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TESORI RISCOPERTI
tratto dal n. 11 - 2000

L’Aracoeli dei pittori romani


Il ritrovamento di un eccezionale affresco nella chiesa che fu per secoli il cuore della vita cittadina di Roma ha riacceso un antico dibattito. Dove iniziò la rivoluzione pittorica avvenuta a cavallo tra il XIII e il XIV secolo in Occidente?


di Stefania Falasca


Madonna col Bambino tra san Giovanni Battista 
e san Giovanni Evangelista, 
Maestro romano della fine del Duecento, 
Cappella di San Pasquale Baylon, 
Basilica di Santa Maria in Aracoeli, Roma: qui un particolare

Madonna col Bambino tra san Giovanni Battista e san Giovanni Evangelista, Maestro romano della fine del Duecento, Cappella di San Pasquale Baylon, Basilica di Santa Maria in Aracoeli, Roma: qui un particolare

Diceva Roland Barthes che davanti alle opere d’arte, quelle vere, l’unica cosa che puoi dire è che sono belle. E aggiungeva che le parole, anche i concetti più articolati e profondi, risultano sempre delle approssimazioni. Non gli si può dare torto. Basta vedere certe immagini di Giotto. La scena della Natività nella Cappella degli Scrovegni a Padova ad esempio, il particolare della nascita di Gesù. Come si può spiegare quell’intensità nei gesti, quello sguardo... una tenerezza struggente... Si tratta di un capolavoro. Proprio come quello che sta venendo alla luce in una delle più note chiese romane: Santa Maria in Aracoeli in Campidoglio.
Qui, in questa splendida chiesa francescana, per secoli cuore della vita cittadina di Roma, in quella che sembrava la cappella più modesta, dedicata a san Pasquale Baylon, e che fino a ieri era dominata dal dipinto di un pittore spagnolo della seconda metà del Seicento, è stato ritrovato un affresco della fine del Duecento. Una Madonna col Bambino tra i santi Giovanni Battista e Giovanni Evangelista che rifulgono ancora per l’oro purissimo che fu steso sulle aureole rialzate delle sacre figure. Più in là una figura di Cristo accompagnato da angeli e da san Pietro, ed ancora dei festoni sorretti da putti alati, la torre di una città perfettamente scorciata, di color rosso, del tutto analoga ad una presente nella Basilica Superiore di Assisi. Sono solo frammenti, appena un quindicesimo del totale, di un grande affresco che ricopre interamente le pareti della cappella e che è ancora nascosto sotto le ridipinture e gli stucchi. Ma questi primi brani, giunti a noi in condizioni quasi perfette, già bastano a far ritenere che si tratta di un’opera eccelsa del nostro Medioevo. La scoperta è recente. Il giovane studioso, esperto di pittura romana del Duecento, cui va il merito di questo importante ritrovamento, è Tommaso Strinati, figlio di Claudio Strinati, soprintendente ai Beni storici e artistici di Roma.
All’inizio di aprile, Strinati, coadiuvato da Claudia Tempesta, responsabile dei restauri alla chiesa dell’Aracoeli, e da Marina Righetti, direttrice della scuola di specializzazione in Storia dell’arte medioevale e moderna dell’Università La Sapienza di Roma, ha iniziato ad investigare su alcune cappelle della navata destra dell’Aracoeli e sul transetto dove è attestato che lavorò un grande pittore romano di fine Duecento, Pietro Cavallini, del cui lavoro sono rimaste poche tracce e di cui è andato completamente distrutto l’affresco absidale demolito nel Cinquecento. Gli studiosi si sono soffermati sull’ultima cappella della navata destra dove si ritiene possibile un intervento di Arnolfo di Cambio e dove trent’anni fa erano già stati fatti dei saggi di restauro. Quei saggi rilevarono la presenza di una decorazione in affresco di epoca medioevale, ma i lavori non furono proseguiti. Alla fine dello scorso luglio la scoperta, dietro la tela d’altare, della Madonna col Bambino.
Strinati, seppure con grandissima cautela, ha già espresso delle ipotesi a riguardo. «Il soggetto mariano che lascia supporre un ciclo di affreschi dedicato alla Madonna» afferma, «credo rappresenti una dormitio Virginis. La tecnica pittorica, la tessitura cromatica con la quale è eseguito l’affresco, mi riferisco soprattutto al volto del Bambino, caratterizzato da una fortissima presenza plastica, fa ritenere possibile la mano di un pittore di strettissimo ambito romano, cavalliniano forse, per le forti analogie sia con le figure dipinte da Pietro Cavallini nella Basilica di Santa Cecilia in Trastevere, sia con il grande anonimo detto il Maestro d’Isacco nella Basilica Superiore di Assisi; e ritengo non azzardata, anche se prematura, una datazione agli inizi del 1290». «Le pitture», aggiunge inoltre, «per la loro ricchezza, lasciano supporre un patronato gentilizio, ad esempio dei Colonna. Ci vorranno tuttavia alcuni anni prima di riportare alla luce l’intera decorazione e quindi formulare plausibili risposte».
Particolare, san Giovanni Battista

