Home > Archivio > 01 - 2007 > Dentro l’arcipelago
INDONESIA
tratto dal n. 01 - 2007

ANALISI. Intervista con Francesco Montessoro, docente all’Università di Milano-Bicocca

Dentro l’arcipelago


Il gigante asiatico, composto da migliaia di isole in cui vivono 220 milioni di abitanti che parlano 128 lingue diverse, sta diventando uno snodo importante dell’economia e della politica mondiale. Ma resta un Paese poco conosciuto. È stato sotto i riflettori dei mass media per lo scontro tra la maggioranza musulmana e i cristiani, conflitto che molte volte nasconde ragioni di natura economica, etnica e sociale


Intervista con Francesco Montessoro di Pierluca Azzaro e Davide Malacaria


Grattacieli a Jakarta

Grattacieli a Jakarta

Da quando l’immensa marea dello tsunami ne ha inondato le isole, devastando case, e, insieme a queste, persone e cose, tutti sanno che esiste e dov’è. Eppure dell’Indonesia, questo gigante asiatico, la cui popolazione vive e spera abbarbicata su circa 1.500 isole e isolotti al largo dell’Oceano indiano, si sa poco o nulla. Di fatto, però, questo Paese sta conoscendo un nuovo e imprevisto dinamismo economico e politico che lo ha portato ad affacciarsi in modo significativo nel contesto internazionale. Così che, in questo caso, la definizione di Paese in via di sviluppo, come si chiamano adesso i Paesi un tempo definiti sottosviluppati, calza a pennello. Di questo gigante asiatico, che si affianca a India e Cina, parliamo con il professor Francesco Montessoro, docente di Storia dell’Asia nella facoltà di Scienze politiche dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca.

Nel 1998, dopo circa trent’anni di dittatura, crolla il feroce regime di Suharto. Per quale ragione?
FRANCESCO MONTESSORO: Credo che in buona misura la caduta di Suharto sia dovuta alla bufera economico-finanziaria che si è abbattuta nel 1997 su vari Paesi dell’Asia sudorientale, le cosiddette “tigri asiatiche”, che in realtà si sono rivelate “tigri di carta”. A seguito di quella crisi il regime del generale Suharto, al potere dal 1966, s’indebolì fino a cadere. Anche gli Stati Uniti, con i quali l’Indonesia aveva relazioni preferenziali, non erano affatto contrari a un cambiamento di regime; peraltro, neppure le forze armate difesero Suharto fino in fondo. Da allora, dopo le elezioni del 1999, è iniziata una fase di transizione che si può dire conclusa con le elezioni del 2004, con le quali si è chiuso un lungo processo di riforme istituzionali. Attualmente l’Indonesia può essere ascritta tra i Paesi democratici; tra l’altro, per numero di abitanti, è la terza più grande democrazia del mondo.
Un Paese estremamente complesso, frammentato in migliaia di isole...
MONTESSORO: ... Con una popolazione di 220 milioni di abitanti, di cui l’87 per cento di religione islamica: l’Indonesia risulta lo Stato con il maggior numero di musulmani del pianeta. Ma vi è anche una cospicua minoranza di cristiani: circa 20 milioni, tra cattolici e protestanti; ed è un elemento tutt’altro che trascurabile per un Paese dell’Asia sudorientale. Un Paese eterogeneo anche dal punto di vista etnolinguistico: basti pensare che, solo nelle isole Molucche, si parlano 128 lingue diverse. Lo Stato indonesiano, così come si è costituito dopo la Seconda guerra mondiale grazie all’opera di Sukarno, è stato disegnato sui confini della colonizzazione olandese, ed è questo l’elemento unificante di una realtà tanto diversificata. Questa colonizzazione aveva in qualche modo collegato tra loro migliaia di “Stati” – Negara nelle lingue malesi e indonesiane – che in realtà erano sultanati o, anche, semplici comunità di villaggio indipendenti. Ognuno con una propria cultura, un proprio diritto consuetudinario, spesso una propria lingua... insomma, quella indonesiana è una società composita e molto complessa.
Lei ha ricondotto la crisi del regime di Suharto all’esplosione della bolla finanziaria del ’97-98 che decretò la fine delle cosiddette “tigri asiatiche”...
MONTESSORO: Certo, le cause furono esterne, ma se quel collasso finanziario ebbe così tanta ripercussione all’interno del Paese è stato perché il sistema economico indonesiano non era sano. Quando Suharto prese il potere e instaurò in Indonesia il cosiddetto “Ordine nuovo”, diede una serie di privilegi ai militari, anche in campo economico e amministrativo; per cui esponenti delle forze armate avevano l’incarico di controllare l’industria pubblica, erano presenti negli enti statali, nelle amministrazioni civili, locali e provinciali. Insomma, controllavano la vita pubblica a ogni livello. Gli apparati militari possedevano inoltre società e aziende, con le quali si autofinanziavano. Quest’ultimo fenomeno è peraltro riscontrabile ancora oggi.
Nonostante l’avvento della democrazia?
MONTESSORO: Sì. In realtà, dopo la caduta di Suharto, tra il potere politico eletto e i militari si è stabilita una sorta di patto, per cui l’esercito è rimasto neutrale di fronte ai cambiamenti istituzionali in cambio della permanenza dello status quo per tutto quel che li riguardava, in particolare sotto il profilo economico. Anche per questo il passaggio di potere in Indonesia è stato meno traumatico che in altri Paesi. L’affermazione della democrazia è stata il frutto di un’evoluzione graduale, nella quale, tra l’altro, i vincitori non hanno perseguitato i vinti: lo stesso Suharto è stato processato, ma vive tranquillamente nella sua residenza. L’esercito si è fatto garante di questa transizione sostanzialmente pacifica, da una parte accettando le nuove istituzioni democratiche, dall’altro chiedendo in cambio di mantenere una parte dei propri privilegi. Detto questo, non si vuole certo negare le responsabilità dell’esercito nei tanti conflitti che sono esplosi nelle aree periferiche del Paese dopo la caduta del regime (Molucche, Sulawesi, Aceh), durante i quali, in effetti, i militari coinvolti a vario livello si sono anche macchiati di crimini efferati. Tale coinvolgimento, però, più che alla volontà di difendere il passato, era legato a ragioni particolari e locali. Questi conflitti, in realtà, erano latenti già prima del crollo del regime. La fine di Suharto li ha soltanto fatti venire alla luce.
Ronde di fedeli musulmani affiancano la polizia per proteggere la Cattedrale di Jakarta da eventuali attentati (dicembre 2002)

