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AFRICA
tratto dal n. 12 - 2000

CHIESA. Incontro con il presidente del Secam

...la Tradizione lega noi e voi


Il cammino dell’Africa secondo Laurent Monsengwo Pasinya. Nel nuovo secolo la Chiesa aiuterà la creazione di una vera Unione africana «come già si costruì quella europea». L’amministrazione Bush dovrà ricostruire in Africa «quei centri di gravità e punti di stabilità sfasciati alla fine della guerra fredda». E in rapporto al depositum fidei e alla struttura della Chiesa…


Intervista con Laurent Monsengwo Pasinya di Giovanni Cubeddu e Davide Malacaria


Nel 1951 il giovanissimo Laurent entrava nel seminario minore, appena dodicenne. Fu ordinato sacerdote nel ’63 e divenne vescovo nell’80. Oggi è arcivescovo a Kisangani, in Congo-Kinshasa, e lo scorso ottobre 2000 è stato riconfermato per la seconda volta consecutiva a capo del Secam, il simposio delle Conferenze episcopali dell’Africa e del Madagascar. Non vi è nessuno in Africa oggi che non conosca almeno di nome Laurent Monsengwo Pasinya come un presule combattivo e fedele alla Chiesa, uno che ha compiuto quanto era nel suo nome: Monsengwo significa «figlio di un capo». Non ha temuto nel ’92 di assumersi pro tempore la responsabilità di presiedere quel rassemblement che tentava di definire la Costituzione del suo Paese, l’allora ex Zaire, caso raro di sacerdote attivo nei ranghi politici. Ma in Africa per un prete “fare politica” nell’accezione comune può voler dire anche solo difendere il popolo dalle angherie o avere il coraggio di predicare il Vangelo in situazioni limite. Non gli sono comunque mancate le critiche.
Due passi nella vera povertà. Vita quotidiana nei sobborghi di Nairobi, Kenia

Due passi nella vera povertà. Vita quotidiana nei sobborghi di Nairobi, Kenia

Monsengwo è stato il primo africano dottore in esegesi, è autore di numerosi testi sull’inculturazione della fede, nonché compositore e poliglotta. Ma sotto questa corteccia di grandi capacità e talenti si riscopre a tratti il giovane seminarista di cinquanta anni fa, capace di schernirsi («meno male che sono nero, altrimenti si vede che sono diventato tutto rosso!», ha risposto ai complimenti degli amici missionari a Roma), e capace di quella delicatezza che ha fatto scrivere al cardinale Martini, suo antico professore, che Monsengwo è «amabile», come solo chi testimonia la fede è.
Come presule e presidente del Secam, Monsengwo parla ora di alcuni temi critici dell’attualità africana politica ed ecclesiastica.

