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DOCUMENTO
tratto dal n. 10 - 2006

IL CONGRESSO SUL VOLTO DEI VOLTI

Perdono e comunione in Giovanni Paolo II


La relazione tenuta dal rettore della Pontificia Università Lateranense alla decima edizione del Congresso internazionale sul Volto di Cristo


di Rino Fisichella


Monsignor Rino Fisichella, il cardinale Fiorenzo Angelini e lo scrittore Alain Elkann durante i lavori del X Congresso internazionale sul Volto di Cristo, che si è svolto il 14 e il 15 ottobre presso la Pontificia Università Urbaniana a Roma

Monsignor Rino Fisichella, il cardinale Fiorenzo Angelini e lo scrittore Alain Elkann durante i lavori del X Congresso internazionale sul Volto di Cristo, che si è svolto il 14 e il 15 ottobre presso la Pontificia Università Urbaniana a Roma

Una testimonianza coerente
La persona di Giovanni Paolo II rimarrà per molto tempo come l’espressione più significativa della vita della Chiesa all’inizio del terzo millennio della sua storia. Solo guardando le statistiche, che di volta in volta cadono sotto i nostri occhi, si prova una meraviglia enorme nel pensare che quest’uomo come nessun altro ha viaggiato per il mondo intero, non ha tralasciato nessuna zona della terra che gli fosse consentito visitare per portare a tutti l’annuncio del Vangelo di Gesù Cristo. Milioni e milioni di credenti e non credenti sono accorsi per ascoltare la sua parola e per vedere il suo volto, interpretare un suo gesto e, per i più fortunati, scambiare con lui una parola e ricevere la sua benedizione. Per circa ventisette anni egli ha mostrato il volto di una Chiesa giovane, capace di parlare un linguaggio comprensibile al nostro contemporaneo, ma soprattutto ha dato testimonianza di come si possa vivere con dignità ogni stadio della vita, nonostante la malattia e la sofferenza per dare significato al dolore e alla morte. Le immagini di inizio pontificato nell’ottobre del 1978 che mostravano un Papa di soli 58 anni, sportivo, affascinante, forte e severo nello stesso tempo, non stonano con quelle che lo vedono quasi immobile su una sedia – nuova sede gestatoria che non aveva mai voluto avere – , impossibilitato a esprimersi con la parola, ma carico del suo sguardo sempre vigile e attento. La Chiesa ha avuto con Giovanni Paolo II un testimone della fede audace, entusiasta e coerente; dall’inizio alla fine, egli ha reso manifesta la parola del Signore: «Andate e ammaestrate tutte le nazioni... insegnando loro a osservare ciò che vi ho comandato» (Mt 28, 19-20).
Per comprendere in profondità l’insegnamento di Giovanni Paolo II, comunque, è necessario ritornare alla sua prima enciclica, Redemptor hominis. È qui, infatti, che si ritrovano i punti essenziali a cui si è costantemente ispirato nella sua azione pastorale per imprimere al suo pontificato la forza e l’entusiasmo che lo hanno contraddistinto. Idea centrale che muoveva il pensiero di Giovanni Paolo II era la profonda fede che Cristo è il redentore dell’uomo. La sua opera di salvezza si estende dal Golgota per raggiungere ogni uomo in ogni tempo, senza distinzione alcuna. Come il suo sacrifìcio sulla croce ha raggiunto tutti, così nessuno può essere escluso dal suo amore. «L’uomo» scriveva il Papa «non può vivere senza amore. Egli rimane per sé stesso un essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso, se non gli viene rivelato l’amore, se non si incontra con l’amore, se non lo sperimenta, se non lo fa proprio, se non vi partecipa vivamente» (Rh, n. 10). Se si vuole, è proprio questo amore che rivela la dimensione della salvezza e la redenzione dell’uomo dalla sua colpa. Se ci si apre all’amore di Cristo, allora si ritrova e recupera la grandezza che era stata perduta, la dignità dell’esistenza personale e il valore della propria partecipazione alla storia. La missione della Chiesa, quindi, è stata interpretata da Giovanni Paolo II in modo tale che ogni persona potesse indirizzare il proprio sguardo al volto di Cristo che rivela ed esprime l’amore trinitario di Dio.

