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STORIA AMERICANA
tratto dal n. 12 - 2000

Ricordo di un’epoca


In questo articolo il noto editorialista della Stampa ritorna ai giorni della morte del presidente John F. Kennedy. E racconta alcuni particolari poco conosciuti. Come una lettera di cordoglio che colpì molto il fratello Robert: era di un sacerdote che riportava un brano di san Paolo


di Igor Man


L’America ha infine il presidente. George Bush e Dick Cheney non riusciranno forse a far dimenticare di aver vinto per una miseria di voti popolari e tuttavia, da sempre, in America, nel momento in cui il presidente, chiunque esso sia, banale o grande, giura: in quel preciso momento un’aura di sacralità lo avvolge. Ed egli (testa di rapa o testa d’uovo) è the President.
Va bene così dunque. Business as usual? Non proprio. Gli è che anche l’America non è più la stessa: la storia è uno schiacciasassi che qualche volta cancella i giusti.
Un comizio di John Fitzgerald Kennedy, 
eletto presidente degli Stati Uniti nel 1960

Un comizio di John Fitzgerald Kennedy, eletto presidente degli Stati Uniti nel 1960

Così accade al vecchio cronista di rifugiarsi in un amarcord facile sì ma importante. Di ricordare, cioè, un’America diversa, anche se divisa come adesso; di celebrare la memoria di un giovine irrepetibile presidente. Morto ammazzato. Il presidente della Nuova Frontiera, lui: John Fitzgerald Kennedy. Accadde trentasette anni fa, di novembre.
Era il 22 novembre 1963, un venerdì. La notizia dell’assassinio di John Fitzgerald Kennedy (JFK) cortocircuitò la brava gggente, con tre g.
A Dallas, quel giorno, uno strascico di “estate indiana” regalava il sole. Un temporale aveva inondato la notte sicché il clima era mite, persino dolciastro. «Era una gran giornata», dirà ai giornalisti, quattro giorni dopo l’assassinio, John Connally, il governatore del Texas che viaggiava nell’automobile di Kennedy, e rimase ferito. Lo dirà dal suo letto d’ospedale, in una conferenza stampa: «Era una gran giornata. Già la folla era stata grande a Fort Worth: a Dallas fummo travolti dall’entusiasmo. Mia moglie, in Elm Street, si volse verso Kennedy e gli disse: “Mister President, non potrà dire che la popolazione di Dallas non le voglia bene e non l’ammiri”. Kennedy si chinò verso mia moglie e le disse: “Certo che no, signora Connally”». Pochi attimi e schioccò il primo sparo. JFK si abbattè in avanti, silenziosamente. Mentre Connally volgeva il capo a sinistra venne colpito anche lui: «Mio Dio» gridò «qui ci ammazzano tutti». Ci fu il terzo sparo e il presidente si arrovesciò all’indietro, colpito di nuovo. «Oh my God, me l’hanno ucciso», urlò Jacqueline Kennedy istintivamente gettandosi sul cofano della Lincoln convertibile, sei posti, azzurrina, quasi volesse raccogliere la calotta cranica del marito. Rufus Youngblood, 29 anni, agente del Secret Service, saltò sulla vettura, spinse sul fondo dell’auto Jacqueline e con le braccia allargate si gettò su di lei e sul presidente per far loro da scudo; intanto gridava all’autista di correre all’ospedale. La testa straziata del marito fra le mani, Jacqueline gemeva: «Jack... Jack». Nel volger di sette secondi la grande gioia s’era mutata in una grande tragedia.
Al Parkland Hospital l’arrivo della limousine presidenziale scatenò il caos. JFK respira. A fatica ma respira. L’équipe medica diretta dal dottor Malcolm Perry rileva, però, un encefalogramma piatto e tuttavia pasticcia con trasfusioni, tracheotomia, massaggio cardiaco. Nel corridoio dell’astanteria gli agenti penavano ad aver ragione dei fotografi, dei reporter. Una infermiera sbarrò isterica il passo a Jacqueline. «Sono la moglie del presidente, debbo entrare», gridò quella. «Qui non entra nessuno, è il regolamento», gridò a sua volta l’infermiera e poiché Jacqueline tentava di scostarla, le piazzò due pugni nel ventre. Il tailleur rosa di Jacqueline era lordo del sangue di suo marito. Il rimmel sciolto dalle lacrime le rigava il viso così come in Sudan le donne colpite da un lutto subitaneo fanno con un pezzo di sughero affumicato. Ad ore 13 (locali) del 22 di novembre il dottor Malcolm Perry comunica a Jacqueline che suo marito, John Fitzgerald Kennedy, il presidente della Nuova Frontiera, è morto. Non è passata neanche un’ora e arrestano Lee Harvey Oswald.
