Home > Archivio > 10 - 2000 > Sull’esempio di Matteo Ricci
CINA
tratto dal n. 10 - 2000

Vivere da cattolici nel grande Paese

Sull’esempio di Matteo Ricci


Ha rappresentato un modello felice di missionario straniero nel Celeste Impero. Se ne è parlato a Pechino, durante il convegno su “Le religioni e la pace” promosso dalla Tian Xia Yi Jia, l’associazione costituita nel 1989 per la promozione delle relazioni culturali italo-cinesi


di Agostino Giovagnoli


I mass media di tutto il mondo hanno dato rilievo al turbamento recato alle relazioni (indirette e non ufficiali ma importanti per le loro molteplici implicazioni) tra la Santa Sede e il governo di Pechino dalla recente canonizzazione di 120 martiri morti in Cina tra il XVII e il XX secolo. Improvvisamente, un problema di carattere storico-culturale – chi sono questi martiri, perché sono stati uccisi, di chi sono le responsabilità della loro morte – si è trasformato in una questione politico-diplomatica. Naturalmente, perché si possa realizzare una trasformazione di questo tipo, è necessario un intervento politico: in questo caso, ciò è avvenuto dopo un intervento del governo di Pechino, che ha letto in chiave politica un evento squisitamente religioso, interpretandolo come un’offesa al popolo cinese e un’ennesima manovra di Taiwan.
Come spesso accade, alcuni elementi contingenti hanno offerto materia ad un atteggiamento che ha altre radici: si tratta in particolare della scelta del 1º ottobre per la canonizzazione, giorno anniversario della Rivoluzione comunista e festa nazionale della Repubblica Popolare Cinese, e dell’iniziativa assunta dai vescovi di Taiwan per riprendere una causa sospesa esplicitamente per motivi di opportunità. Questi elementi, secondo il governo di Pechino, hanno reso inevitabile un duro scontro diplomatico, che non è rientrato neanche davanti ai segni di distensione venuti da Roma. Ma la politica non spiega tutto: per i cinesi non cattolici è molto difficile comprendere ragioni, modalità e fini che presiedono ai processi di canonizzazione e questa incomprensione ha acquistato in questo caso grande rilevanza perché i martiri nella Cina degli ultimi secoli costituiscono per loro una questione storica molto delicata.
Cina, provincia di Shaanxi. 
Le venti famiglie che abitano in questo piccolo e isolato villaggio sono tutte cattoliche, ma, dal momento 
che manca un sacerdote, di domenica possono solo riunirsi per cantare 
e pregare insieme

Cina, provincia di Shaanxi. Le venti famiglie che abitano in questo piccolo e isolato villaggio sono tutte cattoliche, ma, dal momento che manca un sacerdote, di domenica possono solo riunirsi per cantare e pregare insieme

