Alla scuola del catechismo vissuto
di Giulio Andreotti
La mia formazione religiosa
ha radici popolari, sia in casa – mia madre e mia zia, presso
la quale sono nato, erano donne dalla devozione semplice – sia tra i
ragazzini della dottrina a Campo Marzio. Mi attraevano, peraltro, i colori
della liturgia, l’armonia facile dei canti con cui si voleva
«Dio nella famiglia e nella scuola»; la processione con la
quale si portava una volta l’anno solennemente l’eucaristia
agli infermi. Altro motivo di attrazione, la preghiera ai piedi
dell’altare del nostro vecchio parroco, che lodava Dio perché
rendeva lieta la sua giovinezza (anche prima di capire un po’ di
latino, questo salmo era comprensibilissimo).
Devo un cambiamento radicale alla lettura della Vita di Cristo dell’abate Ricciotti. Ne fui molto scosso. Il Cristo storico, inserito nella tradizione biblica, mi sembrava freddo, lontano, ma nello stesso tempo le sue parabole e le guarigioni dei malati suscitavano stupore. A questo si legò, se posso dire così, un salto di qualità.
Di più. L’estate passavo lunghi periodi nel comune di mio padre, morto poco dopo la mia nascita. I miei compagni di vacanze erano seminaristi del Leoniano ai quali invece la prosa del Ricciotti appariva troppo semplice e divulgativa.
Visitare i carcerati: non è facile. Ci vogliono permessi, gradimento, procedure. Ma in qualche momento la solidarietà è necessaria. Giovanni era il prete della tipografia dei Claretiani, dove stampavamo Azione Fucina. Fu arrestato nel 1941 come antifascista militante e processato dal Tribunale speciale. Andai all’udienza tra il pubblico per fargli avere almeno uno sguardo di solidarietà. Quando tutto era passato e divenne dirigente nel sindacato rosso dei poligrafici mi raccontò che quel giorno aveva cercato di farmi capire (ecco perché gesticolava) di non fidarmi del sacerdote che mi era accanto. Era infatti un poliziotto travestito, messo lì per carpire notizie e far abboccare qualche dissidente.
Conoscere in quegli anni Gesù tramite i sofferenti, i poveri, i moribondi, era una scuola straordinaria. Più tardi capii cosa volesse dire quel “rendiconto finale”: ero malato, ero nudo, ero carcerato.
Ho cercato in seguito di vedere anche nella vita pubblica le possibilità di questa cristologia. Non sempre ci riesco. Ma in qualche momento sì. Quando, ad esempio, De Gasperi suscitava il nostro entusiasmo proponendo e attuando la legge per la terra ai contadini ci rifacevamo a certi passaggi profondi delle encicliche sociali.
Alcune parabole mi suscitano qualche problema. Che dire dello stesso salario ai braccianti dell’ultima ora e a quelli della prima, affranti dal caldo e dalla fatica! Che fosse lecito per il padrone trattandosi del suo denaro è indubbio, ma è giusto? La risposta tocca l’arduo tema del rapporto tra il diritto e la misericordia. Guai a chi non fa affidamento su quest’ultima.
Ma si può portare Cristo anche nei più sofisticati consessi internazionali. Mi sembrò che questo accadesse quando a Parigi il cardinale Casaroli, unico superstite di Helsinki 1975, rinnovò dopo la caduta del muro di Berlino l’adesione della Santa Sede alla politica di sicurezza e cooperazione europea. La Chiesa non ha divisioni armate, secondo il noto quesito di Stalin, ma ha qualcosa di ben più alto da offrire all’umanità.
Ripenso spesso alle mie vacanze giovanili. I miei coetanei chierici discutevano, già con sapienza, di filosofia e di teologia. Io andavo alla scoletta pratica dell’impareggiabile catechismo vissuto. Dio abbia in gloria don Giuseppe.
Tratto da Nuntium,
numero 12, novembre 2000
Devo un cambiamento radicale alla lettura della Vita di Cristo dell’abate Ricciotti. Ne fui molto scosso. Il Cristo storico, inserito nella tradizione biblica, mi sembrava freddo, lontano, ma nello stesso tempo le sue parabole e le guarigioni dei malati suscitavano stupore. A questo si legò, se posso dire così, un salto di qualità.
