Non abbandonate l’essenziale
Sono stati pubblicati, a cura di monsignor Rino Fisichella, gli Atti del “Convegno internazionale di studio sull’attuazione del Concilio ecumenico Vaticano II” promosso dal Comitato centrale del Grande Giubileo
di Lorenzo Cappelletti
Gli Atti del Convegno editi dalle Edizioni Paoline
Il volume si conclude con un “Approdo sintetico”, ovvero le conclusioni del Convegno tirate da monsignor Fisichella e con il testo del discorso che il Santo Padre ha rivolto ai convegnisti nell’udienza al termine dei lavori il 27 febbraio.
Si può certamente trovare in queste pagine lo status quaestionis sulla recezione del Vaticano II nonché, nell’apparato critico di alcuni contributi, ricche e aggiornate indicazioni bibliografiche.
Vista l’impossibilità di dar conto in maniera appena sufficiente delle numerosissime relazioni ci soffermeremo brevemente sulle quattro iniziali. Quella del cardinale Ratzinger – di cui, come detto, abbiamo già dato conto su queste pagine, leggendola sullo sfondo della situazione tedesca (ma essa va molto al di là) – ci sembra abbia di mira quello che già Romano Guardini chiamava «ecclesialismo» individuandone la radice nel «tentativo di armonizzare» natura e grazia «senza rispettarne la viva distinzione» (cfr. Natura-Cultura Cristianesimo. Saggi filosofici, Morcelliana, Brescia 1983). Scrive Ratzinger: «Una Chiesa che esiste solo per se stessa è superflua. E la gente lo nota subito. La crisi della Chiesa, come si rispecchia nel concetto di popolo di Dio, è “crisi di Dio”; essa risulta dall’abbandono dell’essenziale. Ciò che resta è ormai solo una lotta per il potere. Di questa ve ne è abbastanza altrove nel mondo, per questo non c’è bisogno della Chiesa» (p. 69). E più avanti: «Il discorso sulla Chiesa è un discorso su Dio, e solo così è corretto. [...] Proprio perché la Chiesa è da comprendersi teo-logicamente, essa autotrascende sempre se stessa; essa è il raduno per il Regno di Dio, irruzione in esso» (p. 75). Il cardinale confida che fu «grato e contento, quando il Sinodo del 1985 riportò al centro della riflessione il concetto di communio» (p. 70), concetto che, «compreso rettamente, può servire come sintesi per gli elementi essenziali dell’ecclesiologia conciliare» (p. 69) e che, aggiungiamo noi, fu caro al compianto cardinale Hamer, che dell’ex-Sant’Uffizio fu segretario. «Ma gli anni successivi mostrarono che nessuna parola è protetta da malintesi, neppure la migliore e la più profonda» (pp. 70-71).
Della relazione del segretario della Pontificia Commissione biblica padre Vanhoye sulla Dei Verbum, vorremmo sottolineare l’esordio, che corregge inesattezze nell’interpretazione di Dei Verbum 9 e 10, affermando fra l’altro che quando si legge che «il magistero non è al di sopra della parola di Dio [verbum Dei]» (n. 10), va inteso che esso è soggetto non solo al verbum Dei scriptum ma anche al verbum Dei traditum. Anzi, visto che poi con l’espressione «quod traditum est», della frase successiva a quella citata, si intende l’uno e l’altro, si può dire che «la Tradizione ingloba la Scrittura» (p. 29).
