in due campioni che avevano anch’essi conosciuto fame, povertà e guerra, ma che ora esprimevano un potente ritorno alla vita, con i loro duelli epici, nella perfetta, quasi vertiginosa solitudine di quello sforzo individuale che è, insieme alle montagne, l’autentico fascino del grande ciclismo.
Al Giro d’Italia del 1946, «giorno dopo giorno, una nazione intera si riconosceva nelle prodezze e nelle delusioni di Gino e Fausto. Bartali e Coppi erano l’Italia. L’Italia migliore, l’Italia che basava la sua solidità sui rapporti umani. Le due ruote diventavano l’emblema della speranza nazionale. Non a caso Vittorio De Sica avrebbe costruito un suo capolavoro, Ladri di biciclette, giocando proprio sul valore simbolico e materiale della bici». La frase è di Giuseppe Chinnici, docente di Organizzazione ed economia dello spettacolo alla Lumsa di Roma, che a Coppi e Bartali ha dedicato un volume, collocandone le imprese nel clima sociale e psicologico del dopoguerra. I due “campionissimi”, infatti, non furono solo al centro del primo caso italiano di “divismo” sportivo, ma divennero quasi immediatamente l’immagine delle due anime dell’Italia post-fascista: quella cattolica, tutta identificata in Bartali, e quella laica, che scelse, per opposizione, il suo campione in Coppi. «Ogni corridore con la sua filosofia: Bartali prega mentre pedala; Coppi più razionalista, non crede che al motore che gli è stato affidato, cioè al proprio corpo».
La gente viveva della loro rivalità e finì per creare la leggenda di un antagonismo totale e assoluto. Ma la verità è che i due campioni, amici nella vita, sono inconcepibili l’uno senza l’altro: «Bartali e Coppi» scrive Chinnici «avevano bisogno l’uno dell’altro e tutto era messo in movimento dalla presenza di entrambi, e non di uno solo». Anche in questo essi rappresentarono – come osserva Alberto Monticone introducendo il volume – una “icona” di quelle “due” Italie, diverse e a volte in contrasto, ma sempre in qualche modo complementari e necessarie l’una per l’altra.
Al cattolicesimo italiano Bartali offre un’immagine ideale, di campione devoto «che dice le preghiere la sera e la mattina, che lascia tutti i giorni il campo di Peretola, dove è aviere, per incontrare a Firenze gli amici della Gioventù cattolica». E tale fu in realtà. Poco amato dal fascismo, per la sua tenace appartenenza all’Azione cattolica, per non aver mai voluto prendere la tessera del partito, Bartali è legato alla sua fede contadina, porta con sé le immaginette di santa Teresa del Bambin Gesù, si confessa da Padre Pio e dopo l’8 settembre collabora «con l’arcivescovo di Firenze e col Vaticano portando, in bicicletta, messaggi, documenti e viveri agli ebrei toscani».
Lo stesso Pio XII, nel 1947, lo addita a esempio per la Gioventù di Azione cattolica: «Guardate il vostro Gino Bartali: egli ha più volte guadagnato l’ambita “maglia”. Correte anche voi in questo campionato ideale, in modo da conquistare una ben più nobile palma».
Anche Coppi è, a suo modo, un credente. I due vengono ricevuti dal Papa e insieme firmano l’appello dei Comitati civici al mondo sportivo, invitando a votare Dc. Ma l’immaginario popolare, all’appressarsi del 18 aprile, finisce per contrapporli anche sul piano politico: «I muri dell’intera nazione sono imbrattati da scritte come: “Viva Coppi comunista”, “Viva Bartali democristiano”». Anche Montanelli, che non crede alla storia del tifo “politico” – «è una panzana» scrive: «quando Bartali passava nella rossa Toscana era un tripudio di folla» –, definisce Bartali “il De Gasperi del ciclismo”.
E sarà proprio De Gasperi, nel luglio 1948, a telefonare a Bartali, in Francia, dopo l’attentato a Togliatti, mentre il Paese scivolava in un clima di guerra civile e Gino era in lotta per la maglia gialla: «Caro Bartali, lei può fare molto per la nostra Italia. Pensa di poter vincere ancora il Tour?». La vittoria arrivò, provvidenziale. Lo stesso Togliatti, si dice, dal suo letto d’ospedale, mentre raccomandava moderazione ai suoi, s’informava dei risultati del Tour. Il tripudio generale per la storica impresa contribuì a stemperare gli animi. Anche questa è storia patria.


Español English Français Deutsch Português