Molti missionari ripetono, come una parola d’ordine, che oggi «l’Africa è un continente dimenticato». Lei che è pastore in Africa, che significato dà a questa affermazione?
LAURENT MONSENGWO PASINYA: L’Africa è dimenticata non solo dai mass media, ma anche dall’ambito politico e socioeconomico. Il problema è che questo continente non riveste più l’interesse di un tempo. Durante il periodo coloniale l’Africa è stata interessante per le sue materie prime. In seguito, con la guerra fredda e durante il tempo della decolonizzazione, il continente aveva una importanza strategica. Ma ora che il sistema comunista è affondato, non è più interessante da questo punto di vista. Anche l’Europa, che aveva messo in opera alcune strutture assicurando una certa stabilità, si è ritirata dal continente per occuparsi dei suoi problemi interni, dal momento che la mondializzazione, con la sua cultura di potenza e forza, richiedeva di consolidare la potenza del vecchio continente dal punto di vista politico ed economico. Infine la crisi economica nella quale versa la maggior parte degli Stati africani ha finito per indebolire e marginalizzare il continente. Occorre che l’Africa trovi un modo perché il mondo torni ad interessarsi di lei.
E quale potrebbe essere?
MONSENGWO PASINYA: L’Africa dovrebbe riuscire ad entrare nelle cronache non solo per le sue tragedie, ma anche per avvenimenti positivi. Perché ciò avvenga l’Africa deve entrare nel concerto delle nazioni, inserirsi attivamente nella storia geopolitica mondiale e nel processo di mondializzazione. Questo può accadere se il continente diventa forte, e per divenire forte occorre che si creino, se non una assemblea continentale, almeno più raggruppamenti regionali, che permettano di realizzare delle strategie comuni a più Paesi, tali da essere tenute in conto nel quadro delle più grandi strategie geopolitiche.
Si è molto lavorato nell’Organizzazione per l’unità africana per giungere ad una vera Unione africana. La Santa Sede ha di recente firmato un accordo con l’Oua su vari punti, ad indicare che essa pure scommette su tale Unione.
MONSENGWO PASINYA: La Santa Sede ha ragione: l’Africa non può evitare di affrontare il problema dell’unità africana. I padri fondatori dell’Organizzazione per l’unità africana lo avevano pensato, ma, per differenti ragioni, l’unità africana non si è realizzata, contrariamente ai loro auspici. Ma nel processo di globalizzazione attuale, l’unità africana non può partire da altro che dall’unità economica africana, è una necessità. Peraltro le varie organizzazioni sovranazionali regionali che permettono il libero commercio tra gli Stati membri, come la Ecowas, la Sadec, la Comesa (rispettivamente le organizzazioni economiche dell’Africa dell’Ovest, del Sud e dell’Est, ndr) tendono già ad una unità più globale. Storicamente parlando non abbiamo scelta: l’unità africana dovrà essere costruita come già si costruì quella europea.
La tendenza ad una integrazione continentale può rimettere in discussione i confini dei vari Stati africani, ereditati dall’epoca coloniale, e spinge a rivedere gli scopi stessi per i quali è stata fondata l’Oua.
MONSENGWO PASINYA: L’Oua non è una mummia, un cadavere sul quale vegliare, ma un corpo vivente che deve adattarsi e attualizzarsi nel corso della storia. Ciò che dico non rimette forzosamente in questione il problema dell’intangibilità delle frontiere ereditate dalla colonizzazione. Noi avevamo ad esempio la Cpgl (la Comunità dei Paesi dei Grandi Laghi: ex Zaire, Burundi e Ruanda, ndr), all’interno della quale, se pure ciascuno conservava le sue frontiere, si era realizzata un’unione politica e socioeconomica tra i membri. Si deve dunque andare dall’Africa degli Stati individuali all’Africa dei grandi insiemi regionali ed eventualmente poi all’Africa delle nazioni. È una evoluzione del mondo che non era stata prevista al momento della creazione dell’Oua. Questo modo di vedere non esclude assolutamente le frontiere ereditate dalla colonizzazione. Del resto l’Unione europea, avendo la mobilità dei cittadini, dando a ciascuno la possibilità di muoversi liberamente, aprendo le frontiere, non impedisce all’Italia, alla Francia o alla Germania di conservare la fisionomia di Stati indipendenti.
L’ex segretario generale dell’Oua, Edem Kodjò, ha suggerito di seguire un “modello europeo”, realizzando inizialmente un mercato comune per un piccolo numero di Stati, da allargare poi ad altri. Un’altra scuola di pensiero invece propone di creare una confederazione africana.
MONSENGWO PASINYA: Penso che la proposta di Kodjò sia più difendibile, anche se, di fatto, una unità così costruita, come ho detto prima, sarà a due velocità. Si potrebbe cominciare per tappe, e credo che i vari organismi sovranazionali già esistenti possono aiutare in questo. Ma ciò non può essere realizzato in breve tempo: ci sono voluti cinquanta anni per costruire l’unità europea. Ci vorrà del tempo anche in Africa, ma questo ci dà occasione di riflettere su molte cose, anche perché bisogna evitare che questa integrazione si costruisca sulle ceneri di certi Paesi e certe culture. Per quanto riguarda invece una ipotesi di confederazione, credo che sia necessario non precipitare le cose. Bisogna consolidare quello che già esiste, ovvero Stati indipendenti, per evitare certi errori del secolo passato che hanno creato un po’ dappertutto focolai di tensione che ancora non sono stati spenti.
Laurent Monsengwo Pasinya

