Le vie di Shikò
Una delle tante bambine di strada di Nairobi racconta la sua vita. Piccola storia che è anche figura di un continente che subisce abusi inenarrabili
di Davide Malacaria
Renato Kizito Sesana, Shikò. Una bambina di strada
E poi la polizia. E la prigione. “Kadema” (o forse un’altra: ne ha girate tante, Shikò, di prigioni, che ne confonde i nomi) è quella dove usano una sorta di sedia elettrica, ma anche nelle altre non si scherza: giù i vestiti e giù frustate con il filo elettrico. Poi anche qui, e ancora, abusi sessuali.
Una vita a fuggire, a tentare di sopravvivere e a evitare i coltelli e le mani dei più grandi. A passare di luogo in luogo; sempre a cambiar nome per non lasciare troppe tracce dietro di sé. Una rassegna di orrori, guardata con occhi bambini. Ché anche se tutto intorno a lei è impazzito e violento, Shikò rimane bambina. Verso la madre, stremata dalla malattia e da un uomo violento – un altro, perché è impossibile vivere negli slum senza la protezione di qualcuno – va tutto il suo affetto. Una madre cui non mancherà di far visita di tanto in tanto, tra una prigione e l’altra, tra una violenza e un’altra. Proprio in una di queste visite la bambina incontra Anne, ora direttrice di “Rescue Dada” (ovvero “salva sorella”), un’associazione dell'arcidiocesi di Nairobi dedita al recupero delle bambine di strada, che la porterà con sé per poi affidarla alle cure della “Casa di Anita”, una delle tante opere di carità fiorite attorno a padre Renato Sesana (“Kizito”, come lo chiamano i suoi, dal nome di uno dei martiri ugandesi), missionario comboniano che da anni opera in Kenya. È la sua penna ad accompagnare la voce narrante della bambina, inframmezzando il racconto con commenti e spiegazioni. Così la storia di una bambina diventa spunto per accennare alla piaga dell’alcolismo che si sta diffondendo in tutta l’Africa, o per spiegare come milioni di persone per curarsi devono ricorrere alle medicine illegali e spesso fasulle, dal momento che le altre hanno prezzi inaccessibili. O per parlare dell’Aids, che sta divorando un intero continente nell’indifferenza generale. Così la piccola storia di Shikò è, insieme, la storia di un continente che ha subito e sta subendo abusi inenarrabili. Ma anche la storia di una speranza, perché Shikò è uscita dalla strada grazie a una piccola opera buona. Lì, nella “Casa di Anita”, ha anche conosciuto Dio: «Adesso ho conosciuto il Signore dei cristiani», scrive, «e anche se non ho capito molto, mi piace questo Dio perché è buono e perdona e ci chiede di essere buoni e perdonare anche noi». Così, semplice. Adesso, dice, la chiamano Malaika, che vuol dire “angelo”. Non l’avrebbe mai creduto.
Piccola storia bambina. Che crediamo meriti di essere letta.