Le distanze culturali, insomma, hanno non generato ma favorito l’incidente diplomatico. In linea di principio, molti concordano nel ritenere che tali distanze rappresentino una delle principali cause di conflitto nelle odierne relazioni internazionali: tesi come quelle di Huntington, l’autore di Lo scontro delle civiltà, sono in questo senso emblematiche. Malgrado molti riconoscimenti sul piano teorico, tuttavia, raramente si tiene davvero conto dei problemi posti dalle distanze culturali in un mondo sempre più globalizzato, in cui aree influenzate da civiltà molto diverse sono “costrette” a relazioni sempre più intense. Ciò è particolarmente vero oggi, dopo il tramonto delle ideologie, che costituivano un collante – seppure spesso imposto con la violenza – capace di attenuare conflitti etnici, culturali o religiosi. In Cina, questo collante non è scomparso, ma costituisce oggi un elemento di unità meno incisivo di altri, come il potere politico basato sul Partito comunista, la tradizione di accentramento ereditata dai regimi precedenti, il positivo sviluppo economico di questi ultimi anni e il sentimento nazionalistico. A proposito del problema delle recenti canonizzazioni, uno storico cinese, il professor Ren Yan Li, ha osservato: «L’Occidente non riesce a capire quanto sia forte in noi il senso della nazione» (La Stampa, 30 settembre 2000). Si riflettono insomma sul rapporto tra Santa Sede e governo di Pechino distanze che continuano a separare mondo occidentale e cultura cinese: il contrasto non è tra Chiesa cattolica e popolo cinese, ma fra due universi geografici e culturali. La Cina, realtà tanto vasta e complessa, occupa un posto troppo rilevante in campo internazionale perché si possano ignorare queste distanze e intessere con questo grande Paese solo relazioni commerciali.
Nell’ottica di uno scambio sempre più ravvicinato fra culture diverse, dal 14 al 16 settembre 2000 si è svolto a Pechino un convegno su “Le religioni e la pace”, promosso dalla Tian Xia Yi Jia, associazione costituita nel 1989 per la promozione delle relazioni culturali italo-cinesi. Quello di Pechino è stato il terzo incontro organizzato dalla Tian Xia Yi Jia tra studiosi europei e cinesi. Il primo di questi si è tenuto a Roma nel 1995 ed è stato dedicato alle relazioni tra Chiesa cattolica e Cina contemporanea, con particolare attenzione al periodo successivo al 1911, quando la Cina ha faticosamente abbandonato il proprio passato imperiale, aprendo una nuova ma difficile stagione repubblicana, condizionata dalle potenze occidentali e penalizzata dall’aggressività giapponese. Quel convegno (da cui è scaturito il volume: A. Giovagnoli – a cura di –, Roma e Pechino. La svolta extraeureopea di Benedetto XV, Edizioni Studium, Roma 1999) ha messo in luce il grande impegno avviato da Benedetto XV e proseguito da Pio XI per avvicinare la Chiesa cattolica alla Cina, realizzato soprattutto attraverso l’opera di monsignor Celso Costantini. Successivamente, nel 1997, presso l’Università Cattolica di Milano, si è tenuto un secondo convegno dedicato alle relazioni tra Chiesa cattolica e mondo cinese dopo il Vaticano II, nel contesto delle nuove prospettive aperte dalle tematiche dell’inculturazione e del dialogo interreligioso. Benché il Concilio abbia coinciso con un periodo difficile per la Cina contemporanea – quello della rivoluzione culturale –, studiosi italiani e cinesi hanno convenuto che questo evento ha posto importanti premesse per rapporti nuovi e migliori tra Chiesa cattolica e mondo cinese.
Il terzo convegno promosso dalla Tian Xia Yi Jia è stato il frutto di una sinergia tra l’Università Cattolica di Milano e l’Accademia cinese delle Scienze sociali di Pechino. La collaborazione che ha permesso di realizzare questo convegno è già di per sé espressiva di una volontà di confronto che anima gli studiosi cinesi, in particolare quelli dell’Istituto di ricerca sulle religioni mondiali che opera all’interno dell’Accademia. In Cina, com’è noto, la politica costituisce una presenza pervasiva, che si estende anche alle attività culturali. Tuttavia, gli uomini di cultura sentono il bisogno di progredire nelle conoscenze secondo le modalità specifiche dei rispettivi campi di indagine: ciò vale anche per gli storici, che avvertono in modo molto vivo l’esigenza di collegarsi a studiosi di altri Paesi, di inserirsi nel dibattito internazionale e di disporre in modo sempre più ampio di fonti e strumenti necessari per svolgere il loro mestiere. Nel caso degli studi sul cristianesimo, si aggiungono anche altre ragioni: si riconosce infatti apertamente che con il cristianesimo – e in particolare con il cattolicesimo – esiste un problema irrisolto. L’aspirazione, ormai esplicitamente emersa in Cina, a stabilire relazioni diplomatiche con la Santa Sede e le questioni che ciò suscita rivelano in questo senso un problema più vasto.
Una delle perplessità suscitate in Cina dalla canonizzazione del 1º ottobre riguarda la scelta di coloro che sono diventati i primi santi cinesi di tutta la storia. Perché cominciare con questi martiri e non canonizzare anzitutto Matteo Ricci, ci si è chiesti a Pechino? Matteo Ricci rappresenta per i cinesi un esempio felice di missionario straniero che ha arricchito le loro conoscenze culturali rispettandone però profondamente la civiltà. Tutti gli intellettuali cinesi conoscono Matteo Ricci, la sua scelta di vestire come un mandarino, la sua ammirazione per il confucianesimo: per i cinesi rappresenta tutt’oggi un modello ideale, e dire a un cristiano straniero che è come Matteo Ricci è il maggior complimento che si possa fare. L’esempio di Matteo Ricci è espressivo di un atteggiamento diffuso, che riflette l’importanza attribuita alle proprie tradizioni e la gelosia con cui si difende la propria identità, ma anche il bisogno profondo di vedersi riconosciuti ed accettati dagli altri per quello che si è.
