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RECENSIONI
tratto dal n. 11 - 2006

Le nunziature e la Shoah


L’opera della Santa Sede per salvare gli ebrei nei Paesi controllati da Hitler e lo scandalo degli ecclesiastici filonazisti. Un volume che utilizza essenzialmente i documenti della diplomazia dell’epoca


di Roberto Morozzo della Rocca


Alessandro Duce, La Santa Sede 
e la questione ebraica (1933-1945), Edizioni Studium,  Roma  2006, 
430 pp., euro 39,00

Alessandro Duce, La Santa Sede e la questione ebraica (1933-1945), Edizioni Studium, Roma 2006, 430 pp., euro 39,00

Nel 1943 la Slovacchia, formalmente indipendente ma in realtà Stato satellite della Germania, aveva come presidente un ecclesiastico, Jozef Tiso. Vi si svolgeva una persecuzione che avrebbe fatto quasi scomparire la locale comunità ebraica. Ma è un altro ecclesiastico, il nunzio Giuseppe Burzio, a contrastare più di tutti la consegna degli ebrei slovacchi ai tedeschi perché venissero eliminati. Il caso è emblematico. Tiso subordinava la sua fede all’ideologia nazionalista, Burzio la viveva con spirito universale e, soprattutto, con viva carità. Da Roma la situazione slovacca era seguita con apprensione.
All’epoca in Vaticano non tutti i dettagli del genocidio degli ebrei erano noti ma la sostanza lo era. Il sostituto, monsignor Tardini, indignato dalla politica di sterminio dell’ebraismo messa in atto dai nazisti, era particolarmente scandalizzato da gregari di Hitler come Tiso. Reagendo alle note di Burzio, Tardini osservava con l’abituale schiettezza: «Si tratta di una questione d’umanità. Le persecuzioni sono un’offesa alla giustizia, alla carità e all’umanità. La Chiesa cattolica deve intervenire in nome del diritto divino e di quello naturale». E aggiungeva: «In Slovacchia è capo dello Stato un sacerdote. Quindi lo scandalo è maggiore e maggiore è anche il pericolo che la responsabilità possa essere riversata sulla Chiesa cattolica. Per questi motivi sembrerebbe opportuno che la Santa Sede elevasse ancora una volta la sua protesta, ripetendo» in forma ancora più chiara «quanto già fu esposto l’anno scorso». Della protesta andavano informati gli ambienti ebraici in contatto con il Vaticano, benché, soggiungeva Tardini, «non saranno mai troppo […] amici della Santa Sede e della Chiesa cattolica. Ma ciò renderà più meritoria l’opera caritatevole».
Questa breve citazione rivela parecchio. C’è la solidarietà verso gli ebrei perseguitati, c’è il dovere di coscienza di intervenire come meglio è possibile, c’è la vergogna per un ecclesiastico seguace del nazionalismo totalitario, c’è il presagio di future polemiche. Si tratta di un documento fra i tanti che attestano la complessità dell’azione della Santa Sede riguardo alla Shoah. È ora riportato nel volume di Alessandro Duce, La Santa Sede e la questione ebraica (1933-1945), insieme a una grande messe documentaria che intende offrire una «visione ampia, complessiva dell’opera svolta dalla Santa Sede e dalle sue strutture diplomatiche» fra l’ascesa al potere dei nazionalsocialisti e la fine della Seconda guerra mondiale. Il volume si presenta come un ricco repertorio di documenti, citazioni, fatti, informazioni, allineati a offrire un quadro aggiornato alle ultimissime acquisizioni archivistiche sulla materia. Ai lettori è lasciato ampio margine per capire e interpretare.
Alessandro Duce è uno specialista di politica internazionale. Non è studioso di storia religiosa, né tanto meno un ebraicista. Rivela simpatia per Pio XII, ma non ha l’ambizione di dire una parola definitiva sui cosiddetti silenzi di papa Pacelli. Tuttavia la sua impostazione fa giustizia di un approccio troppo personalistico alla questione, caro a polemisti di area anglofona come Daniel Goldhagen, David Kertzer, Robert Katz, Susan Zuccotti, o John Cornwell prima delle ritrattazioni. Duce segue una linea di indagine europea, tipicamente e correttamente storica. È la linea aperta sin dagli anni Sessanta dai curatori degli Actes et Documents du Saint Siège relatifs à la Seconde Guerre Mondiale, i padri gesuiti Blet, Graham, Martini e Schneider. Linea che è stata ripresa, con sensibilità differenti, negli studi dello stesso Pierre Blet, di Giovanni Miccoli, di Philippe Chenaux e di Renato Moro, per citare solo alcuni dei tanti che hanno percepito le distorsioni di una discussione personalizzata sulla figura di Eugenio Pacelli e hanno allargato il tema al rapporto complessivo fra cattolicesimo ed ebraismo, non solo negli anni del nazismo.
Occorreva storicizzare dinanzi alle polemiche senza fine scaturite da pamphlet accusatori, selezioni mirate di materiali documentari, morboso interesse sensazionalista dei media. Era, lo storicizzare, un processo delicato, perché apparentemente irrispettoso della sensibilità delle vittime e dell’amarezza infinita dei sopravvissuti e dell’insieme del popolo ebraico. Storicizzare era alternativo al condannare, a rimarcare lo stigma dell’infamia. Poteva apparire una mancanza di vergogna innanzi all’abisso del male rappresentato dalla Shoah. Perché distinguere, perché disputare a suon di documenti quando c’era solo da associarsi alla più profonda delle riprovazioni? Quando solo si doveva tacere pudicamente? O solo professare un mea culpa? Non eravamo noi degli europei venuti meno alla nostra alta civiltà, dei cristiani venuti meno a una resistenza profetica al male?
Ma occorreva storicizzare, per riguardo alla verità e alla giustizia, e per riguardo verso le stesse vittime. Questo significava valutare le cose accadute all’epoca della Shoah non sulla base della mentalità e delle conoscenze di oggi, ma della cultura e della temperie dell’epoca, che erano tutt’altra cosa. La storicizzazione, sempre difficile a recepirsi da parte dei media, e continuamente messa in scacco dalle passioni ideologiche del momento, è d’altra parte l’antidoto a moralismi e revisionismi iniqui.
Monsignor Domenico Tardini, sostituto alla Segreteria di Stato,  in una foto del 1936