Laurent Monsengwo Pasinya

E qual è l’atteggiamento della Chiesa africana di fronte a un così profondo sommovimento politico? Vi prenderà parte o se ne distaccherà?
MONSENGWO PASINYA: La Chiesa africana guarda di buon occhio tale prospettiva, e se l’unità africana si farà, la Chiesa terrà conto di questa unità nella sua pastorale e nelle eventuali sue ristrutturazioni. Anche il Secam è favorevole all’unità continentale, l’incoraggia e l’accompagnerà, anche se ciò portasse, alla lunga, ad una unificazione politica. La XII Assemblea plenaria ha discusso tale questione. Ed è molto probabile che la Santa Sede stessa accompagnerà tale unità con i suoi consigli, come si evidenzia nell’accordo che ha già firmato con l’Oua.
Cosa pensa del ruolo degli Stati Uniti, promotori con l’amministrazione Clinton di un “Rinascimento africano”?
MONSENGWO PASINYA: Con la loro grande capacità di influenzare le decisioni internazionali, gli Stati Uniti potrebbero fare molto per l’Africa. Ma in realtà gli Stati Uniti applicano nei riguardi dell’Africa il principio del “trade not aid” (“commercio non aiuto”). Ma un libero commercio strutturato come una competizione tra Paesi in via di sviluppo e una superpotenza dal punto di vista militare, politico ed economico, non può che portare a squilibri. Se si applica il “trade not aid” l’Africa non può offrire sul mercato altro che la sua agricoltura, i suoi prodotti di base, mentre gli Stati Uniti mettono in commercio i beni in surplus, solo le eccedenze della loro agricoltura, con la conseguenza che i prezzi dei prodotti africani vanno in caduta libera, dato che i prezzi dell’eccedenza americana o degli stock strategici godono certamente di un miglior mercato… In ogni caso credo che gli Stati Uniti, anche in sede Onu, possano giocare un grande ruolo sia nel mantenere che “nell’imporre” la pace, come pure nell’aiuto ai Paesi poveri, anche perché a loro la ricchezza di certo non manca.
Ora l’amministrazione negli Stati Uniti è cambiata, e in posti chiave vi sono neri e afroamericani. Ha qualcosa da chiedere loro pubblicamente?
MONSENGWO PASINYA: Che gli americani aiutino l’Africa a ricostituire nel continente quei “centri di gravità” e quei “punti di stabilità” dissolti con la partenza e lo smembramento dei due blocchi alla fine della guerra fredda.
S’impone una domanda sul tema del debito dei Paesi poveri.
MONSENGWO PASINYA: Il debito dei vari Paesi africani è stato contratto in diverse maniere. Molti debiti derivano da finanziamenti vincolati, cioè da accordi in base ai quali il Paese che riceve il credito deve comprare le attrezzature necessarie alla realizzazione del progetto dal Paese erogatore dei fondi. In altri termini, si premia l’imprenditoria di quel Paese, questo è un modo per restituire il credito al Paese donatore. Quando gli esperti stranieri vengono a studiare la fattibilità del progetto, i loro viaggi, il soggiorno e spese varie sono coperti dal budget del credito. In seguito, quando si deve realizzare il progetto, si è vincolati a utilizzare ingegneri del Paese che ha dato il credito, quando al contrario si potrebbero avere ingegneri meno costosi di altri Paesi o dello stesso Paese beneficiario. E ancora, quando gli esperti iniziano a lavorare, si giunge a volte a destinare il 25% o il 30% del budget del progetto per coprire il loro salario. Dunque, si riceve denaro da un Paese e lo si restituisce all’industria del medesimo Paese finanziatore. Così si aiuta a risolvere il problema della disoccupazione del Paese finanziatore, che produce lavoro per i suoi esperti, e tutto questo entra a far parte del debito dei Paesi beneficiari.
