Home > Archivio > 01 - 2007 > Zagladin, il compagno che sapeva aspettare
PERSONAGGI
tratto dal n. 01 - 2007

Un ricordo di Vadim Valentinovic Zagladin

Zagladin, il compagno che sapeva aspettare


Sotto Breznev sembrava un burocrate potente ma senza idee e visioni politiche. Non era così: fu uno degli uomini chiave della perestrojka di Gorbaciov, a cui restò legato fino alla fine


di Giulietto Chiesa


Vadim Valentinovic Zagladin, scomparso il 20 novembre 2006, era nato a Mosca nel 1927. Laureatosi nel prestigioso istituto Mgimo del Ministero degli Esteri di Mosca, fu dal 1964 al 1988 vicecapo dell’ufficio Esteri del Pcus. Uomo di grande cultura, era legatissimo all’Italia

Vadim Valentinovic Zagladin, scomparso il 20 novembre 2006, era nato a Mosca nel 1927. Laureatosi nel prestigioso istituto Mgimo del Ministero degli Esteri di Mosca, fu dal 1964 al 1988 vicecapo dell’ufficio Esteri del Pcus. Uomo di grande cultura, era legatissimo all’Italia

Se n’è andato, Vadim Valentinovic Zagladin, quasi in punta di piedi. Quando l’ho conosciuto era un compagno, ma non eravamo amici. Lo saremmo diventati circa dieci anni dopo, quando ormai essere “compagni” aveva perduto quasi tutto il suo significato originario.
Vadim Zagladin, quando lo conobbi, era davvero potente, ed era alloggiato sulla Piazza Vecchia di Mosca. Era il numero due della sezione Esteri del Comitato centrale del Pcus, immediatamente al di sotto di Boris Ponomariov che era nel vertice supremo del Partito, come membro supplente del Politburò.
Ma Ponomariov era vecchio, e non sapeva molte cose, mentre Vadim Valentinovic era uno che spaccava il capello in quattro, sapeva tutto, scriveva con grande precisione. E se volevi sapere il minimo dettaglio su un partito comunista dell’Europa, dovevi andare da lui. Zagladin o nessun altro.
Litigammo, la prima volta che lo incontrai, sebbene lui fosse in alto e io niente più che un moscerino: il corrispondente designato dell’Unità a Mosca. Erano i giorni dell’intervento sovietico in Afghanistan. Il Pci era stato contrario, io fui il primo comunista italiano che gli capitò a tiro e Zagladin se la prese con me. Reagii e finì che, prima di arrivare a Mosca come corrispondente permanente, dovetti aspettare quasi un anno intero.
Poi gli anni passarono, l’Afghanistan dimostrò che avevamo ragione noi di Botteghe Oscure e non loro della Piazza Vecchia. Venne la perestrojka di Gorbaciov e io mi ricordo con quale sorpresa notai che Zagladin diventava parte della squadra del rinnovamento. Stava con Gorbaciov. L’avevo giudicato male. Pensavo fosse un burocrate senza respiro e senza visione. Invece non era così.
Scoprii allora che anche lui era passato per la grande e un po’ eretica esperienza della rivista praghese, Problemi della pace e del socialismo, insieme a tanti altri intellettuali del Pcus come Anatolij Cernjaev, Fëdor Burlatskij, Merab Mamardashvili, Gheorghi Shaknazarov, Jurij Ambarzumov. E là, a Praga, anche lui aveva respirato un’aria europea. In quel laboratorio c’erano le idee dei comunisti italiani, dei francesi, degli inglesi. C’erano i latinoamericani. C’era il mondo intero, con la sua varietà di percorsi che si scontrava con l’uniformità che Mosca avrebbe voluto imporre. Zagladin imparò l’eurocomunismo a Praga, prima ancora che nascesse. E se lo portò a Mosca, senza dirlo a nessuno fino a che non arrivò l’uomo con la voglia in fronte.
Sapeva aspettare, Vadim. Anche troppo.
Erano gli anni tra i Sessanta e i Settanta, di Krusciov e del disgelo, e molti di loro pensavano che sarebbe durato e avrebbe fatto crollare gli iceberg della guerra fredda. Ma poi venne Breznev e tutti, chi più chi meno, dovettero “imboscarsi” negli apparati, e fingere fedeltà assoluta a un progetto che stava asfissiando per conto proprio.
Zagladin, tra i burocrati, era il più ortodosso. Lo sembrava, almeno.
Anni dopo, in una cena tra amici, russi e italiani, in un ristorante romano, lui stesso descrisse la propria parabola, e ricordò quella nostra discussione rovente nel suo ufficio del Comitato centrale. Brindammo, con qualche commozione, agli errori della storia, che furono anche i nostri, ma che, sia lui che io, avevamo vissuto con la necessaria passione: quella che ti consente di alzarti la mattina e, guardandoti allo specchio, di non avere vergogna della tua faccia.
Vadim Valentinovic non riuscì a entrare nell’empireo del Pcus. La perestrojka arrivò anche per interrompere la sua carriera, ma fu uno dei più preziosi collaboratori di Gorbaciov. Uno di quelli che, avendo imparato la lezione che il dire sempre di sì al tuo superiore significa fargli del male, era anche uno di quelli che imparò a dire a Gorbaciov cosa non si doveva fare e dove sbagliava.
Fino all’ultimo giorno della sua vita c’è stata traccia della sua penna nei discorsi di Gorbaciov. Dal posto defilato che si scelse, anche lui ha scritto molte pagine dignitose, alcune davvero brillanti, della storia del suo Paese.


Español English Français Deutsch Português