L’amore al centro
Amore è la parola che mantiene viva la Chiesa e che rende il suo messaggio e la sua missione permanentemente provocatori nel corso dei secoli. Non un amore desunto dall’esperienza umana né che si dileggia come espressione intellettuale, ma un amore vero, concreto, tangibile che ognuno può verifìcare se si pone dinanzi al volto di Gesù di Nazareth. D’altronde proprio sul tema del volto di Cristo Giovanni Paolo II ha voluto scrivere uno dei suoi documenti più conosciuti, Novo millennio ineunte, per corroborare la Chiesa nel suo cammino verso il terzo millennio: «La nostra testimonianza sarebbe insopportabilmente povera, se noi per primi non fossimo contemplatori del suo volto [...] mentre riprendiamo il cammino ordinario, portando nell’animo la ricchezza delle esperienze vissute in questo periodo specialissimo, lo sguardo resta più che mai fisso sul volto del Signore» (Nmi, n. 16). È questo il mistero che fino a oggi rende ogni credente responsabile del proprio battesimo e della condivisione con la missione della Chiesa. L’amore non può essere solamente annunciato, deve essere reso visibile e tangibile nella concretezza della sua natura. È per questo motivo che bisogna recuperare l’orizzonte della rivelazione; contrariamente, l’amore sarebbe sottoposto all’ambiguità del concetto e delle interpretazioni proprie del relativismo di oggi, come ha insegnato magistralmente Benedetto XVI nella sua enciclica Deus caritas est.
Non si sbaglia ritenendo che davanti alla domanda: «Cos’è l’amore?», la risposta più diretta e universale che si riceve dica: «Dare la vita per la persona amata». Risposta coerente che mentre evidenzia il dramma della sua verità, mostra il lungo cammino che si è chiamati a percorrere per verificare la propria coerenza. Quando, infatti, si pronuncia un’espressione simile, si è di fronte a un linguaggio del tutto peculiare, quello performativo, che impegna chiunque a vivere di ciò che dice, pena il toccare con mano la propria contraddizione, l’incoerenza e il non senso del proprio esprimersi. Si è, comunque, talmente abituati a comprendere l’amore in quella accezione che si dimentica la sua origine e il significato profondo che è stato immesso in quel termine. Amare come equivalente del «dare la vita» proviene dalla rivelazione di Gesù Cristo che ha offerto la sua vita per tutti gli uomini, morendo in croce. Quanto questa concezione sia unica e originale lo mostra il confronto con la letteratura e la cultura antiche. L’apporto peculiare che su questo tema il cristianesimo ha immesso in tutte le culture, differenziandosi anche dalle altre religioni, ha impresso uno sviluppo notevole nel progresso della civiltà universale. La rivelazione cristiana trova il suo punto culminante nell’espressione: «Dio è amore» (1Gv 4, 8.10). Per la prima e unica volta in tutta la Bibbia, l’autore sacro sembra voler dare una definizione di Dio che non lasci spazio ad altre ulteriori formule. Diverse di queste sono facilmente riscontrabili nei vari testi del Nuovo Testamento; espressioni quali: «Io sono la luce» (Gv 9, 5), «Io sono la verità» (Gv 14, 6), «Io sono la vita» (Gv 11, 25), portano con sé delle caratteristiche proprie di Dio. In questo caso, tuttavia, l’autore sacro intende fissare lo sguardo direttamente sulla natura stessa di Dio, sulla sua essenza, su ciò che lo qualifica come Dio. Un’analisi dettagliata della prima Lettera di san Giovanni mostrerebbe il profondo intento rivelativo che l’espressione possiede e la grande valenza significativa che vi è sottesa. Tutta la prima parte della Lettera sembra tendere a questo versetto e, per paradossale che possa sembrare, l’intero Nuovo Testamento assume una luce nuova a partire da questa espressione: «Dio è amore... e in questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi». Per due volte in brevissimo spazio (vv. 8.10), l’evangelista ripete: «Dio è amore» e pone questo come fondamento dell’esistenza personale di ognuno; aggiunge infatti: «Chiunque ama è nato da Dio e conosce Dio» (v. 7). L’essenza del Dio di Gesù Cristo, quindi, consiste nell’essere amore. Chi si apre a esso e si lascia plasmare, riceve una vita nuova, quella che permette di essere generati da Dio, di entrare in relazione con lui e di vivere della sua stessa vita. Questa vita di comunione, comunque, non è unidirezionale da Dio verso l’uomo; l’evangelista attesta che l’amore si sviluppa in una reale forma di reciprocità: «Dio è amore e chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui» (v. 16). Come dire: chi è amato da Dio diventa capace, a sua volta, di amarlo e di corrispondere al suo amore con quel germe di vita nuovo deposto in lui a motivo della fede.
Giovanni Paolo II durante la Giornata del perdono, il 12 marzo 2000

