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RISCOPERTE
tratto dal n. 10 - 2006

Romanino, un fedele di poche maniere


Una grande mostra a Trento e un nuovo libro che svela i segreti della sua iconografia, rilanciano questo artista irruente e anomalo. In pieno declino del Rinascimento, rispose all’eclettismo “diabolico” dei manieristi con il suo anticonformismo cristiano. E così preparò la strada al suo conterraneo Caravaggio


di Giuseppe Frangi


Cena in casa di Simon Fariseo, 
affresco trasportato su tela, 1532-1533 circa, Girolamo Romanino, Pinacoteca Tosio Martinengo, Brescia

Cena in casa di Simon Fariseo, affresco trasportato su tela, 1532-1533 circa, Girolamo Romanino, Pinacoteca Tosio Martinengo, Brescia

«Non ho dubbi sulla fede del Romanino, benché drammatica, benché turbata da episodi strani». Così Pier Paolo Pasolini chiudeva, sinteticamente, una conferenza tenuta a Brescia in margine alla grande mostra dedicata nel 1965 al pittore bresciano. Pasolini parlava da non addetto ai lavori, davanti a una platea foltissima che cercava una chiave per decifrare questo genio così anomalo del Cinquecento lombardo. E Pasolini li accontentò con una relazione in cui lasciava trasparire il suo amore travolgente per Romanino, ma in cui conservava anche la distanza critica per aiutarne la comprensione. Ebbene, secondo lui, l’anomalia del pittore bresciano consisteva nel suo modo di essere anticlassicista, cioè di opporsi alla tradizione vincente ma ormai declinante del Rinascimento, senza rinchiudersi per questo nell’eclettismo dei manieristi. Ecco la conclusione del suo ragionamento: «Il manierismo era miscredente: il Pontormo e il Rosso dipingevano soggetti sacri, però nel loro fondo erano diabolici. Il Romanino no; quindi non poteva accettare la critica manieristica al classicismo, perché continuava a essere credente e che egli fosse credente lo dimostra il fatto che la sua pittura religiosa è tutta anticonformistica».
Era il 1965; e quarant’anni di ricerche e di scoperte non hanno fatto altro che confermare quell’intuizione, a partire dagli studi che Giovanni Testori ha lasciato su Romanino. Ma in cosa consiste questo anticonformismo evidenziato da Pasolini? Una mostra recente di grande successo, organizzata al Castello del Buonconsiglio di Trento, e un libro di una giovane studiosa padovana, Barbara Savy, hanno dato l’opportunità di rimettere a tema quell’interrogativo.
Che Romanino sia un genio anomalo, lo conferma la sua stessa biografia: risucchiato, nel momento della formazione, dalla grande scuola veneziana, se ne discosta poi, nella maturità, in modo fragoroso e sfacciatamente ribelle. Come sottolineano sia Pasolini che Testori, non ha nessuna remora a rispondere intenzionalmente con una goffaggine violenta alla eleganza, piena di mestiere, dei suoi referenti lagunari. Tutta la parabola di Romanino sembra la reazione, a volte rabbiosa, a volte scapestrata, di uno che non vuole stare al gioco; e che per questo non teme la marginalità di contesti provinciali, dove aveva trovato i committenti dei suoi maggiori capolavori. La sua biografia è costellata infatti di “sconfitte”, come quella subita nel cantiere del Duomo di Cremona dove venne sostituito dal Pordenone, un ottimo mestierante che rispettava le regole condivise della buona pittura.
Ritratto di Girolamo Romanino, 
olio su tela, Szépmüvészeti Múzeum, Budapest