Particolare, san Giovanni Battista

Ma se i lavori sono appena cominciati, la discussione è già aperta. Con tutti i dibattiti e le polemiche del caso. L’8 novembre si sono riuniti all’Aracoeli gli esperti in occasione della presentazione ufficiale del ritrovamento presieduta dal ministro dei Beni culturali Giovanna Melandri. Già, perché queste prime tracce riemerse dal nero scatolone del tempo mostrando strette analogie con le Storie di san Francesco ad Assisi, vanno a toccare un campo minato, il vero casus belli per eccellenza della storia dell’arte. Da circa un secolo, infatti, due fazioni, la scuola di pensiero toscana e quella romana, si combattono sostenendo, una, che il suo autore è Giotto e quindi che la nuova lingua dell’arte italiana nasce a Firenze, l’altra, che il suo autore è un pittore romano, e quindi quella stessa nuova lingua nasce a Roma a partire dal grande anonimo detto il Maestro d’Isacco, dalle scene di quel suo soggetto che restano nella Basilica Superiore di Assisi. Casus belli che proprio in questi ultimi anni, dopo la scoperta a Roma degli affreschi del Sancta Sanctorum con le tesi avanzate dalla storica dell’arte Angiola Maria Romanini e soprattutto dopo gli ultimi studi compiuti da Bruno Zanardi e Federico Zeri sulle Storie di san Francesco ad Assisi, ha visto riaccendersi la battaglia. Ma non si tratta solo di dispute specialistiche. Non si tratta solo di andare ad aggiungere un nuovo capitolo alla storia dell’arte, bensì di scompaginare totalmente tutta una visione, una lettura che da secoli, a partire dal Vasari, vede in Giotto il primo indiscusso inventore del nuovo moderno linguaggio della pittura occidentale, il faro isolato della rinascita italiana. Se sarà dunque accreditata la datazione antecedente agli affreschi delle Storie di san Francesco ad Assisi, e se vi sarà riconosciuta la mano di un pittore romano come Pietro Cavallini, il primato di Giotto non sarà più tale. E non sarà Firenze ma Roma a detenere questo primato. «Purtroppo, della pittura romana, della scuola romana di quel periodo si conosce pochissimo» spiega Strinati. «Eppure dal 1250 al 1300 Roma assiste ad una stagione che deve esser stata straordinaria. Basta pensare che nell’arco di un ventennio vengono rifatte le decorazioni di tutte e quattro le basiliche patriarcali e di tutte le più importanti chiese di Roma. Cantieri enormi in cui lavoravano decine di maestranze, delle quali non sappiamo nulla o quasi. Di alcuni pittori come Filippo Rusuti, Jacopo Torriti, Pietro Cavallini non si conoscono che poche opere. Perché se della pittura di Giotto moltissimo si è conservato, anche se si tratta di opere posteriori alla leggenda francescana, della pittura romana di fine Duecento, contemporanea al ciclo francescano, non è rimasto quasi nulla».
Secoli di renovationes Urbis uniti a qualche disastro, come l’incendio che ha demolito la Basilica di San Paolo, hanno infatti provocato la distruzione di chilometri quadrati di mosaici e affreschi, lo smembramento di centinaia di monumenti e la manomissione fino alla cancellazione di decine e decine di architetture. Vale a dire la sostanziale cancellazione dell’immenso cantiere di architettura, scultura e pittura che fu Roma alla fine del Duecento, alla vigilia del primo Giubileo del 1300 indetto da Bonifacio VIII, dove vengono a lavorare decine e decine di artisti e dove convergono anche noti maestri toscani tra cui Cimabue, Arnolfo di Cambio e Giotto. Da qui soprattutto l’estrema importanza e rarità di questo ritrovamento. Potranno, dunque, questi affreschi, che rimettono con forza l’accento sulla “questione romana”, far luce su quella grande stagione pittorica che si è espressa a Roma alla fine del Duecento? Potranno far chiarezza su quegli stretti legami che uniscono Roma ad Assisi? E non sarà proprio l’Aracoeli un laboratorio avanguardistico dove si incontrano maestranze toscane e romane sviluppando quelle soluzioni che si ritroveranno ad Assisi? E non sarà Cavallini il maestro di Giotto, il pittore romano dal quale Giotto impara a dipingere figure di straordinario realismo?
Tutte domande che forse potranno trovare una risposta anche dalla definitiva riscoperta del ciclo completo degli affreschi dell’Aracoeli, augurando che non valga, almeno in questo caso, quanto diceva Socrate: «I prodotti della pittura ci stanno davanti come se vivessero, ma se li interroghi, mantengono un maestoso silenzio».


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