Molti dei martiri canonizzati il 1º ottobre presentano invece un profilo diverso da quello di Matteo Ricci e dei suoi compagni. La maggior parte di loro è stata uccisa nel 1900 durante la rivolta dei Boxer – la “setta dei pugni chiusi” –, una vicenda che ad occhi occidentali appare storicamente molto lontana. Ma in Cina le cose non stanno così e basta leggere i manuali scolastici per capire che i cinesi di oggi considerano i Boxer una forma di opposizione alle potenze occidentali che cercarono di umiliare la Cina: ciò fa parte di un sentire diffuso. Da parte cinese sembra che discutere questa interpretazione significherebbe non solo ammettere le colpe dei responsabili dell’assassinio di questi martiri ma anche le complicità di tutta la società cinese, trasformando una pagina “gloriosa” in una memoria ignobile.
L’ammirazione per Matteo Ricci e l’opposizione ai martiri della Cina negli ultimi secoli esprime in modo emblematico un dubbio di fondo che pesa sull’odierno atteggiamento cinese nei confronti del cristianesimo: è questo uno strumento di oppressione straniera o un canale essenziale per il necessario arricchimento culturale della Cina moderna? Un nemico globale dell’identità cinese o un possibile alleato sulla via della modernizzazione? È un dubbio che la Cina di oggi non sembra in grado di sciogliere da sola e che gli studiosi cinesi del cristianesimo avvertono con particolare intensità. Ciò spiega perché sia tanto vivo l’interesse per tali tematiche: attraverso il confronto con colleghi stranieri, si cercano elementi mancanti per risolvere il rebus costituito da questa religione “ambivalente”.
Si tratta di nodi complessi che possono essere sciolti solo se si entra nel terreno di un confronto culturale approfondito, utilizzando gli strumenti e i metodi della ricerca storica e accettando la “verità” – peraltro sempre relativa e provvisoria – che ne scaturisce. In realtà, contestare le tesi che equiparano i martiri canonizzati il 1º ottobre a “criminali” non significa necessariamente giustificare le violenze attuate dalle potenze occidentali durante la guerra dell’oppio o per reprimere la rivolta dei Boxer. Come sempre la realtà è più complessa: non si possono far coincidere tout court colonizzatori e missionari; anche se, dopo il 1840, l’evangelizzazione si è sviluppata in Cina all’ombra della colonizzazione, gli interessi della Chiesa e delle potenze occidentali sono sempre stati differenti; allo stesso modo, non tutte le forme di opposizione allo straniero sono uguali: tra resistenza di un popolo contro l’oppressore e l’assassinio di testimoni inermi di una fede pacifica c’è una profonda differenza, anche se in molte circostanze e in molte situazioni questa differenza può non emergere chiaramente, come ha sottolineato Giovanni Paolo II in occasione di queste canonizzazioni.
La strada del confronto culturale, in particolare in campo storico, per quanto possa apparire lontana dai problemi immediati oggi sul tappeto, è perciò inevitabile: se una questione storica che riguarda eventi lontani può trasformarsi con tanta facilità in motivo di scontro, è necessario rivisitare la storia di ieri per evitare che il passato possa offrire ancora armi ai conflitti dell’oggi. Come in altri campi, anche in questo caso la verità della storia può svolgere una funzione liberatrice, chiarendo i problemi e attenuando le tensioni. Tuttavia, perché ciò avvenga non è indifferente il metodo che si utilizza: la via del dialogo, il coinvolgimento di soggetti diversi, la considerazione di punti di vista differenti influiscono notevolmente sui risultati. Com’è noto, infatti, in campo storico la validità di questi dipende largamente dalla ricchezza della ricostruzione compiuta e dalla capacità di tener conto di elementi diversi all’interno di una interpretazione complessiva che pure si pone l’obiettivo di comporli in un quadro unitario e coerente.
È quanto si è proposto il convegno promosso dall’Università Cattolica di Milano e dall’Accademia cinese di Scienze sociali. Tale convegno ha avuto, in Cina, alcuni precedenti, come le iniziative del professor Franco De Marchi dell’Università di Trento per ricordare la figura di Martino Martini, missionario del XVII secolo, molto apprezzate in Cina. Sono poi in corso una serie di iniziative per ricordare Matteo Ricci, di cui ricorre il quarto centenario dell’arrivo in Cina. Tutte queste attività, peraltro estremamente importanti e utili, riguardano però l’età moderna e in particolare la missione dei Gesuiti in Cina, come si è detto ancor oggi oggetto di vivo apprezzamento. Più difficile – ma sempre più necessario – appare oggi il compito di affrontare la storia successiva e in particolare quella dopo il 1840, anno in cui scoppiò la prima guerra dell’oppio. Per quanto riguarda questo periodo, il sentiero per cercare non necessariamente una coincidenza di vedute ma almeno una maggior comprensione reciproca è certamente stretto e irto di difficoltà, equivoci, malintesi. Ma questa strada è percorribile: gli esiti positivi del recente incontro di Pechino lo confermano.
Yunnan. 
Il battesimo 
di un’anziana donna da poco convertitasi al cattolicesimo