Supponiamo poi che vi sia stato un capo di Stato losco che ha stornato i soldi stanziati per un progetto e li ha inviati in banche estere: questi soldi non ritornano al Paese beneficiario per il progetto di sviluppo, ma sono riciclati nel sistema bancario ed usati per nuovi crediti (magari ai Paesi poveri, che così accrescono ancora il loro debito). Rispondendo alla domanda, per operare correttamente, occorre identificare bene da una parte i debiti e dall’altra i debitori . Se si guarda da vicino, si vedrà che molti di questi debiti sono già stati rimborsati da molto tempo tramite il pagamento degli interessi sul debito. Non è giusto continuare a reclamarli. È una questione di giustizia e moralità. Altrimenti si rischia di cadere nell’usura.
Guardiamo ora alla realtà della fede cattolica in Africa e ai rapporti con la Chiesa di Roma. La Chiesa africana, sempre più numerosa, chiede di poter esprimere la sua particolare “fisionomia”, ma ciò potrebbe creare, secondo alcuni osservatori cattolici, dei problemi…
MONSENGWO PASINYA: La Chiesa africana è una Chiesa giovane e dinamica. Vi sono comunità cristiane che devono ancora festeggiare il centenario della loro evangelizzazione. Il Congo-Kinshasa ha centoventi anni di evangelizzazione, altri Paesi centocinquanta. Essendo una Chiesa giovane è meno legata a strutture chiuse, ha meno costrizioni. Per la stessa ragione è più “creativa”, può innovare e aprire nuove strade. Se si vuole considerare le cose in rapporto al depositum fidei o in rapporto alla struttura della Chiesa, come diceva il cardinal Joseph Malula «il Papa non ci fa problema». Neanche la Chiesa cattolica ci fa problema. Noi abbiamo ricevuto il depositum fidei come un tempo lo avete ricevuto voi. Il Vangelo viene sempre da un altro: è ricevuto, è vissuto ed è riespresso. Quanto a noi, possiamo dire che siamo alla prima o seconda generazione che tenta di riesprimere la fede cristiana, a livello di vita, di strutture della Chiesa, come pure a livello di liturgia e di formazione teologica. Noi vogliamo accogliere integralmente Cristo, non vogliamo un cristianesimo al ribasso. La Tradizione della Chiesa l’abbiamo ricevuta. La Tradizione apostolica ci lega, come lega anche voi in quanto norma normans; la tradizione ecclesiastica ci illumina e ci lega come norma normata data per tutti. Per quanto ci concerne, troviamo che l’una e l’altra tradizione, finché sono normae, devono essere ricevute, inculturate, inserite nelle categorie di pensiero della cultura africana. Questo è il lavoro che sta svolgendo la Chiesa africana, in particolare nell’approfondimento della Chiesa come “famiglia di Dio”.
Qual è il rapporto della Chiesa africana con le religioni tradizionali e con l’islam?
MONSENGWO PASINYA: La religione tradizionale africana ha valori e schemi di cui alcuni sono difficilmente spiegabili attraverso altri schemi o categorie di pensiero. Questi valori non possono essere a cuor leggero rigettati, perché costituiscono l’identità del mondo religioso africano. Essi vanno osservati alla luce del Vangelo come in un prisma, per vedere ciò che Gesù Cristo rigetta e ciò che invece mantiene, perché tutto può essere “inculturato” salvo ciò che contraddice il Vangelo o è contaminato dal peccato. Sappiamo che i nostri fedeli sono ancora in cammino: ci sono quelli che al mattino vanno a messa e alla sera dallo stregone. E ciò può ben accadere, perché il lavoro dell’inculturazione non è ancora giunto a compimento. Ma anche in Europa ci sono persone che al mattino sono a messa e la sera si danno a pratiche o credenze nient’affatto cristiane. Questo riguarda il modo con cui è assimilato il cristianesimo da parte di ognuno.
