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EDITORIALE
tratto dal n. 05 - 2002

Gli uomini del Papa


L’intervento che il senatore Giulio Andreotti ha tenuto il 17 maggio scorso nell’aula del Sinodo in Vaticano in occasione del tricentenario della fondazione della Pontificia accademia ecclesiastica


di Giulio Andreotti


Giovanni Paolo II con i nunzi apostolici durante il Giubileo dei rappresentanti pontifici, il 15 settembre 2000

Giovanni Paolo II con i nunzi apostolici durante il Giubileo dei rappresentanti pontifici, il 15 settembre 2000

ýuando ho ricevuto l’invito dell’eminentissimo cardinale Sodano – al quale rinnovo il mio ringraziamento – a prendere la parola in questa solenne riunione celebrativa del tricentenario dell’Accademia, per parlare degli “Uomini del papa”, avevo avuto la tentazione di commentare quella sottile dicotomia, cronistoricamente quasi sempre esistita, tra la persona o le persone al servizio quotidiano e come tali vicinissime a tempo pieno al santo padre, e la struttura ufficiale della Curia. Negli atti per la beatificazione di Pio X vi sono pagine illuminanti sui rimproveri dati al “partecipante” monsignor Bressan perché non informava la Segreteria di Stato sulla corrispondenza privata del Pontefice; e la risposta del monsignore era che non aveva modo oltretutto di conoscere il contenuto delle molte lettere che il Papa scriveva a mano, perché di persona Sua Santità incollava le buste. Ma mi inoltrerei in un terreno non adatto alla solennità di questo incontro, nel quale sarebbe anche incongruo indulgere ai ricordi di noi ragazzi di Campo Marzio negli anni Trenta quando, intimiditi dalla solennità del titolo di Accademia dei Nobili, eravamo però affascinati da un illustre predecessore di monsignor Justo Mullor, il presidente monsignore Giovanni Zonghi, che veniva nella nostra parrocchia di piazza Capranica, accolto, più o meno esattamente, con il mitico titolo di stenografo capo del primo Concilio Vaticano.
Mi sembra invece pertinente riferirmi a quelli che sono gli “inviati” del santo padre nelle nunziature e nelle delegazioni apostoliche. Mi limiterò agli aspetti contemporanei, lasciando ad altri, o comunque ad altra occasione, le ricostruzioni storiche di eccezionali rappresentanti pontifici lungo i secoli, come – per prendere uno dei tanti esempi – quel Giovanni da Montecorvino che arrivò in Cina nel 1294 come ambasciatore straordinario del Papa, accolto con tutti gli onori, tanto da farlo risiedere nella Città proibita e consentirgli di svolgere apertamente anche attività missionaria, coronata sedici anni dopo con la sua consacrazione ad arcivescovo di Pechino e patriarca di tutto l’Oriente. La dinastia del momento favorì senza riserve questa fioritura di cattolicesimo, che avrebbe conosciuto in seguito dolorosi tramonti e nuove aurore in connessione diretta, appunto, anche con i mutamenti dinastici.
Venendo ai nostri giorni, inizio con un ricordo molto significativo.
La sera del 28 novembre 1962, nella solennità del salone di palazzo Barberini affrescato da Pietro da Cortona, le Forze armate della Repubblica Italiana offrirono un grande ricevimento per esprimere la riconoscenza della nazione ai padri conciliari – nunzi e vescovi residenziali – che durante l’ultima guerra in tante terre lontane avevano prestato una preziosa assistenza agli italiani prigionieri, portando loro il saluto e la benedizione del Papa. Nell’occasione fu rievocata con grata ammirazione anche la rete informativa che, tramite le nunziature e le delegazioni apostoliche, era stata impiantata dalla Santa Sede per dare la possibilità a centinaia di migliaia di militari di tante nazioni di informare le famiglie della propria sopravvivenza e, a loro volta, ricevere messaggi dalla patria lontana.
Si ricordò anche il ruolo che aveva avuto L’Osservatore Romano nel far conoscere quello che la censura ministeriale vietava; a cominciare dai messaggi di solidarietà che Pio XII inviò ai capi di Stato di Belgio, Olanda e Lussemburgo, invasi dal nemico. Gli Acta diurna furono un prezioso strumento di informazione internazionale che avvicinò tra l’altro al mondo della Chiesa anche molti uomini “lontani”.
Sullo stesso Osservatore Romano inoltre erano spesso usciti importanti scritti di indirizzo sociale che risultavano molto utili per preparare correttamente, in particolare i giovani italiani, ai tempi nuovi.
Ma in tante altre occasioni, prima e dopo, gli uomini del Papa accanto e talvolta nell’esercizio delle loro funzioni primarie hanno contribuito incisivamente anche alla conoscenza e al prestigio della nostra nazione.
Il solo elenco sommario di queste pagine di storia diplomatica della Chiesa andrebbe oltre il limite del quarto d’ora del mio discorsetto. Mi limiterò ad enunciare tre momenti.
Al termine della Prima guerra mondiale, mentre a Parigi si intrecciavano complessi progetti e controprogetti di sistemazioni geopolitiche, colloqui riservatissimi avvennero nella primavera del 1919 tra il segretario degli Affari ecclesiastici straordinari, monsignor Bonaventura Cerretti – giunto per questo da Roma – e il nostro presidente del Consiglio, onorevole Vittorio Emanuele Orlando. L’iniziativa era stata del cardinal Mercier e occasionalmente del vescovo americano di Oklahoma, monsignor Kelly, che era venuto a parlarne con il cardinal Gasparri, trovando immediato consenso da parte di Benedetto XV. La possibilità di risolvere la questione romana si appalesò provvidenzialmente vicina, forse anche perché Orlando – ritenendosi umiliato dal trattamento degli Alleati – vedeva in questo campo una compensazione politico-morale. Sono sue queste singolari espressioni: «Come capo del governo italiano, mentre non posso dimenticare gli interessi della nazione, devo anche tenere presenti gli interessi della Santa Sede. Di più, il popolo italiano, volere o no, è cattolico e sarà sempre cattolico. L’italiano è italiano perché parla la lingua italiana, la parlerà male, spesso dirà grossi spropositi, ma è sempre italiano. Nella stessa maniera è cattolico, sarà forse cattolico come parla l’italiano, più o meno bene, ma è sempre cattolico. Si aggiunga poi che, per disposizione della provvidenza, o del “fato” delle circostanze, come volete, l’Italia è la residenza del papato e il papato è la più grande forza morale che esiste, è inutile negarlo. E il papa non può essere suddito di nessun governo».