La relazione di monsignor Tena Garriga, attuale ausiliare di Barcellona e già sottosegretario alla Congregazione del Culto divino, risponde «affirmative iuxta modum» (p. 49) alla domanda che poneva la Tertio millennio adveniente: «È vissuta la liturgia come fonte e culmine della vita ecclesiale, secondo l’insegnamento della Sacrosanctum Concilium?» (p. 46). In realtà dopo la lettura della relazione sembra restare soltanto lo iuxta modum. Anche perché il principio della debolezza nella ricezione è individuato in certo modo nella stessa costituzione conciliare: «Vista in prospettiva la costituzione Sacrosanctum Concilium appare quasi più un documento di riforma che un documento dottrinale. Forse qui potremmo trovare una delle radici di una ricezione che, nella pratica, ha accentuato molto intensamente l’azione, più in concreto la riforma, a volte con detrimento della comprensione dell’essere stesso della liturgia della Chiesa» (p. 48). Così non meraviglia «l’immagine della Chiesa come movimento, con il proprio gruppo di militanti, che stima la celebrazione nella misura in cui potenzia l’impegno o spinge a prenderlo, e che pertanto ha bisogno di riflessione, di revisione e non sa bene cosa fare con la sacramentalità e il rendimento di grazie» (p. 55). Ovvero «il desiderio di cambiare il linguaggio della liturgia – invece di cambiare il nostro! –, di aumentare le spiegazioni, di fare riti peculiari con pretesa catechetica, di inventare allegorie con l’illusione di creare nuovi simboli ecc. Così dopo la riforma liturgica si è prodotto un fenomeno anomalo e sorprendente: si fanno più spiegazioni e si parla più adesso ai fedeli, durante la liturgia celebrata nella lingua del popolo, che prima durante la liturgia celebrata in lingua latina» (p. 59). A fronte di questo, che è solo un assaggio di un più ampio cahier de doléances, monsignor Tena Garriga porta una citazione (p. 63) del magistero, confortante perché sembra riecheggiare la riverenza ai sacramenti di san Francesco, quando richiama l’esortazione apostolica Reconciliatio et poenitentia (del 1984, n. 31,1) che parla degli «umili e preziosi sacramenti».
A monsignor Scola bisogna essere grati innanzitutto perché la sua relazione è un vero e proprio studio, ricco di un apparato critico di tutto rispetto a cui professori e studenti potranno attingere con frutto.
Egli vede nell’antropologia cristocentrica e nella pastoralità della costituzione Gaudium et spes, fra tutte «particolarmente cara» al Papa (come lui stesso confessa: cfr. p. 89 nota 34), i due assi portanti in base ai quali valutare la sua ricezione. A proposito del primo, nota come «l’antropologia cristocentrica abbia trovato una progressiva, positiva accoglienza nella pratica della vita ecclesiale, nella riflessione teologica e nell’insegnamento del magistero» (p. 98), mentre varie cause «impedirono ai padri conciliari di attuare nella stesura finale di Gaudium et spes quell’intendimento cristocentrico che pure stava a cuore alla maggioranza di loro» (p. 95). Riguardo l’indole pastorale della costituzione gli sembra che ci sia stato, col Sinodo del 1985, e che debba ancora progredire, «un rigoroso approfondimento storico-salvifico della categoria di “pastorale”» (p. 106). È così che «si può giungere a ripensare il rapporto tra fede e storia» (ibidem). «Come pensare in modo intrinseco, la pur necessaria mediazione tra cristianesimo e storia, tra storia umana e storia della salvezza? Sviluppando fino in fondo la logica dell’incarnazione intesa come logica salvifico-sacramentale» (p. 111).
Dunque «antropologia cristocentrica» e «approfondimento storico-salvifico della categoria di pastorale» sembrano a monsignor Scola la chiave per superare il «pernicioso estrinsecismo tra grazia, natura e libertà, che non ha ancora finito di segnare la pratica e la riflessione delle comunità ecclesiali» (pp. 112-113). La preoccupazione di monsignor Scola, più volte ribadita, è infatti che Gesù Cristo non risulti un superadditum (cfr. pp. 96 e 107). Ci domandiamo, peraltro, se non sia piuttosto la nozione di “esperienza” come “coscienza della corrispondenza” tra avvenimento di Cristo e cuore dell’uomo a offrire risposta definitiva alla giusta preoccupazione dell’autore. Il cardinale Hamer, nel recensire il libro di Luigi Giussani, Un avvenimento di vita, cioè una storia, la suggeriva infatti come «intuizione feconda […] che appartiene alla Tradizione della Chiesa. Da Agostino a Tommaso» (Jean Jérôme Hamer, Oltre ogni attesa, in Luigi Giussani, È, se opera, supplemento a 30Giorni, n. 2, febbraio 1994).