Yunnan. Il battesimo di un’anziana donna da poco convertitasi al cattolicesimo

La possibilità di trovare un comune terreno di confronto è stata mostrata in questa occasione anzitutto dagli interventi di studiosi cinesi specificamente dedicati al cristianesimo, come quello del professor Chen Cunfu che ha affrontato il problema dell’impatto della modernizzazione su cattolici e protestanti in Cina. Discutendo la letteratura sociologica internazionale in tema di secolarizzazione e di “desecolarizzazione” – il “ritorno” del religioso negli ultimi decenni – con particolare riferimento alle tesi di Berger, il professor Chen Cunfu ha messo in luce il ruolo positivo del cristianesimo nello sviluppo della Cina contemporanea. Con molta passione, il professor Gu Wei Ming ha poi ripercorso i tentativi svolti dalla Chiesa cattolica di raggiungere, nel corso del XX secolo, una autentica “inculturazione”: egli ha fatto riferimento in termini molto positivi soprattutto alla figura di monsignor Celso Costantini, già oggetto in precedenza di suoi pregevoli studi. Particolarmente acuta è stata inoltre l’analisi del professor Ren Yan Li sulla dottrina cattolica in tema di salvezza nelle altre religioni, elaborata a partire dal Concilio Vaticano II. Ren ha ben messo in evidenza l’atteggiamento di fondo nei confronti delle altre culture che ha animato l’apertura del Vaticano II verso le altre religioni. Una specifica analisi delle iniziative per la pace da parte degli uomini di religione cinesi – in particolare cattolici e protestanti – è stata invece compiuta dalla professoressa Wang Meixiu. Un’interessante discussione si è infine accesa intorno alla penetrante analisi proposta dal professor Liu Xiao Feng di Hong Kong sulla dottrina politica di Carl Schmitt: pur trattandosi di un pensatore che usa il linguaggio della tradizione cattolica, si può dire che Schmitt sia davvero rappresentativo delle posizioni prevalenti nel cattolicesimo del XX secolo?
La validità scientifica dei contributi offerti dagli studiosi cinesi mostra lo sforzo da essi fatto per superare notevoli difficoltà ambientali. Se di un limite si può parlare per quanto riguarda alcuni loro interventi, tale limite riguarda la difficoltà di collocare le specifiche vicende da essi esaminate nel più generale contesto della storia contemporanea o in quella più complessiva dei soggetti di cui essi si occupano, in questo caso le Chiese o altre istituzioni religiose. Appare in questo senso indicativa la familiarità di molti ricercatori cinesi con autori e testi filosofici o teologici. In tema di dialogo tra le religioni, ad esempio, in Cina – ma probabilmente ciò avviene anche altrove – sono relativamente note le tesi di Hans Küng (in questo convegno sono state ad esempio specificamente ricordate dal professor He Guanghu), mentre invece appaiono meno conosciute quelle del magistero pontificio, che pure sono molto più diffuse e hanno certamente maggiore influenza in ambito cattolico.
Uno dei principali risultati di questo incontro è stato indubbiamente quello di far conoscere meglio in Cina la realtà della Chiesa cattolica e le sue espressioni più rilevanti nel corso del Novecento, come ha notato esplicitamente il professor Ren Yan Li al termine del dibattito. Tale conoscenza ha riguardato gli orientamenti di fondo intorno a questioni cruciali come l’annuncio della verità e il dialogo interreligioso (Bruno Forte), gli interventi della Santa Sede per la pace e la collaborazione internazionale (Alfredo Canavero), fino al tema oggi più complesso e delicato in terra cinese: il senso della memoria dei martiri contemporanei nel magistero di Giovanni Paolo II (Gianni La Bella). Interventi specifici hanno poi riguardato l’atteggiamento della Chiesa cattolica nei confronti delle religioni cinesi (Angelo Lazzarotto) e nel corso del dibattito è stato possibile chiarire questioni oggi molto dibattute, come l’atteggiamento della Chiesa cattolica nei confronti degli ebrei (Fumagalli), i rapporti con l’islam (Claudio Betti), il giudizio sulla globalizzazione (Angelo Caloia e Massimo Iannucci). Interamente dedicato al magistero della Chiesa in tema di pace è stato l’intervento del cardinale Roger Etchegaray, molto apprezzato dagli studiosi cinesi.