Sin qui Orlando.
Così si addivenne ad uno schema articolato di accordo su cui il presidente si assicurò da Parigi l’adesione del ministro dell’Interno, onorevole Nitti, e dei ministri che politicamente contavano. Il 10 giugno fece informare il re e tutto sembrava concluso, ma cinque giorni dopo Orlando era costretto alle dimissioni. Purtroppo la situazione interna italiana era segnata da una lacerante instabilità.
Tra il novembre 1919 e l’ottobre 1922 si susseguirono in quaranta mesi ben sette governi cui fece seguito, per la legge dei contrari, un governo – o meglio una presidenza del governo – di durata più che ventennale. Quello che era stato impossibile nel periodo della instabilità divenne realtà, con reciproco interesse, nel febbraio del 1929 mediante i Patti lateranensi.
Va sottolineato un punto del Concordato (all’art. 43) che appare singolare nel regime di monopolio politico italiano allora vigente: là dove si dice che «Lo Stato italiano riconosce le organizzazioni dipendenti dalla Azione cattolica in quanto esse, siccome la Santa Sede ha disposto, svolgano la loro attività al di fuori di ogni partito politico». Si fissava così la permanenza degli Accordi anche in un avvenire pluralista. Del resto, come è noto, l’Assemblea repubblicana del 1946 recepì formalmente gli accordi del Laterano inserendoli nella Carta costituzionale. Non è arbitrario – anche se non lo si è quasi mai messo in rilievo – attribuire una parte dei consensi nella sofferta e non facile votazione del 25 marzo 1947 alla gratitudine verso la Santa Sede per avere evitato all’Italia una umiliante ferita. Mi riferisco ai passi (documentati sono quelli americani e irlandesi, ma forse non furono i soli) fatti per sondare l’accoglienza del Vaticano all’idea di una garanzia internazionale della sua propria sovranità che avrebbe dovuto essere adottata dalla Conferenza della pace. Le non poche difficoltà vissute dal corpo diplomatico presso la Santa Sede a causa dello status di belligerante dell’Italia rendevano non priva di logica questa internazionalizzazione, che monsignor Montini contribuì decisamente a scoraggiare. Forse questo spiega anche la personale attenzione che lo stesso monsignor Montini portò fino all’ultimo a questa parte del nostro lavoro costituente.
A Giovanni Battista Montini – divenuto Paolo VI – si dovette più tardi la felice decisione – vincendo, per quel che si seppe, non poche difficoltà interne – di far partecipare la Santa Sede prima al Trattato di non proliferazione nucleare e poi al coraggioso disegno di Cooperazione e sicurezza europea sottoscritto nel 1975 a Helsinki da tutti i Paesi del nostro continente (salvo l’Albania) congiuntamente agli Stati Uniti d’America e al Canada.
Che significato poteva avere mai – si domandavano molti – questo solenne impegno, se nel contempo l’Unione Sovietica (alla quale peraltro si doveva l’idea, affacciata fin dal 1954 e ribadita nel 1966) riaffermava la sovranità limitata dei propri alleati? Illuminante fu la risposta data da Aldo Moro, per il quale, vivo e morto, il Papa ebbe una forte predilezione. Moro, che aveva apposto la sua firma anche come presidente di turno della Comunità, disse profeticamente: «Il signor Breznev passerà; e il seme che noi ora gettiamo darà sicuramente i suoi frutti».
Lo ricordammo commossi a Parigi quando nel 1990 fu adottata, sullo stesso modulo, la Carta della nuova Europa secondo un disegno che purtroppo è rimasto ancora in gran parte inattuato, forse per il prevalere di altre aggregazioni, militari e politico-economiche, che potrebbero invece benissimo coesistere.
Lontani e dimenticati sono comunque i tempi nei quali l’Italia politica sbarrava la strada alla partecipazione della Santa Sede a conferenze internazionali.
A Parigi l’unico superstite di Helsinki era proprio l’uomo del Papa Agostino Casaroli, al quale è legata una stupenda tessitura diplomatica pontificia, da quando Giovanni XXIII lo nominò nel 1961 sottosegretario alla Congregazione per gli affari ecclesiastici straordinari; per essere promosso sei anni dopo da Paolo VI segretario della stessa Congregazione – denominata ora per gli Affari pubblici – e da Giovanni Paolo II nel 1979 segretario di Stato, ufficio che tenne con grandissimo prestigio fino al 1° dicembre 1990, un anno dopo aver raggiunto la fatidica soglia dei settantacinque anni. Si poté dedicare con maggiore intensità all’assistenza non solo spirituale degli ospiti del carcere minorile e di molti reduci da queste dolorose esperienze giovanili ai quali era stato prodigamente vicino anche nei momenti di maggiore impegno nei suoi uffici.
Ma, in proposito, mi sembra giusto che si riconosca che per gli addetti alla diplomazia vaticana (e il discorso può estendersi all’intera Curia) l’esercizio di attività pastorali è norma e non eccezione; tanto da essere definiti non come “diplomatici che celebrano anche la messa” ma come sacerdoti addetti alle strutture di rappresentanza della Santa Sede.
Ricordo qui, per tutti, una figura per la quale pende il processo di beatificazione, monsignor Giuseppe Canovai, che illuminò con il suo straordinario zelo apostolico le nunziature di Buenos Aires e di Santiago del Cile.
Ma, a parte le virtù in grado eroico, e a parte l’apostolato esercitato silenziosamente e senza risonanza, vi sono tante pagine edificanti di una lunga storia spirituale parallela.
In molte generazioni del secolo passato era incancellabile, ad esempio, la realtà del “Ristretto del Sacro Cuore” fondato e personalmente diretto da un minutante della Segreteria di Stato, monsignor Antonio Colonna, che si sussurrava avesse rinunciato ad ogni, per così dire, progressione di carriera per non allontanarsi da Roma e dai suoi giovani. Il primo venerdì del mese centinaia di studenti si raccoglievano all’alba in preghiera nella basilica di Santa Maria degli Angeli avendo a disposizione, per le confessioni, molti superiori e colleghi di don Antonio. Ricordo ancora i cartelli che indicavano i nomi di questi sacerdoti: Camagni, Dal Ton, Malusardi, Principi, Grano, Tondini, Barbetta e Montini. Quest’ultimo fu anche a lungo il punto di riferimento culturale e religioso di molte leve di universitari.
Monsignor Agostino Casaroli, in qualità di delegato speciale di Paolo VI, firma a nome della Santa Sede l’Atto finale della Conferenza di Helsinki nell’agosto del 1975