Setacciando l’edificio dal quale sarebbero partiti i colpi, il Deposito comunale dei libri, la polizia accerta che manca uno dei dipendenti, Oswald appunto. «A tutte le auto: fermare un uomo bianco, sui trenta, capelli castani, altezza 1,74 circa. Attenzione: potrebbe essere armato». Lo è e spara, uccidendolo, addosso al poliziotto J. D. Tippit che lo aveva fermato. Spara con una Smith & Wesson calibro 38, quasi davanti al cinema Texas dove proiettano un film di guerra e dove Oswald entra, dopo aver pagato il biglietto, sedendosi in quarta fila, prossimo all’uscita di sicurezza. È nel cinema che l’arrestano. Messo sotto torchio, Oswald nega. Tutto. Ma saltano fuori, in rapida successione, una sua fotografia in cui quel ragazzo di 24 anni («Ex marine – tiratore scelto – filocomunista, filocastrista, recatosi in Urss “per fede” e, stranamente, rientrato negli Usa con una moglie russa») brandisce un fucile Carcano calibro 65 identico a quello trovato al sesto piano del Deposito. Di più: l’Fbi sciorina un’impronta digitale di Oswald rimasta sul fucile; fili della sua camicia rinvenuti nell’otturatore dell’arma e la mappa del percorso presidenziale, segnata col pennarello. Ce n’è d’avanzo perché il capo della polizia di Dallas, Will Fritz, possa dire ai giornalisti: «È lui l’assassino. Il caso è chiuso». (Il personaggio Oswald rimane un mistero. Potrebbe avere sparato lui, ma continuo a pensare che non fosse solo quel maledetto venerdì). Alle 4 del mattino del 23 di novembre, l’Attorney General (ministro della Giustizia), Robert F. Kennedy, rese l’ultimo saluto a suo fratello il presidente. Quelli delle pompe funebri avevano fatto, poveracci, del loro meglio, ma JFK «sembrava un pupazzo di plastica», sicché Bob ordinò che la bara venisse esposta nella East Room chiusa. «Non debbono vederlo così ridotto», disse. Era distrutto dalla pena, Bob. Charles Spalding, un vecchio amico, lo costrinse a cercar di dormire qualche ora. Gli porse un tranquillante e Bob: «Dio, è terribile», sospirò. «E pensare che le cose sembravano essersi messe bene, avrebbe vinto anche il secondo mandato». Da dietro la porta della Lincoln Room, Spalding udì RFK singhiozzare: «Perché, mio Dio?». Bob e lo stesso JFK temevano la trasferta elettorale di Dallas. Alla vigilia, vennero distribuiti, nella arrogante “Big D”, manifestini con la fotografia del presidente e la scritta «ricercato per tradimento». L’ex generale Edwin Walker, trombato alle elezioni per governatore, espose la bandiera a mezz’asta e capovolta «contro il bastardo irlandese papista». La mattina del delitto, sul Dallas Morning News comparve un annuncio a tutta pagina, pagato dal signor Bernard Weissman che accusava JFK di collusione con Gus Hall, leader del Partito comunista americano. Ricca, orgogliosa, sbruffona eppur raffinata, nell’aprile del 1963 Dallas bastonò Adlay Stevenson interrompendone il comizio. Il maître à penser di Dallas fu sempre John Wayne, nella “Big D” prosperava la John Birch Society, dichiaratamente nazifascista. Nel 1961 la Lega giovanile era riuscita a impedire una mostra di Picasso, «artista politicamente inquinato». E c’erano “sospetti fondati” che la lunga mano di Jimmy Hoffa stringesse quella della mafia locale al Carousel, un night club gestito da Eva Rubenstein e da suo fratello Sparky (al secolo Jacob Rubenstein). Il quale altri non è se non quel Jack Ruby che, indisturbato, ucciderà Oswald negli scantinati della polizia di Dallas mentre due agenti conducono “l’assassino ufficiale” di JFK verso il furgone del carcere della contea. (Per inciso, Oswald morirà senza aver potuto parlare col suo avvocato, nonostante implorasse questo diritto).
Dallas, un’immagine del momento in cui 
John Kennedy, che viaggia nell’auto scoperta, 
viene colpito a morte

Dallas, un’immagine del momento in cui John Kennedy, che viaggia nell’auto scoperta, viene colpito a morte

