Home > Archivio > 11 - 2006 > Corrispondere alla vocazione
SANTI
tratto dal n. 11 - 2006

Corrispondere alla vocazione


Accompagnata dalla santità e dalla prudenza di un gruppo di gesuiti e dalla generosità del cardinale Marco Antonio Barbarigo, santa Rosa Venerini dette vita alle prime scuole femminili. È stata canonizzata nel trecentocinquantesimo anniversario della nascita


di Lorenzo Cappelletti


Il detto “scherza coi fanti ma lascia stare i santi” dovrebbe essere applicato a evitare non solo il dileggio, ma anche trattazioni troppo affettate che, invece di accostare alla vita dei santi, finiscono per generare una ripulsa peggiore di quello stesso dileggio. È più rispettoso stare alla lettera, anche quando i documenti e i fatti fossero scarni e non delineassero un’epopea.
Lo stendardo di Santa Rosa Venerini esposto in piazza San Pietro in occasione della canonizzazione del 15 ottobre 2006

Lo stendardo di Santa Rosa Venerini esposto in piazza San Pietro in occasione della canonizzazione del 15 ottobre 2006

I documenti su santa Rosa Venerini (1656-1728), ad esempio, canonizzata lo scorso 15 ottobre, non hanno niente di epico. Di suo pugno, poi, non c’è restato granché: oltre alla Regola e al testamento, solo sei lettere, e «tutte ufficiali, che trattano cioè del governo», come si legge nella Positio super virtutibus. Il resto dell’epistolario non l’abbiamo più e neanche la sua autobiografia. Così, per ricostruire la sua vita, ci si deve rifare al sobrio Ragguaglio sulla vita della serva di Dio pubblicato nel 1732 dal gesuita Andrea Girolamo Andreucci (1684-1771). Pretendere di andare oltre sarebbe temerario. Trarremo pertanto da lui quasi tutte le nostre citazioni.
Ma una limitata informazione non è disinformazione. Anche a questo riguardo vale quasi sempre il contrario. L’Andreucci, scrivendo dopo la morte di lei, poté operare con quel necessario distacco indispensabile per scrivere di storia. E d’altra parte, in quanto nativo anch’egli di Viterbo e suo contemporaneo, non solo aveva potuto conoscere personalmente la Venerini ma era anche al corrente di ciò che si diceva di lei. «Ed io mi ricordo» scrive «che in Viterbo comunemente si diceva: noi abbiamo due sante Rose, una morta, già in paradiso, l’altra viva ed ancora con noi». La vox populi è il primo criterio sicuro non solo della santità ma anche della serietà con cui la si indaga, specie se si tratta della vox populi romani: «Eccovi o riverito lettore» scrive l’Andreucci nell’avvertenza iniziale «un esemplare di pietà e di zelo della salute delle anime in una donna vissuta in questi nostri ultimi tempi sotto gli occhi più critici di varie città e di Roma istessa solita a ben discernere le virtù vere dalle apparenti».
Battezzata il giorno di santa Scolastica, il 10 febbraio 1656, si potrebbe dire che il destino di Rosa Venerini è già tutto implicato nel nome della santa sorella di Benedetto. La scuola sarebbe stata infatti la sua via alla santità. Una via che le si dischiuse in maniera del tutto gratuita.