Giovanni Paolo II durante la Giornata del perdono, il 12 marzo 2000

L’evangelista, comunque, non si ferma a definire l’essenza di Dio; egli permette di compiere un passo ulteriore identificando anche la maniera con cui Dio ama. Se Dio è amore, infatti, ciò significa che ama; come ama Dio, tuttavia, lo può rendere manifesto solo lui. Ne deriva che il suo modo di amare diventa non solo il vero archetipo di ogni amore, ma anche il paradigma su cui coniugare ogni amore che voglia essere degno di questo nome. Viene ancora una volta in aiuto l’evangelista Giovanni quando nel suo Vangelo indica esplicitamente questo modo di amare: «Dio infatti ha così amato il mondo da dare il suo figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna» (Gv 3, 16). Questo versetto rappresenta un testo chiave di tutto il Nuovo Testamento. Se si considera il suo contesto immediato, si nota che Gesù, rispondendo all’obiezione di Nicodemo sulla possibilità di rinascere di nuovo, dice: «Nessuno è salito al cielo se non il figlio dell’uomo che è disceso dal cielo. E come Mosè innalzò il serpente nel deserto così è necessario che il figlio dell’uomo sia innalzato da terra perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna» (Gv 3, 13-15). L’immagine del serpente innalzato da Mosè nel deserto dopo il tradimento del popolo, è assunto da Gesù per spiegare il senso della sua morte. Egli dovrà essere “innalzato” sulla croce perché, attraverso la sua morte, la salvezza promessa potrà essere finalmente realizzata. In questo contesto, il senso del nostro versetto acquista il valore di spiegazione (è introdotto da un «infatti») e, soprattutto, diventa più chiaro il significato del verbo «dare» il Figlio da parte del Padre. Una particolarità sintattica permette di interpretare l’uso del verbo “dare” in modo assoluto; vale a dire: dare tutto in maniera piena e totale. Potremmo tradurre letteralmente il testo facendone emergere il senso sottostante: Dio ama in questo modo: mandando a morte il suo unico figlio.
Come si nota, il senso del verbo “dare” possiede una totalità di donazione che non conosce confronto; l’incarnazione del Figlio, la sua attività terrena, la passione e la morte, tutto è un dono con il quale il Padre rivela il suo modo di amare. Insomma, Dio sa amare solo così: dando tutto sé stesso, senza nulla chiedere in contraccambio. Una modalità di amore unica che solo Dio poteva porre nel mondo, dando così inizio a una nuova espressività dell’amore tra gli uomini.
«Dio è amore», comunque, permette di accedere a un’ulteriore novità che costituisce il paradosso della fede cristiana. L’amore di Dio, infatti, non è un’idea astratta né un sentimento più o meno generico; esso si incarna in una persona che lo rende evidente nella sua vita e nella sua morte. L’amore ha un volto: Gesù di Nazareth. È in forza di questa identificazione che si possono comprendere alcune espressioni di Gesù che, altrimenti, risuonerebbero come offensive nei confronti degli uomini per la loro tracotanza e la superbia che rivestono: «Il Padre vi ama, perché voi mi amate» (Gv 16, 27), «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 13, 34). Amatevi come io vi ho amato... Se queste parole sono state conservate nel corso dei secoli e sono state accolte come cariche di senso è perché ognuno vede in quell’uomo Dio stesso; non potrebbe essere altrimenti.