Nel 1963 l’America è in pieno benessere, conosce il baby boom, Kennedy e papa Giovanni lavorano per la distensione, l’iroso Krusciov contadino rispetta il presidente bostoniano. (In Italia sboccia piano la grande illusione del centrosinistra). Forte d’un brain trust d’eccezione, JFK pensa a un “capitalismo illuminato”, capisce quale spaventosa mina vagante sia il sottosviluppo, sposa il diritto dei neri all’autodeterminazione.
In quel tempo lontano io ero, mi sentivo “kennedyano”, al pari di una sterminata legione di giovani usciti dalla Resistenza affamati soprattutto di libertà, decisi a lavorar sodo, ognuno a suo modo e nel suo campo, per quella «alleanza per il progresso» vaticinata da JFK. Sicché fu crudele, invero, per me, una volta giunto a Dallas (il mio primo servizio da inviato per La Stampa), scoprire come soltanto uno sparuto gruppo di persone piangesse la giovinezza perduta di Lancillotto. Il reverendo metodista William A. Holmes mi disse di aver assistito sgomento allo spettacolo di giovinotti e bambini che lanciavano in aria il berretto e gridavano «evviva» apprendendo la morte di JFK.
Interrogando la memoria, scorrendo il mio taccuino d’allora, posso scrivere che c’era, tuttavia, chi piangeva Lancillotto. Là dove Kennedy è stato ucciso, la Main Street finisce e comincia la Stemmons Freeway; ai lati della strada che va in discesa si aprono due larghi prati. Sull’erba verde la pietà di pochi ha improvvisato un modesto sacrario. Ecco un nero alto e grosso, con due bambini, uno per mano. Indossa la divisa da autista di bus, i bambini vestono di bianco come nelle più tenere iconografie sudiste. Tutti e tre posano sullo sfondo d’una croce di fiori rossi. «Ho voluto portare qui i bambini a fotografarmi con loro perché da adulti possano ricordarsi meglio d’uno dei più spaventosi delitti della storia, che ha privato il mondo d’un grande uomo, libero, generoso», dice il nero. Accanto a una corona di fiori gialli, un mucchietto di lettere. In una c’è scritto: «Gli Stati Uniti han perso il presidente, io ho perduto un fratello». Firmato: John L. Block.
Nel giorno del Ringraziamento del Signore, qualcuno ha suonato alla porta del signor Block, a Oak Cliff, il quartiere dove abitava Lee Harwey Oswald. Il signor Block ha aperto e gli son piombati addosso in due: trauma cranico, frattura della mascella, sette costole sfondate. A Fort Worth, l’agente R.M. Barnes si alterna col sergente J.W. Stout alla guardia del tumulo che copre i resti di Oswald. Il sergente mi dice che sono già stati raccolti 11 mila dollari per erigere “una bella tomba” a Oswald. Come se lo spiega? «Questo è un Paese libero», risponde. Lo è veramente, se ha privato Oswald dell’assistenza legale? «Shit».
Con un po’ di dollari dati alla persona giusta, riuscii a intervistare la madre di Oswald, a Fort Worth. Abitava un miserabile “duplex” al 2220 di Thomas Place. Quattro agenti del Secret Service assisteranno all’intervista, prendendo appunti, stravaccati sul letto della signora Marguerite. La madre di Oswald è una donna animosa, coi capelli male ossigenati, eccessivamente truccata. Si esprime con proprietà di linguaggio, con una disarmante punta di snobismo. «Ho cercato di dare al mio Lee un’educazione consona alla nostra condizione sociale (upper class, dice). Siamo una distinta famiglia luterana, anche nei momenti più difficili abbiamo difeso la nostra dignità. [...] Credo nell’american way of life, perciò dico ch’è una vergogna affermare, come fa il capo della polizia, che l’assassino del presidente è mio figlio. Solo un dibattito pubblico avrebbe potuto chiarire la posizione di Lee. Ebbene, lo hanno ucciso, non ha potuto avere il suo processo, la sua colpevolezza non è stata provata. In carcere, poche ore prima che l’ammazzassero sotto gli occhi di tutto il mondo, mi disse: “Mamma sono innocente”. Ho il dovere di credergli: come madre ma soprattutto come cittadina americana». Sono passati 37 anni e i giornali americani scrivono che il caso, per milioni e milioni di persone, rimane aperto. Certamente l’assassinio di Lee H. Oswald fu un bel regalo di Natale per Hoover, il capo dell’Fbi. D’altra parte, lo stesso Robert F. Kennedy spense a uno a uno i mille interrogativi sull’assassinio di JFK: «Tanto, sia come sia, Jack non tornerà più».
Grazie a mio fratello Mirco, giornalista a New York, ebbi modo, un giorno, di parlare privatamente con Robert F. Kennedy. Mi disse che fra gli innumerevoli messaggi di cordoglio ricevuti, lo aveva colpito il brano della lettera di san Paolo a Timoteo, trascritto da un sacerdote di Minneapolis: «Ho combattuto la buona battaglia. Ho terminato la mia corsa. Ho conservato la fede. È giunto il momento di sciogliere le vele». Era il 15 di novembre del 1967. Meno di un anno dopo, il 6 di giugno del 1968, ammazzarono pure lui, Bob. Due mesi prima era toccato a Martin Luther King.
Sono passati 37 anni dalla morte oscura di Lancillotto. Addosso gli hanno rovesciato tonnellate di spazzatura, tuttavia se ci contassimo scopriremmo in tanti, proprio in tanti nel mondo, d’essere tuttora “kennedyani”. Pateticamente? Forse. «Ci salveremo perché abbiamo paura», ha scritto un vecchio poeta del Sud.


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