Monsignor Domenico Tardini, sostituto alla Segreteria di Stato, in una foto del 1936

Il volume di Alessandro Duce su Santa Sede ed ebraismo fa riflettere sulla storicizzazione di un tema simile e sul valore della documentazione al riguardo. Certo, quando si fa storia contemporanea su grandi temi è illusorio avere le mani libere su tutta la documentazione. L’abbondanza di materiali è pressoché inesauribile, inarrivabile per le forze di uno o pochi ricercatori. Non per questo si deve rinunciare a scrivere la storia. Si tratterà di applicare il metodo storico più corretto, rispettoso dei documenti, giungendo per approssimazioni a conclusioni attendibili.
Per inciso, va qui rilevato che nella storia contemporanea è importante avere il maggior numero di documenti possibile nel momento in cui un grande tema viene posto per la prima volta. In altri termini, la tempestività nell’aprire un archivio può essere decisiva per orientare le interpretazioni prima che queste vengano fissate. Lo capì bene Paolo VI quando, non appena scoppiato il caso de Il Vicario di Hochhuth, dispose la redazione dei Documents du Saint Siège relatifs à la Seconde Guerre Mondiale. Purtroppo all’epoca l’apertura degli Archivi vaticani era resa impossibile da una fondata consuetudine di riservatezza cronologica. Vi fosse stata l’apertura, forse le polemiche sarebbero state smorzate, oppure meglio orientate sul nascere. Quando i documenti, anche per motivi nobili, arrivano con decenni di ritardo nel dibattito pubblico, le interpretazioni sono già scolpite dalle tante prese di posizione avvenute, ed è difficile smuoverle. Duce usa molti documenti nuovi, e li usa bene, facendo rimpiangere ciò che sarebbe avvenuto se gli archivi fossero stati aperti decenni fa. Forse, gli stessi Documents du Saint Siège relatifs à la Seconde Guerre Mondiale non sarebbero stati ingiustamente considerati un surrogato e per questo snobbati. «L’esperienza» lamentava amaro il padre Blet «mostra che il contenuto, se non l’esistenza stessa di questa pubblicazione sono ancora sfuggiti a molti di coloro che parlano e scrivono sulla Santa Sede durante l’ultima guerra». Nell’interesse dell’istituzione stessa, oltre che per la verità storica, non sarebbe convenuto avvicinare i tempi dell’apertura degli Archivi a quelli dei dibattiti storiografici, fossero pure aspri e polemici?
Il volume di Duce non riguarda la storia del pensiero, ma le relazioni internazionali. Utilizza documentazione essenzialmente diplomatica e analizza soprattutto il lavoro della diplomazia vaticana. Il rapporto tra Santa Sede ed ebraismo è posto su un piano fattuale, non dottrinario. Comunque si voglia interpretare il complesso confronto millenario con l’alterità rappresentata dall’ebreo nelle terre di cristianità, cosa fece la Santa Sede davanti alla Shoah? L’orientamento vaticano, e specificamente della diplomazia, fu sensibile alle sofferenze del popolo ebraico. Duce – che scrive in una prospettiva di comparazione su scala europea – ha il merito di focalizzare l’azione di ciascun rappresentante pontificio nei Paesi europei soggetti al dominio hitleriano o in vario modo coinvolti nella vicenda della Shoah. Si può dire che tutti, con l’eccezione forse di Orsenigo a Berlino, segnato da un’attitudine piuttosto rassegnata, si mobilitarono per la salvezza degli ebrei. Lo fecero con un soprassalto di fede e di umanità che veniva dalle loro coscienze, prima che dai loro ruoli ufficiali.
Da tempo s’intuisce che lo snodo del nesso tra cristiani e Shoah, al di là della querelle sui “silenzi”, sta nel soccorso prestato o non prestato, nella carità esercitata o negata. L’ospitalità ecclesiastica agli ebrei, in numerosi Paesi europei a tradizione cattolica – e in Italia dopo l’8 settembre 1943 – è emblematica. È una testimonianza della pietà cattolica verso gli ebrei perseguitati. Molti ebrei italiani, in una percentuale vicina all’85 per cento, poterono scampare alla morte. Ciò si deve, ha osservato Alexander Stille, «ai loro connazionali cristiani» che li ospitarono o li protessero. In Italia – è vero – non c’era un antisemitismo popolare. Ma è anche vero che in molte città, Roma per prima, conventi e case religiose aprirono le porte agli ebrei, dei quali i tedeschi avevano le liste, approntate in base alle leggi razziali del 1938. Al fenomeno dell’ospitalità ecclesiastica va però affiancato – spesso lo si dimentica – l’impegno dei diplomatici vaticani nelle sedi più esposte al dominio o all’influenza nazista.
Penso in particolare al già citato Giuseppe Burzio in Slovacchia, ad Andrea Cassulo in Romania, ad Angelo Rotta in Ungheria, ad Angelo Roncalli in Turchia, e ai loro immediati collaboratori che rischiavano non meno dei superiori. Questi uomini salvarono migliaia di ebrei. La motivazione era quella bene espressa da monsignor Roncalli, che pure non lesinava espressioni critiche sul sionismo come movimento storico: «Siamo innanzi ad uno dei più grandi misteri della storia dell’umanità. Poveri figli d’Israele. Io sento quotidianamente il loro gemito intorno a me. Li compiango e faccio del mio meglio per aiutarli. Sono i parenti e i concittadini di Gesù. Che il Divino Salvatore venga loro in aiuto». Non mancavano situazioni paradossali e avvilenti, come quella del cosiddetto Stato indipendente croato, dove il sanguinario regime ustascia, imitatore del razzismo nazista, si voleva al tempo stesso campione del cattolicesimo, per radicarsi nella tradizione nazionale croata. Qui il visitatore apostolico Giuseppe Marcone, dai poteri assai limitati, s’impegnava come poteva per salvare ebrei, mentre la Santa Sede, conoscendo le aberrazioni del regime, evitava qualsiasi riconoscimento diplomatico. Anche Paesi di tradizione religiosa non cattolica, come la Grecia dove operava l’incaricato d’affari Gustavo Testa, o l’Albania dove esisteva un delegato apostolico, Leone Nigris, vedevano la diplomazia vaticana mobilitarsi a favore degli ebrei perseguitati.
Il primo ministro slovacco Jozef  Tiso in una foto del 1939