La morte di Gesù, comunque, acquista il suo significato pieno solamente se inserita all’interno della tematica che affronta il modo con cui Dio rivela il suo amore. Fuori da questo orizzonte, infatti, risulterebbe un atto di violenza contro un innocente; potrebbe al massimo suscitare compassione, ma non verrebbe mai assunta come normativa per gli uomini che chiedono di dare senso alla contraddizione della morte. È la rivelazione che presenta la passione e la morte di Gesù come la forma ultima dell’amore di Dio nella sua volontà di salvare l’umanità. Questa permane come il paradosso insostituibile della rivelazione cristiana contro cui ogni pensiero va a scontrarsi se non accoglie in sé la logica dell’amore. Con ragione, Giovanni Paolo II scriveva: «II Figlio di Dio crocifisso è l’evento storico contro cui s’infrange ogni tentativo della mente di costruire su argomentazioni soltanto umane una giustificazione sufficiente del senso dell’esistenza. Il vero punto nodale, che sfida ogni filosofia, è la morte in croce di Gesù Cristo. Qui, infatti, ogni tentativo di ridurre il piano salvifico del Padre a pura logica umana è destinato al fallimento. “Dov’è il sapiente? Dov’è il dotto? Dove mai il sottile ragionatore di questo mondo? Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo?” (1Cor 1, 20), si domanda con enfasi l’Apostolo. Per ciò che Dio vuole realizzare non è più possibile la sola sapienza dell’uomo saggio, ma è richiesto un passaggio decisivo verso l’accoglienza di una novità radicale: “Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti...; Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono” (1Cor 1, 27-28). La sapienza dell’uomo rifiuta di vedere nella propria debolezza il presupposto della sua forza; ma san Paolo non esita ad affermare: “Quando sono debole, è allora che sono forte” (2Cor 12, 10). L’uomo non riesce a comprendere come la morte possa essere fonte di vita e di amore, ma Dio ha scelto per rivelare il mistero del suo disegno di salvezza proprio ciò che la ragione considera “follia” e “scandalo”. Parlando il linguaggio dei filosofi suoi contemporanei, Paolo raggiunge il culmine del suo insegnamento e del paradosso che vuole esprimere: “Dio ha scelto ciò che nel mondo è nulla per ridurre a nulla le cose che sono” (1Cor 1, 28). Per esprimere la natura della gratuità dell’amore rivelato nella croce di Cristo, l’Apostolo non ha timore di usare il linguaggio più radicale che i filosofi impiegavano nelle loro riflessioni su Dio. La ragione non può svuotare il mistero di amore che la Croce rappresenta, mentre la Croce può dare alla ragione la risposta ultima che essa cerca. Non la sapienza delle parole, ma la Parola della Sapienza è ciò che san Paolo pone come criterio di verità e, insieme, di salvezza» (Fides et ratio, n. 23).
Giovanni Paolo II scriveva: «II Figlio di Dio crocifisso è l’evento storico contro cui s’infrange ogni tentativo della mente di costruire su argomentazioni soltanto umane una giustificazione sufficiente del senso dell’esistenza. Il vero punto nodale, che sfida ogni filosofia, è la morte in croce di Gesù Cristo»
La chenosi, come si nota, permane come il vero mistero di Dio nell’atto in cui entra nella storia e la redime. La croce, infatti, come evento ultimo della vita di Cristo non fa che rendere evidente le conseguenze dell’incarnazione con la quale il Figlio di Dio si fa uomo nel grembo della Vergine. Con ragione von Balthasar scriveva che: «L’evento della croce può essere considerato solo sullo sfondo trinitario e solo nella fede può essere interpretato». Nell’innocente inchiodato sulla croce, che grida a Dio perché lo abbia abbandonato, viene rivelata agli uomini tutta la distanza che intercorre tra il Figlio e il Padre che lo ha inviato. In quel momento, infatti, Gesù il Figlio di Dio porta su di sé il peccato del mondo e sembra agli occhi degli uomini aver perduto il Padre che lo abbandona nelle mani dei suoi nemici e nell’oscurità della morte. Eppure, proprio dinanzi a questo abbandono nell’ora della morte è possibile intravedere fin dove giunge l’amore di Dio. Nell’evento della morte di Gesù e nel significato che egli vi ha impresso, viene rivelata la stessa vita trinitaria; essa è vissuta come un eterno e totale autodonarsi, dove l’abbandono di sé è solo in vista della generazione.

