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RECENSIONE
tratto dal n. 12 - 2006

Le vie di Shikò


Una delle tante bambine di strada di Nairobi racconta la sua vita. Piccola storia che è anche figura di un continente che subisce abusi inenarrabili


di Davide Malacaria


Renato Kizito Sesana, Shikò. Una bambina di strada

Renato Kizito Sesana, Shikò. Una bambina di strada

«Il mio nome è Shikò e vengo da un posto chiamato 87, nel quartiere di Uthiro, un sobborgo di Nairobi. La mia casa è una grossa scatola di cartone in un vicolo del centro». Così si presenta Shikò, una delle tante bambine di strada che vivono nella capitale del Kenya, in questo piccolo libro al quale ha voluto affidare la sua storia. Una storia che inizia con una fuga: madre e fratelli scappano da un marito violento e sempre ubriaco, o, meglio, violento perché sempre ubriaco. Una fuga dal paese alla grande città. È qui che Shikò vede per la prima volta i grattacieli dei bianchi. Li ammira estasiata, fausto presagio di un futuro migliore. Ma è solo un attimo, ché la fuga termina oltre quegli edifici lucenti, in uno dei tanti slum della metropoli, dove li attende una casupola miserevole, per di più in affitto. In questa nuova sistemazione, per la madre è difficile provvedere al cibo. Inizia una vita di stenti. La mamma di Shikò fa di tutto, compreso distillare changa’a – alcolico molto diffuso in Kenya – e, forse, darsi alla prostituzione. È mattina quando conduce Shikò ancora una volta presso quegli edifici brillanti. Poche parole, chiare: «Chiedi l’elemosina». Per la bambina è una frustata. Da quel giorno cambia tutto. Shikò sente crescere dentro di sé un moto di ribellione e inizia ad allontanarsi da casa e a frequentare la strada. E il piccolo popolo che l’abita. Una schiera di bambini in fuga da famiglie distrutte che vive tra i vicoli e i parchi della città, con le sue leggi, i suoi luoghi, le sue figure di riferimento. “Jeevanjee garden” è uno di questi luoghi, un parco al centro della città. Qui Shikò a volte viene a dormire, la notte, insieme al suo gruppo, un piccolo branco che deve ogni giorno lottare per la sopravvivenza in mezzo a quella giungla piena di insidie che è la metropoli. Un gruppo precario, perché in strada si usa cambiare compagni con frequenza. Bambini che hanno storie terribili dietro le spalle, spesso in preda ai fumi della colla o all’estasi di qualche droga pesante. Violenti perché respirano violenza tutto il giorno. Con una sola preoccupazione: cercare qualcosa da mangiare, a ogni costo, pena la morte per inedia. Così si rovista tra la spazzatura, si stende la mano in cerca di elemosina, a volte accompagnando quel gesto con il lancio di buste piene di escrementi verso l’ennesimo “cliente” indifferente. Ad alcuni va male. A Mimò, per esempio, che bussa alle porte alla ricerca di qualcosa da mangiare e che riceve del cibo pieno di topicida. Morirà avvelenata. Capita anche questo tra loro. A volte, invece, si ruba qualcosa. In strada si impara presto a far di tutto per sopravvivere. Anche a prostituirsi. Spesso sono degli adulti a instradare i bambini sulla via della prostituzione e del furto. Figure senza scrupoli, come “the Queen”, la regina, come la chiamano. Aiuta i bambini di strada in vari modi, tra l’altro organizzando i funerali quando muoiono, e vende ragazzine ai turisti occidentali in vena di perversioni.
E poi la polizia. E la prigione. “Kadema” (o forse un’altra: ne ha girate tante, Shikò, di prigioni, che ne confonde i nomi) è quella dove usano una sorta di sedia elettrica, ma anche nelle altre non si scherza: giù i vestiti e giù frustate con il filo elettrico. Poi anche qui, e ancora, abusi sessuali.
Una vita a fuggire, a tentare di sopravvivere e a evitare i coltelli e le mani dei più grandi. A passare di luogo in luogo; sempre a cambiar nome per non lasciare troppe tracce dietro di sé. Una rassegna di orrori, guardata con occhi bambini. Ché anche se tutto intorno a lei è impazzito e violento, Shikò rimane bambina. Verso la madre, stremata dalla malattia e da un uomo violento – un altro, perché è impossibile vivere negli slum senza la protezione di qualcuno – va tutto il suo affetto. Una madre cui non mancherà di far visita di tanto in tanto, tra una prigione e l’altra, tra una violenza e un’altra. Proprio in una di queste visite la bambina incontra Anne, ora direttrice di “Rescue Dada” (ovvero “salva sorella”), un’associazione dell'arcidiocesi di Nairobi dedita al recupero delle bambine di strada, che la porterà con sé per poi affidarla alle cure della “Casa di Anita”, una delle tante opere di carità fiorite attorno a padre Renato Sesana (“Kizito”, come lo chiamano i suoi, dal nome di uno dei martiri ugandesi), missionario comboniano che da anni opera in Kenya. È la sua penna ad accompagnare la voce narrante della bambina, inframmezzando il racconto con commenti e spiegazioni. Così la storia di una bambina diventa spunto per accennare alla piaga dell’alcolismo che si sta diffondendo in tutta l’Africa, o per spiegare come milioni di persone per curarsi devono ricorrere alle medicine illegali e spesso fasulle, dal momento che le altre hanno prezzi inaccessibili. O per parlare dell’Aids, che sta divorando un intero continente nell’indifferenza generale. Così la piccola storia di Shikò è, insieme, la storia di un continente che ha subito e sta subendo abusi inenarrabili. Ma anche la storia di una speranza, perché Shikò è uscita dalla strada grazie a una piccola opera buona. Lì, nella “Casa di Anita”, ha anche conosciuto Dio: «Adesso ho conosciuto il Signore dei cristiani», scrive, «e anche se non ho capito molto, mi piace questo Dio perché è buono e perdona e ci chiede di essere buoni e perdonare anche noi». Così, semplice. Adesso, dice, la chiamano Malaika, che vuol dire “angelo”. Non l’avrebbe mai creduto.
Piccola storia bambina. Che crediamo meriti di essere letta.


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