I rapporti con l’islam sono più complessi e non sempre felici.
Basandosi su alcune interpretazioni del Concilio Vaticano II, vi è chi auspica addirittura un nuovo concilio, affinché valorizzi le Chiese locali in vista di una loro autonomia ancora maggiore. Quale è il suo pensiero in materia?
MONSENGWO PASINYA: Non ho obiezioni a che si tenga un concilio. Un concilio offre in effetti l’opportunità di esaminare i grandi problemi che si pongono alla Chiesa. L’autonomia legittima delle Chiese locali fa parte di questi grandi problemi. Bisogna dire che molti problemi che non sono stati affrontati dal Concilio Vaticano II, sono però stati studiati dalle assemblee generali del Sinodo. I papi hanno avuto sempre l’onestà e la lealtà di riprendere l’insieme delle idee provenienti dai sinodi. Io credo dunque che si è fatto già un cammino dentro questa sinodalità. I sinodi continentali si sono cimentati nell’esame dei problemi in ciascun continente e i testi sono stati inviati a tutti i Paesi. Un concilio può essere previsto, ma è una questione di opportunità e questo riguarda l’autorità competente. Penso che se molti vescovi nel mondo domanderanno che un concilio si tenga, il Papa non sarà sordo a tale richiesta.
La questione della “decentralizzazione del potere”, dunque, è sentita nella Chiesa africana…
MONSENGWO PASINYA: Io non vedo le cose da questo punto di vista, perché i poteri nella Chiesa sono già decentrati. Ecco il potere nella Chiesa: il vescovo è il vicario di Gesù Cristo nella sua diocesi. Le conferenze episcopali stesse hanno molti poteri che sovente non utilizzano. Una cosa è certa: quando i problemi sono studiati seriamente e su argomenti fondati su basi solide non possono non provocare un dialogo tra Roma e le Chiese locali. In materia di fede, “la battaglia è la stessa per Roma e per la periferia”. In materia pastorale, le soluzioni degli uni creano a volte problemi agli altri. In genere Roma è più informata di ciascuna “periferia”. Da qui la necessità della collegialità, della conciliarità, del dialogo, dell’apertura di spirito. Bisogna evitare nella Chiesa di porre il problema in termini di “potere”, altrimenti tutto il dibattito rischia di essere viziato e falsato da una parte e dall’altra.
La Chiesa africana è considerata a pieno titolo “Chiesa dei poveri”. Ma Chiesa dei poveri vuol dire anche una Chiesa senza strutture, come qualcuno auspica?
MONSENGWO PASINYA: La struttura è inerente all’Incarnazione e dunque alla natura insieme divina e umana della Chiesa. Non bisogna sognare una Chiesa senza strutture. Tutto sta a saperle incarnare e discernere. Le infrastrutture non mi hanno mai fatto paura. Il problema non è mai di avere le cose, il problema è sapere cosa ne facciamo. Se abbiamo delle vetture e queste servono a portare del sapone e delle medicine a persone lontane, nella foresta, e che non potrebbero ricevere quei beni in altro modo, non mi farei scrupolo di possedere una vettura… le infrastrutture al servizio del popolo, al servizio della missione! Dobbiamo essere con il popolo. Sempre con lui, sempre vicino a lui per difenderlo. Bisogna pertanto evitare l’errore di non costruire la Chiesa. Coloro che ci hanno preceduto nella fede, quando hanno cominciato a costruire la Chiesa non hanno costruito edifici che durassero solo per trenta o quaranta anni.


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