Amore come perdono e comunione
Queste considerazioni permettono di ritornare con maggior cognizione di causa all’insegnamento di Giovanni Paolo II quando scrive: «La Chiesa, custodendo il sacramento della Penitenza, afferma espressamente la sua fede nel mistero della redenzione come realtà viva e vivificante, che corrisponde alla verità interiore dell’uomo, corrisponde all’umana colpevolezza e anche ai desideri della coscienza umana» (Rh, n. 20). In altre parole, il Papa afferma che il mistero della redenzione dell’uomo realizzata dall’amore del Figlio di Dio si rende manifesto fino ai nostri giorni nell’unità del mistero eucaristico, vero fondamento della vita della Chiesa e segno efficace della sua permanente presenza nella storia dell’umanità. Il mistero dell’eucaristia esprime l’amore di Dio e dice, nello stesso tempo, perdono e comunione. È interessante, da questa prospettiva, verificare l’unità inscindibile che tiene insieme l’atto del perdono e la chiamata a una rinnovata vita di comunione nel pensiero di Karol Wojtyla: «L’eucaristia è il sacramento in cui si esprime più compiutamente il nostro nuovo essere, in cui Cristo stesso, incessantemente e sempre in modo nuovo, “rende testimonianza” nello Spirito Santo al nostro spirito che ognuno di noi, come partecipe del mistero della redenzione, ha accesso ai frutti della filiale riconciliazione con Dio, quale egli stesso aveva attuato e sempre attua fra noi mediante il ministero della Chiesa» (Rh, n. 20). In modo ancora più esplicito, il Papa esprime lo stesso contenuto quando nella sua ultima enciclica Ecclesia de Eucaristhia, scriveva: «Ai germi di disgregazione tra gli uomini, che l’esperienza quotidiana mostra tanto radicati nell’umanità a causa del peccato, si contrappone la forza generatrice di unità del corpo di Cristo. L’Eucaristia, costruendo la Chiesa, proprio per questo crea comunità tra gli uomini» (EdE, n. 24).
La vita eucaristica del credente, pertanto, rende manifesta non solo la chiamata alla partecipazione del mistero dell’amore Dio, ma evidenzia il modo con cui Dio ama: accoglie il peccatore pentito e lo immette con nuova energia nella vita di comunità dell’amore trinitario. Perdono e comunione non sono altro che le due facce della stessa medaglia con la quale viene rivelata la misericordia del Padre. Come si nota, alla fine, si giunge a pronunciare il termine che diventa sintesi dell’amore cristiano. Misericordia, infatti, attesta nello stesso tempo capacità di perdonare, immettendo in una nuova intensità di relazione con Dio e il prossimo. Se non ci fosse il perdono non avremmo mai una forte garanzia di sapere amare e di essere amati. Solo chi ama, infatti, sa giungere fino al perdono e solo chi perdona attesta la sua capacità di saper amare. Eppure, anche questo non basta. Il perdono cristiano è un’attiva ripresa di relazioni interrotte per ricostruire una vita d’amore. Il peccato, come sappiamo, è rottura della vita di comunione con Dio e, quindi, fuoriuscita dalla comunità cristiana. Esso si esprime come la scelta errata di condurre la propria esistenza prescindendo da Dio e dalla comunità a cui si appartiene. Non è un caso che l’idea plastica per indicare il peccatore sia quella di mostrare che volta le spalle al Padre e, con lui, ai suoi fratelli. Non potendo più fissare il volto di Cristo, il peccatore riflette solo sé stesso, la propria vita e la contraddittorietà che la contraddistingue.
È necessario un supplemento di amore per comprendere la nostalgia del ritorno alla casa del Padre e sapere che lontano da lui si può vivere solo di sotterfugi nella povertà estrema. Essere toccati dalla misericordia, invece, implica prendere coscienza del proprio peccato, della necessità del perdono e di una nuova vita di relazioni che reimmette nella comunità dei credenti. La parabola del figliol prodigo è un’icona importante che viene posta dinanzi ai nostri occhi per comprendere il valore del perdono e la nuova vita di comunione che esso comporta. Il padre che va incontro al figlio, che aveva dilapidato il patrimonio di famiglia, non si limita ad abbracciarlo, facendogli sentire in questo modo di essere amato; egli fa molto di più. Lo bacia, gli mette l’anello al dito e lo riveste della tunica reintroducendolo a pieno titolo nella sua casa. I gesti potrebbero sembrare secondari nell’economia della parabola, ma non lo sono affatto. Indicano il reinserimento nella vita della famiglia come vero figlio. Il bacio del padre attesta che il suo amore verso il figlio è rimasto, nonostante tutto, intatto e, probabilmente, proprio perché sopraffatto dal calore del padre, quel figlio non riesce neppure a terminare la frase che si era preparato. La tunica, anzi, «la veste più bella», è il segno di essere l’ospite d’onore e, quindi, trattato con tutto il rispetto dovuto; mentre l’anello è espressione del pieno potere che ha nella sua casa, perché con l’anello si imprime il sigillo.
Giovanni Paolo II durante la processione del Corpus Domini