Gli inizi
Rosa, cresciuta in una famiglia piuttosto agiata da genitori perbene e un po’ attempati, fin da piccola aveva maturato, seppure con diverse incertezze, l’idea di entrare in convento. Ma dopo una brevissima e non felice permanenza in un monastero viterbese dove era monaca la zia, e una volta morti i suoi, avrebbe voluto d’improvviso fuggire dalla città, per «monacarsi fuori di Viterbo». Aveva ventisei anni. Nella biografia dell’Andreucci si legge che il confessore della Venerini (padre Domenico Balestra, gesuita come il biografo, accanto al quale visse gli ultimi anni della vita potendo dunque informarlo su questo direttamente) prudentemente glielo aveva vietato, col dire che riconosceva in lei non più di un’ispirazione ordinaria, sebbene grande, e che «se Iddio ne avesse voluto l’esecuzione l’avrebbe disposta co’ mezzi ordinari. Intanto pregasse Iddio, si fidasse di Lui ed aspettasse opportuna congiuntura».
Accadde proprio così. Pregare Dio e lasciare che sia Lui a guidarci attraverso le circostanze è metodo infallibile. Mentre dunque Rosa attendeva con semplicità, come le era stato suggerito, alla recita quotidiana del rosario insieme a un gruppetto di giovani viterbesi, la sua strada si palesò prima e meglio che se fosse stata appositamente scelta. «Osservò Rosa nel dirsi il santo rosario e proporsene i misteri che alcune di quelle donne e fanciulle erravano: onde essa si avanzò a istruirle e dipoi a interrogarle sopra le cose principali di nostra fede nel che trovò in molte di esse sì grande ignoranza e sì gran bisogno d’essere ammaestrate che stimò bene cambiar quella funzione in catechismo». Insomma fu dalla preghiera in comune che nacque il catechismo e da lì la scuola.
Se non si tiene presente questo percorso non si comprende alcunché delle “Scuole pie Venerini” e non si comprende, nemmeno da parte degli stessi addetti ai lavori – si potrebbe azzardare –, cosa sia la cosiddetta scuola cattolica. A proposito, il termine “scuola pia”, da cui traggono tuttora il loro nome gli Scolopi di san Giuseppe Calasanzio (1556-1648), che per primo l’utilizzò, all’origine significava non tanto scuola di devozione, come si potrebbe pensare, quanto piuttosto scuola gratuita. Questo è anche il senso delle “scuole pie” della Venerini. «Questa scuola si fa gratis dalle maestre» è l’esordio della Regola. Tanto più essendo l’intento fondamentale quello di istruire nella dottrina e nella vita cristiana. Certo, se all’inizio non fossero intervenuti tanti miracoli a provvedere il pane quotidiano, e in particolare se non ci fosse stata la straordinaria generosità del cardinale Marco Antonio Barbarigo, vescovo di Montefiascone (cfr. 30Giorni, n. 7/8, pp. 90-93), mandare avanti la scuola sarebbe stato impossibile. Ma questo non fa altro che rimarcare che la gratuità è condizione indispensabile, allora e oggi, della trasmissione di ciò che ci sta a cuore e soprattutto di ciò che sta a cuore al Signore. Non fosse altro perché obbliga il Signore a operare: «… Quasi volesse il Signore dimostrare che l’opera era sua e che egli specialmente l’assisteva», scrive a un certo punto l’Andreucci.

La visita di papa Clemente XI alla scuola di Rosa Venerini, il 24 ottobre 1716, a Roma. La scuola era situata in una piccola via tra il Campidoglio e piazza Venezia. Quadro a olio dell’epoca, Pinacoteca Maestre Pie Venerini, Roma

La visita di papa Clemente XI alla scuola di Rosa Venerini, il 24 ottobre 1716, a Roma. La scuola era situata in una piccola via tra il Campidoglio e piazza Venezia. Quadro a olio dell’epoca, Pinacoteca Maestre Pie Venerini, Roma