Attraverso la tematica generale “le religioni e la pace” è stato anche possibile porre la questione dell’atteggiamento degli Stati nei confronti delle religioni. Indubbiamente l’esistenza di un Istituto di ricerche sulle religioni mondiali in seno all’Accademia cinese delle Scienze sociali e la presenza di un nutrito gruppo di ricercatori su queste tematiche, sarebbe stato impensabile ancora venti anni fa, quando la Cina muoveva i primi passi dopo la bufera della rivoluzione culturale. E la possibilità di tenere in Cina nel 2000 un dibattito su questi temi rappresenta un’eloquente smentita delle previsioni non solo di Marx ma anche di Durkheim e di altri sulla inevitabile scomparsa delle religioni. Questo leitmotiv sotteso all’intero convegno, è stato esplicitato fin dalla mia relazione iniziale, dedicata alla parabola delle religioni nel corso del XX secolo, al loro rapporto con la modernizzazione, all’evoluzione del loro atteggiamento verso la politica e al contributo che esse possono dare oggi ad una pacifica convivenza sociale.
Di largo interesse sono state anche le relazioni degli studiosi cinesi, dedicate al confucianesimo (Li Shen), al buddismo (Song Lidao), al taoismo (Wang Ka), all’islam (Wu Yungui e Qin Huibin). Tali analisi hanno affrontato sotto vari profili il problema del ruolo delle religioni nella società cinese di ieri e di oggi. Largo spazio è stato occupato dal problema della natura del confucianesimo – religione o filosofia? – e della persistenza di questo pensiero anche nella Cina attuale. Gli studiosi cinesi sembrano divisi su questo punto: per alcuni, le strutture fondamentali della tradizione confuciana sono tuttora presenti nella mentalità cinese contemporanea, per altri invece il confucianesimo è stato definitivamente archiviato dalla modernità. È un dibattito di grande rilievo anche per affrontare una questione che torna continuamente in questi dibattiti: in che cosa consiste oggi l’identità cinese (che tutti presuppongono ma che è molto difficile da definire)?
La questione del ruolo delle religioni nella società cinese è stata affrontata in chiave complessiva dal direttore dell’Istituto di ricerca sulle religioni mondiali, professor Zhuo Xinping, il quale ha tra l’altro ha affermato: «Le religioni straniere come il cristianesimo, l’islamismo e l’ebraismo non solo hanno portato, nello sviluppo cinese, un pensiero di pace, ma hanno anche profondamente accolto e accettato suggestioni di pace provenienti dalle religioni tradizionali cinesi».
Per quanto riguarda la situazione odierna ha aggiunto: «Dalle religioni deve venire un contributo per superare i conflitti sociali; partendo dalle loro radici spirituali esse assumeranno così una responsabilità e realizzeranno un compito che riguarda tutta la società. Ciò richiede che le religioni siano presenti nella società, recependo le esigenze di questa e dando ad essa un contributo importante».
Queste affermazioni, sicuramente meditate, non appaiono espressione di una voce isolata, ma sono indicative di un orientamento ormai diffuso. In Cina, molti ritengono oggi che non solo le religioni sono una realtà del presente e probabilmente del futuro – mentre in passato si riteneva che fossero destinate a scomparire – ma anche che possono, anzi devono svolgere un ruolo nella società di oggi e di domani. Ciò almeno vale per le grandi religioni mondiali e in particolare per il cristianesimo, sia nella versione protestante che cattolica (diverso è invece il discorso sulle sette). È sicuramente rilevante che un messaggio di questo tipo venga anche da studiosi dell’Accademia cinese di Scienze sociali, il massimo organo di ricerca della Repubblica Popolare Cinese ed espressione ufficiale delle tendenze culturali approvate e incoraggiate oggi in Cina.


Español English Français Deutsch Português