Ronde di fedeli musulmani affiancano la polizia per proteggere la Cattedrale di Jakarta da eventuali attentati (dicembre 2002)

Diceva che l’Indonesia è lo Stato con il maggior numero di musulmani nel mondo. Questa circostanza come influenza la vita politica del Paese?
MONTESSORO: In Indonesia abbiamo diversi partiti in cui confluiscono i voti dei musulmani. La maggior parte di questi vanno al Partito democratico di lotta, una formazione che in buona misura, ma non esclusivamente, è espressione di una particolare comunità giavanese, gli abangan, i “rossi”, che sono politicamente nazionalisti e laici, anche se nominalmente musulmani e in un certo senso non estranei a una religiosità a sfondo animista. Sono secolarizzati e moderati, tanto che gli altri partiti islamici, pur presenti nel panorama politico del Paese, li accusano di essere poco ortodossi. In realtà, già con i Pancasila, cioè coi cosiddetti “cinque principi”, voluti come ideologia del nuovo Stato dal leader indipendentista Sukarno, era stata sancita la tolleranza di tutte le religioni monoteiste, nessuna esclusa. Questo ha contribuito a preservare l’Indonesia da derive integraliste. Gli elementi radicali ci sono, ma sono da sempre una minoranza. Alcuni partiti e movimenti integralisti chiedono di islamizzare la società e lo Stato, coltivando rapporti internazionali con altri Paesi musulmani, ma sono e restano una minoranza.
Allora come spiega i vari conflitti che hanno insanguinato l’Indonesia in questi ultimi anni, che in genere sono stati classificati come scontri tra musulmani e cristiani?
MONTESSORO: In effetti ci sono stati vari conflitti civili, soprattutto nelle isole orientali dell’arcipelago indonesiano, come le Molucche e le Sulawesi [già Celebes, ndr], solo per citare i casi più noti in Occidente. Tuttavia, le ragioni di queste vere e proprie guerre civili sono da ricercare più che nell’intolleranza confessionale – pur presente e accesa al solito da componenti islamiche radicali –, in fattori di ordine economico, politico e comunitario. Ad esempio i cristiani delle regioni centrali di Sulawesi, il cui fulcro è la città di Poso, teatro di molti scontri intercomunitari tra il 1998 e il 2001, abitano per lo più le aree interne e sono legati a una economia di tipo agrario e forestale. Erano in origine agricoltori itineranti cristianizzati dai missionari protestanti olandesi all’inizio del Novecento. Costoro si contrappongono soprattutto per motivi di ordine economico alle comunità islamiche delle coste, dedite ad attività mercantili. Questi conflitti sono apparentemente solo di natura religiosa, ma capita anche, come nelle Molucche nel 1999, che membri dell’élite locale musulmana, come i vecchi sultani, appoggino i cristiani piuttosto che i propri correligionari. In realtà, dietro l’astio tra i membri di fedi religiose diverse ci sono, e forse prevalentemente, tensioni di natura sociale, economica, etnica, culturale. Un’altra fonte di conflitto, infatti, può essere la stessa disparità di livello culturale tra cristiani e musulmani, poiché solo i primi, al tempo della colonizzazione olandese, hanno goduto di considerevoli privilegi per l’accesso all’istruzione e, di conseguenza, alla carriera nei settori pubblici. Poi ci sono conflitti che nascono dall’immigrazione, laddove a contadini provenienti dalle isole sovrappopolate di Giava e Madura – a prevalenza islamica – sono state affidate in concessione terre in regioni già abitate da comunità cristiane. È capitato così proprio nelle Molucche e a Sulawesi, dove in aree tradizionalmente cristiane si sono insediate nuove comunità musulmane, dando luogo alla competizione per le scarse risorse.
Questo variegato contesto è completato infine dai veri pogrom di cui sono stati vittime i membri delle comunità cinesi: costoro svolgono per lo più attività commerciali, e per questo sono visti alla stregua di vampiri che succhiano il sangue dei “poveri indonesiani”. Accade spesso, peraltro, che gli indonesiani di origine cinese abbraccino la religione cattolica, divenendo così membri di due diverse minoranze, quella cinese e quella cattolica. In un certo senso per loro è un vantaggio, poiché quando a essere presi di mira sono i cinesi non importa granché in Occidente, mentre quando a subire attacchi è la comunità cattolica si inizia subito a parlare di scontro di civiltà…
Invece quel che è avvenuto a Timor Est...
MONTESSORO: Quella è tutt’altra cosa. Quando i portoghesi lasciarono la loro colonia, nel 1975, l’Indonesia si mosse per riempire un vuoto di potere; il rifiuto da parte delle popolazioni di Timor Est è stata la logica, e tragica, conseguenza di un drammatico errore storico-politico, conclusosi nel 1999 con l’indipendenza dall’Indonesia della ex colonia portoghese.
L’economia indonesiana registra una significativa crescita. Adotta un modello liberista oppure un modello misto di pubblico e privato più vicino al modello economico cinese?
MONTESSORO: In Asia, l’intervento dello Stato nell’economia non è solo appannaggio della Cina. Se si esclude Singapore – che è un’eccezione anche geografica, essendo di fatto una città-Stato –, tutti i Paesi asiatici registrano in vario modo l’intervento statale a sostegno dell’economia. Questo avviene anche in Giappone, considerato a torto un esempio di liberismo estremo...
Una chiesa distrutta a Poso durante 
gli scontri dell’8 dicembre 2001