Da Viterbo a Roma
Ma riprendiamo la narrazione. Nel 1685, confortata dalle sue guide spirituali, in modo particolare da padre Ignazio Martinelli, che aveva sostituito a Viterbo il padre Balestra e che sarà poi sempre al suo fianco, Rosa dà seguito all’ispirazione scolastica e apre la prima scuola a Viterbo insieme con altre due compagne (questo numero minimo, di almeno tre maestre, sarebbe stato fissato poi dalla Regola) in una casa messale a disposizione da una benefattrice. Molte altre ne sarebbero seguite a partire dall’ultimo decennio del XVII secolo, soprattutto per impulso del cardinale Marco Antonio Barbarigo che fu il primo vero promotore delle scuole di Rosa Venerini.
Si può immaginare, naturalmente, data la mentalità dell’epoca e la pusillanimità che è invece tratto connaturale agli uomini di ogni epoca, quali dicerie e contrasti accompagnarono l’opera. E, nota con finezza l’Andreucci, riportandone qualche caso: «Quello però che suole essere di maggior patimento è l’essere taluno costretto a patire mediante le persone da bene». Nonostante questo, le scuole danno buona prova di sé, soprattutto per la fermezza con cui Rosa non viene meno a quel che l’esperienza stessa e il consiglio di uomini saggi le avevano insegnato, e finalmente “sbarca” a Roma nel 1707. Anche qui non senza difficoltà per la santa concorrenza con la scuola pia di santa Lucia Filippini che, sorta a Montefiascone per incarico dato originariamente dallo stesso Barbarigo alla Venerini, si era andata poi sviluppando autonomamente. Per cui, a Roma, Rosa Venerini si stabilirà definitivamente, nei pressi di piazza San Marco, solo a partire dal 1713.

La fruttuosa missione quotidiana del fare scuola
Dicevamo all’inizio che non si fa giustizia né a Dio né a santa Rosa Venerini se si fa della sua vita un’epopea. Tale non può mai essere la vita di un educatore, se non di riflesso, e tale non fu quella di santa Rosa Venerini, anche in ragione degli stessi doni di prudenza e di «sodezza dello spirito», come scrive l’Andreucci, che il Signore le aveva fatto: «Vedevasi in questa donna, e nel parlare e nell’operare, una prudenza, saviezza e discrezione in realtà singolare».
Lo si vede anche semplicemente dalle qualità che esigeva nelle maestre (che preparava scegliendole fra le sue stesse alunne), come la sanità di corpo e di mente: quest’ultimo requisito espresso col dire «che non fossero d’un genio innovativo»; mentre altre qualità preferiva smussarle, quasi fossero di troppo, come l’uso «di aggravarsi con una molteplicità di orazioni vocali e divozioni o penitenze straordinarie». Il fare scuola, sosteneva, è di per sé già una fruttuosa missione quotidiana, per cui «soleva essa dire che queste tanto buone, le quali vogliono fare tanto bene, si riducono a non fare verun bene ben fatto, ma, mentre fanno un’opera, pensano con inquietudine come, dove, quando potranno fare quell’altra ed in tal guisa, facendo male quel che attualmente fanno, cagionano disturbo ed inquietudine nelle altre».
L’avvedutezza e la risolutezza con cui Rosa procede in tutti i suoi passi è frutto, non c’è dubbio, anche della frequentazione dei tanti gesuiti che solo per la maggior gloria di Dio ne hanno accompagnato il cammino. Oltre i già nominati, e altri ancora che come una compagnia di leali cavalieri si erano posti al servizio della grazia del Signore all’opera in questa donna, ce n’è uno che va ricordato, un gesuita fiorentino oggi un po’ dimenticato, ma molto amato all’epoca perché animatore di innumerevoli missioni al popolo nel Lazio: Antonio Baldinucci (1665-1717). La Venerini gli fu molto affezionata in vita e in morte. Il diavolo stesso aveva reso loro testimonianza accostandoli un giorno nella rabbiosa invettiva di un ossesso durante una missione del Baldinucci, «quando cominciò a gridare oh quel Baldinucciaccio! oh quella Rosaccia! Volendo forse alludere» commenta Andreucci «al gran danno che gli facevano queste due persone, quello colle sacre missioni, questa colle scuole delle fanciulle». Dopo aver ricevuto una grazia dallo stesso Baldinucci, morto pochi anni prima, Rosa scrive nel 1723: «Resta ora che io m’approfitti di tante misericordie di Dio e cominci una volta ad amarlo davvero con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente e con tutte le forze». Tutti, in primis i santi, sono indotti ad amare il Signore per le grazie che ricevono da Lui attraverso l’intercessione di altri amici in paradiso.
Se in ordine al governo dell’Istituto Rosa usava innanzitutto un intelligente discernimento, con i più poveri e gli ammalati, a cominciare dalle sue stesse maestre, usava squisita carità. Per dieci anni a Viterbo assisterà una donna segnata da una malattia ripugnante. E non si trattava di un caso isolato: «Suo costume poi ordinario era in Viterbo mandare alle povere inferme della città ogni regaluccio che ad essa venisse fatto e nei tempi che avanzavano dalla scuola andarle a visitare e consolarle con istraordinaria amorevolezza». Questo ci fa riflettere e ci fa ritornare a quanto sopra dicevamo, circa la necessità che l’insegnamento sia soprattutto un atto di carità. Se per necessità di analisi, infatti, si possono distinguere i santi della carità dagli educatori o dai dottori, potrà mai esserci un educatore che non coltivi un’umile e appassionata carità? E prendendo le cose alla rovescia, non è proprio quando la carità va a farsi benedire, che perde ogni efficacia l’insegnamento cristiano?