Ritratto di Girolamo Romanino, olio su tela, Szépmüvészeti Múzeum, Budapest

Nessun dubbio quindi sul suo anticonformismo. A Trento gli affreschi lasciati nel palazzo-castello abitato dal potentissimo vescovo Bernardo Clesio sono di una sfrontatezza che appassiona e diverte. La volta del porticato, con le figure mitologiche, sembra una rivisitazione irridente della Sistina di Michelangelo. I nudi perdono ogni aura eroica e apollinea, e si agitano come anime inquiete; come figure fuori posto, impazienti di rimettere i piedi sulla terra e di finirla con quella rappresentazione a cui non crede nessuno, men che meno chi li sta dipingendo… Il committente sta al gioco, ma lo teme e lo tiene sotto tiro; la vitalità travolgente degli affreschi non poteva lasciare indifferente nessuno, ma c’era un limite oltre il quale non andare…
Romanino è un artista che ha sperimentato in gioventù l’eleganza per poi coscientemente ripudiarla. La grande sala che a Trento raccoglieva le immense ante d’organo dipinte per il Duomo di Brescia e per la chiesa di San Giorgio a Verona, era, in questo senso, persino spettacolare. All’ingresso ci accoglievano i due affreschi provenienti dall’abbazia di Rodengo, con le due cene, quella in casa di Simone e quella di Emmaus, dipinte intorno al 1532. Lo spazio in cui Romanino ambienta gli episodi non ha nessuna prosopopea; è un luogo a volte ribassate che non prelude a eventi speciali, una location di disarmante normalità. Sono i corpi a riempire questi spazi; corpi tutti veri, nella concitazione, nei sussulti, nei gesti improvvisi. Nella Cena in casa di Simone, la Maddalena ha preso tutti in contropiede quasi scaraventandosi sotto il tavolo per baciare il piede di Gesù, infilandosi nel poco spazio che aveva a disposizione. Sopra il tavolo c’è un po’ di imbarazzo, accentuato dagli spazi angusti in cui tutta la scena si svolge. La Maddalena non mostra esitazioni, ma nello stesso tempo non può nascondere quel tanto di goffaggine cui la posizione la obbliga. Com’è reale e credibile quel suo gesto! Quasi si imbarazza del primo piano cui il pittore la costringe; alza lo sguardo con una punta di timidezza e svela lo sguardo arrossato dalle lacrime. È uno sguardo psicologicamente vero; uno sguardo povero, semplice, spoglio di ogni artificiosità. Per questo è uno sguardo assolutamente credibile.
Nella Cena a Emmaus, che sembra spianare la strada a Caravaggio, la scena è ugualmente spoglia; il gioco delle gambe degli astanti, seduti al tavolo, risente del contraccolpo di stupore per quel che accade sopra il tavolo. Ma il particolare più vero è quello dell’apostolo di sinistra, dal volto di paesano, che sembra esser già oltre lo stupore di quel riconoscimento, e il cui sguardo è tutto teso, quasi completamente assorbito dal volto di Gesù.
Romanino è un uomo di fede, diceva Pasolini. E lui lo conferma con l’insistita volontà di svuotare di orpelli i suoi quadri; con la convinzione che la pittura possa essere povera senza essere assolutamente sminuita. La grande pala con la Caduta della manna, molto tarda, conservata nel Duomo vecchio di Brescia, da questo punto di vista è un documento impressionante. Le figure hanno un’energia rude, quasi espressionistica; si ammassano nello spazio sempre gremito di umanità delle tele di Romanino; la luce color ruggine sembra preludere alla luce degli ultimi Caravaggio siciliani.
Romanino è un uomo di fede, diceva Pasolini. E lui lo conferma con l’insistita volontà di svuotare di orpelli i suoi quadri; con la convinzione che la pittura possa essere povera senza essere assolutamente sminuita. La grande pala con la Caduta della manna, molto tarda, conservata nel Duomo vecchio di Brescia, da questo punto di vista è un documento impressionante
Ma questa grande tela apre un altro squarcio interessante sulla “fede” di Romanino. Egli fu infatti l’interprete più fedele di quel movimento che aveva segnato la vita religiosa di Brescia agli inizi del Cinquecento: si trattava della nascita in tutta la città delle “scuole del Corpus Domini”, confraternite che si occupavano oltre che dell’adorazione e della cura del Santissimo anche di dare il pane ai poveri e che san Carlo, cinquant’anni dopo, durante la sua visita pastorale, avrebbe molto elogiato. Nel 1521, insieme all’altro grande rappresentante della pittura bresciana, il Moretto, Romanino aveva avviato il cantiere della cappella dedicata appunto al Sacramento, in San Giovanni Evangelista a Brescia. Si tratta di uno dei più grandi capolavori dell’arte lombarda, cui Giovanni Testori dedicò un libro appassionante. Oggi, grazie agli studi di Barbara Savy, sappiamo molto di più riguardo al preciso programma iconografico da cui aveva preso il via l’impresa. È un programma che i canonici lateranensi costruirono in particolare basandosi sul Commento al Vangelo di Giovanni di sant’Agostino. Per esempio, la tela che occupa la parte alta della parete con il Miracolo del Sacramento, aveva la funzione di rappresentare quel che Agostino disse nel Sermo 132/A, 1: «Si mangia in porzioni e rimane tutto intero; si mangia in porzioni nel sacramento e rimane tutto intero nel cielo, rimane tutto intero nel tuo cuore. Tutto intero era infatti presso il Padre quando venne nella Vergine; riempì il grembo di lei senza allontanarsi da lui. Veniva nella carne perché gli uomini potessero mangiarlo; ma restava tutt’intero presso il Padre per essere il cibo degli angeli».
Alla mostra di Trento spiccava un altro quadro connesso con questo ruolo rivestito da Romanino nella Brescia del suo tempo. Si tratta di una pala conservata nella chiesa di Santa Maria in Calchera, e che rappresenta un soggetto assolutamente insolito. Al centro si vede sant’Apollonio, quinto vescovo di Brescia, che si volge come per dare la comunione a dei fedeli inginocchiati. In realtà il quadro rappresenta un episodio miracoloso: Apollonio, nel periodo delle persecuzioni, era stato privato degli strumenti per poter dire messa. Miracolosamente questi gli furono recuperati dall’intervento di Faustino e Giovita, che poi sarebbero diventati i santi patroni di Brescia, contemporanei di Apollonio e tenuti in carcere dall’imperatore. Alle spalle del santo vescovo, per dare un’impronta di vera antichità, Romanino dipinge un altare con una pala a fondo oro. Ma la cosa più bella del quadro è il gesto trattenuto, semplice e pieno di purezza, con cui Apollonio, voltandosi verso di noi, mostra le piccole ostie splendenti di biancore. Aveva davvero ragione Pasolini a non aver dubbi sulla fede di Romanino…


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