Di più. L’estate passavo lunghi periodi nel comune di mio padre, morto poco dopo la mia nascita. I miei compagni di vacanze erano seminaristi del Leoniano ai quali invece la prosa del Ricciotti appariva troppo semplice e divulgativa.
Altro motivo
di attrazione,
la preghiera ai piedi dell’altare del nostro vecchio parroco,
che lodava Dio perché rendeva lieta la sua giovinezza (anche prima di capire un po’ di latino, questo salmo
era comprensibilissimo)
Un sacerdote locale però mi aiutò a
crescere. La sua pastorale verso noi giovani laici consisteva nel farsi
accompagnare mentre faceva il parroco. Vidi così come ci si prepara
negli ultimi momenti di vita al grande passaggio. La prima volta ebbi
paura, ma mi bastò per vincere l’orrore della morte. Nei casi
successivi, mi sentii anzi partecipe al sacramento, reggendo il piccolo
vaso dell’olio degli infermi mentre don Giuseppe raccomandava
l’anima del moribondo, che alla fine lentamente, lentamente partiva.
Allora il parroco si cambiava la stola e con quella nera intonava il De profundis. Meno cupo era il
giro serale agli ammalati, anche se una povera donna affetta da un tumore
al viso che ne deformava paurosamente i tratti era uno spettacolo
sconvolgente. Tuttavia, un sorriso la illuminava nel vederci entrare. Per
un attimo sembrava normale.
Visitare i carcerati: non è facile. Ci vogliono permessi, gradimento, procedure. Ma in qualche momento la solidarietà è necessaria. Giovanni era il prete della tipografia dei Claretiani, dove stampavamo Azione Fucina. Fu arrestato nel 1941 come antifascista militante e processato dal Tribunale speciale. Andai all’udienza tra il pubblico per fargli avere almeno uno sguardo di solidarietà. Quando tutto era passato e divenne dirigente nel sindacato rosso dei poligrafici mi raccontò che quel giorno aveva cercato di farmi capire (ecco perché gesticolava) di non fidarmi del sacerdote che mi era accanto. Era infatti un poliziotto travestito, messo lì per carpire notizie e far abboccare qualche dissidente.
Conoscere in quegli anni Gesù tramite i sofferenti, i poveri, i moribondi, era una scuola straordinaria. Più tardi capii cosa volesse dire quel “rendiconto finale”: ero malato, ero nudo, ero carcerato.
Ho cercato in seguito di vedere anche nella vita pubblica le possibilità di questa cristologia. Non sempre ci riesco. Ma in qualche momento sì. Quando, ad esempio, De Gasperi suscitava il nostro entusiasmo proponendo e attuando la legge per la terra ai contadini ci rifacevamo a certi passaggi profondi delle encicliche sociali.
Alcune parabole mi suscitano qualche problema. Che dire dello stesso salario ai braccianti dell’ultima ora e a quelli della prima, affranti dal caldo e dalla fatica! Che fosse lecito per il padrone trattandosi del suo denaro è indubbio, ma è giusto? La risposta tocca l’arduo tema del rapporto tra il diritto e la misericordia. Guai a chi non fa affidamento su quest’ultima.
Ma si può portare Cristo anche nei più sofisticati consessi internazionali. Mi sembrò che questo accadesse quando a Parigi il cardinale Casaroli, unico superstite di Helsinki 1975, rinnovò dopo la caduta del muro di Berlino l’adesione della Santa Sede alla politica di sicurezza e cooperazione europea. La Chiesa non ha divisioni armate, secondo il noto quesito di Stalin, ma ha qualcosa di ben più alto da offrire all’umanità.
Ripenso spesso alle mie vacanze giovanili. I miei coetanei chierici discutevano, già con sapienza, di filosofia e di teologia. Io andavo alla scoletta pratica dell’impareggiabile catechismo vissuto. Dio abbia in gloria don Giuseppe.
Tratto da Nuntium,
numero 12, novembre 2000