Una chiesa distrutta a Poso durante gli scontri dell’8 dicembre 2001

Quali sono i rapporti tra l’Indonesia e i due grandi colossi asiatici, la Cina e l’India?
MONTESSORO: In passato le relazioni con la Cina erano decisamente modeste. L’economia indonesiana si basava prevalentemente sull’esportazione di petrolio e gas naturale, che ora ha un peso notevolmente minore nella bilancia commerciale del Paese. L’Indonesia è sempre stata considerata un gigante, ma un gigante di cui nessuno prevedeva una crescita vera, in grado di interagire significativamente nel mercato globale. Negli ultimi anni qualcosa è però cambiato, in virtù della crescita prodigiosa della Cina. La Repubblica popolare è davvero la “fabbrica del mondo”, e quello che vediamo è solo la punta dell’iceberg di uno sviluppo impressionante. Quel che è avvenuto in Cina ha cambiato il panorama economico mondiale. Alcuni Paesi ne soffrono, altri invece se ne giovano. È appunto il caso dei tanti Paesi asiatici che circondano il colosso cinese, tra cui l’Indonesia. Ad esempio l’Indonesia esporta in Cina in misura sempre crescente caucciù, perché questa materia prima è indispensabile per la produzione automobilistica cinese. E ancora: il fatto che l’Europa abbia introdotto misure antidumping nei confronti delle industrie delle calzature stanziate in Cina ha fatto sì che molte di queste aziende, per lo più multinazionali, delocalizzassero i loro impianti di produzione in Indonesia, dove si è avuto un boom del settore. Insomma, nell’insieme, l’Indonesia sta traendo enormi vantaggi dal nuovo dinamismo economico asiatico, cinese anzitutto, ma anche, in misura minore, indiano.
Non crede che l’Indonesia possa giocare un ruolo significativo nell’ambito delle operazioni di peacekeeping dell’Onu?
MONTESSORO: Mi risulta che l’Indonesia sia già impegnata in operazioni di peacekeeping sotto l’egida dell’Onu. Questo per una serie di motivi: innanzitutto perché le forze armate indonesiane sono propense a ricercare fonti alternative per finanziare il proprio budget, e partecipare a queste missioni consente ai soldati di ricevere una paga più che dignitosa. Inoltre perché si tratta di un esercito altamente specializzato e, si può dire purtroppo, dotato di una notevole esperienza in attività di controguerriglia. Tra l’altro, trattandosi di un esercito formato per la maggior parte da musulmani, può risultare molto più gradito di altri in aree di crisi che riguardano i Paesi arabo-islamici. Da questo punto di vista credo possa costituire davvero una risorsa per le Nazioni Unite.


Español English Français Deutsch Português