Monsignor Agostino Casaroli, in qualità di delegato speciale di Paolo VI, firma a nome della Santa Sede l’Atto finale della Conferenza di Helsinki nell’agosto del 1975

Ma forse sarebbe giusto – e va fatto in sede propria – mettere in maggior luce tante altre iniziative di apostolato suscitate da personaggi della Curia romana. Citerò solo la Congregazione del cardinale Massimi e successivamente di monsignor Montezemolo; Villa Nazareth di Domenico Tardini (e poi di Samorè e di Silvestrini); l’Oratorio di San Pietro di Borgongini-Duca, di Ottaviani e di Spellman; i giovani del cardinale Di Iorio a Santa Pudenziana; la cura dei Laureati cattolici prestata a Sant’Ivo da monsignor Amleto Giovanni Cicognani, prima e dopo la sua missione negli Stati Uniti.
Pensavo a tutto questo il mese scorso vedendo il filmato – peraltro più che pregevole – nel quale per esaltare il Papa buono gli si contrappongono (in modo storicamente non vero, ma forse per necessari effetti scenici dello spettacolo televisivo) cardinali – uno specialmente – arcigni e cattivi.
Ma il mio tempo è scaduto. Concludo con due annotazioni.
Dal 1929, dopo la Conciliazione, anche l’Italia ha una rappresentanza diplomatica del Vaticano. Ed è significativo sottolineare che la sede della nunziatura, dopo gli anni di via Nomentana legati al lungo mandato di monsignor Francesco Borgongini-Duca, è ora nella villa di via Po che il senatore israelita Isaia Levi volle significativamente donare alla Santa Sede.
Infine una eloquente comparazione di cifre: nel 1939 la stessa Santa Sede aveva 38 nunziature; all’inizio del pontificato di Giovanni Paolo II erano salite a 108 ed ora sono 172.
Il Papa ha i suoi uomini presenti quasi ovunque. L’auspicio – e la nostra preghiera a Dio – è che nell’interesse non solo della Chiesa questo quasi possa al più presto scomparire.


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