Il primo ministro slovacco Jozef Tiso in una foto del 1939

Questi diplomatici vaticani agivano fra mille difficoltà, accusati di ingerirsi negli affari interni dei Paesi, osteggiati da regimi filonazisti o amici della Germania. Derogavano all’istinto professionale di mantenere buone relazioni con i governi presso cui erano accreditati. Talora erano incompresi dal clero locale contagiato dal nazionalismo dei più. La diplomazia vaticana si faceva caritatevole, compassionevole, umanitaria. C’era in questi uomini coraggiosi un soffio di universalità cristiana che li distingueva dalle società in cui operavano, ammaliate da nazionalismo e razzismo.
Certo, la Shoah è una sconfitta per l’umanità intera. Tuttavia nella sconfitta risalta la carità di questi rappresentanti della Santa Sede. È il ritratto di Cassulo tracciato nelle memorie di Alexander Safran, rabbino capo di Romania, che pur giovanissimo riuscì a salvare dallo sterminio gran parte della comunità ebraica romena: «La pressione tedesca sul governo diventava sempre più pesante e se ero tenuto costantemente al corrente era grazie a uomini coraggiosi tra i quali in particolare voglio ricordare monsignor Cassulo. Voglio anche esprimere in queste pagine la stima e l’amicizia che ho sempre nutrito per quest’uomo animato da grande spirito umanitario. Tra noi esisteva un rapporto eccezionale, eravamo legati da numerose affinità e da un grande rispetto reciproco. Non ho mai trovato chiusa la sua porta. […] Era andato anche al di là di quanto il suo ruolo di nunzio apostolico richiedesse. Infatti egli si serviva della sua grande autorità morale in ogni circostanza, anche quando niente lo obbligava a farlo. Non ripeterò mai abbastanza che gli ebrei di Romania gli devono moltissimo. E, in seguito, mi ha sempre commosso profondamente quando, a più riprese, ha detto che lo avevo molto influenzato con il mio modo di presentare le cose. […] Il giorno che mi annunciò che si potevano far tornare gli orfani dalla Transnistria, monsignor Cassulo mi prese improvvisamente la mano e si mise a piangere. Sì, era un uomo buono…».


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