Per più di due secoli le maestre di Rosa Venerini sono rimaste ancorate al territorio di origine che corrispondeva all’antico Stato Pontificio; oggi invece sono presenti 
negli Usa, in America Latina, in Asia, in Africa e nell’Europa dell’Est; qui sopra, gli alunni della scuola Venerini nello Stato di Andhra Pradesh, in India

Per più di due secoli le maestre di Rosa Venerini sono rimaste ancorate al territorio di origine che corrispondeva all’antico Stato Pontificio; oggi invece sono presenti negli Usa, in America Latina, in Asia, in Africa e nell’Europa dell’Est; qui sopra, gli alunni della scuola Venerini nello Stato di Andhra Pradesh, in India

Gli ultimi mesi
I lunghi mesi della malattia finale di Rosa devono essere stati travagliati non solo dal punto di vista fisico se nella stessa biografia dell’Andreucci si legge che «non solo pigliò maggior forza il male […] ma inoltre si trovò così desolata e così arida che non isperimentava più alcuna consolazione spirituale dalla quale venisse in alcuna parte alleggerita l’infermità e il patimento del corpo». D’altronde ella aveva sempre mostrato una sovrana indiferencia di fronte a quanto poteva personalmente capitarle in bene o in male, da lei stessa chiosata, secondo quel che ci riferisce l’Andreucci, con le parole del Padre nostro: “Sia fatta la Tua volontà come in cielo così in terra”. Tanto che sembra addirittura anticipare certe prerogative di santa Teresina quando si legge che voleva servire e adorare la maestà di Dio «ancorché non ne dovesse provare alcun gusto sensibile; e però, purché fosse assistita dalla sua grazia, purché le avesse dato forza da operare conforme al suo divino volere, si protestava che volentieri avrebbe tollerato che egli si allontanasse, cioè nascondesse a’ suoi sentimenti il tenero affetto della sua presenza».
Così non ci sorprende che Rosa muoia un venerdì, giorno che nell’Istituto aveva voluto consacrato alla mortificazione e alla preghiera, e a cui personalmente non era mai venuta meno, ma soprattutto giorno in cui, ancora ragazzetta, come ricorda l’Andreucci in capo alla sua biografia, dopo aver pregato “Signore, se voi non mi fate una qualche grazia speciale, io non posso distaccarmi da questa terra”, le era capitato in mano «un libriccino in cui leggevasi essere solito il Signore concedere una qualche grazia speciale spettante alla salute eterna a chiunque in giorno di venerdì avesse in memoria della passione fatto un atto di mortificazione interna». E lei con ingenua prontezza, come solo i ragazzi sanno fare, aveva subito deliberato di non affacciarsi alla finestra a guardare un giovane che le piaceva. Il Signore probabilmente non se lo era più dimenticato: a vocatione pendet aeternitas.


Español English Français Deutsch Português