Giovanni Paolo II durante la processione del Corpus Domini

Nell’enciclica Dives in misericordia, Giovanni Paolo II ha ripreso con forza questa icona per indicare il percorso che Dio segue nel venire incontro a ognuno di noi, senza mai stancarsi. Quel documento è un ulteriore frammento per entrare nell’insieme del suo insegnamento e percepire una tessera importante del mosaico che esprime l’amore di Dio. Essa è provocazione che spinge l’uomo a ritrovare sé stesso dopo che si è perduto per ricostruire legami e relazioni che mentre portano a compimento la giustizia, la superano per accedere al culmine dell’amore con il perdono. La misericordia, infatti, rivela il vero volto di Dio, ma impegna l’uomo a vivere altrettanto, sapendo che proprio su questo sarà giudicato.
In un periodo come il nostro che sembra contrassegnato spesso da gesti di odio e di mancanza di perdono, non può passare sotto silenzio, a conclusione, la testimonianza personale di Giovanni Paolo II. Nessuno di noi dimentica le immagini drammatiche di quel 13 maggio 1981: la pistola puntata di un giovane turco mentre il Papa passa sorridente nel salutare la folla che in piazza San Pietro voleva ascoltare la sua catechesi del mercoledì. Lo sparo fu forte, assordante e con la volontà di uccidere, ma non impedì di udire la parola di perdono che riportava in vita Giovanni Paolo II. Nella lotta tra l’odio della morte e l’amore della vita, questa ebbe la meglio e fu il trionfo della fede cristiana che sa perdonare. Le prime parole che il Papa pronunciò appena in grado di parlare furono: «Perdono di vero cuore». Parole che furono seguite dai fatti: la visita al carcere di Regina Coeli con Giovanni Paolo II che abbraccia Alì Agca sono il segno eloquente di quanto la misericordia fosse vera e concreta. Non è un caso che l’enciclica venisse scritta proprio a seguito di questi fatti; essa rimane la testimonianza più coerente di come Giovanni Paolo II abbia vissuto questi momenti.
È paradossale che in Redemptor hominis il Papa abbia voluto parlare di un “diritto” che il credente possiede davanti a Dio di essere perdonato: «È il diritto a un più personale incontro dell’uomo con Cristo crocifisso che perdona, con Cristo che dice, per mezzo del ministro del sacramento della Riconciliazione: “Ti sono rimessi i tuoi peccati”; “Va’ e d’ora in poi non peccare più”. Come è evidente, questo è nello stesso tempo il diritto di Cristo stesso verso ogni uomo da lui redento. È il diritto di incontrarsi con ciascuno di noi in quel momento-chiave della vita dell’anima, che è quello della conversione e del perdono» (Rh, n. 20). Eppure, il “diritto” da parte del credente non contraddice la gratuità dell’offerta né il diritto di Cristo limita la libertà personale; al contrario. Proprio perché realizzato alla luce dell’amore, il perdono diventa vero segno della vita nuova che viene offerta e di cui si diventa responsabili. Proprio perché ha offerto sé stesso per amore, Cristo ha il “diritto” di non essere escluso dalla nostra vita. Crescere nell’amore, dunque, per comprendere a pieno cosa possa significare il senso del perdono e la vita della comunità che è fatta di comunione.


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