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RUSSIA
tratto dal n. 09 - 2000

ANALISI. La situazione politica a Mosca

Putin, avanti adagio


Appare chiaro che il presidente russo ha intrapreso una strada autonoma rispetto ai disegni dei suoi stessi creatori. E sta combattendo per farsi strada tra le sabbie mobili dell’élite eltsiniana. Anche Michail Gorbaciov ha dichiarato a diverse riprese che bisogna dargli credito


di Giulietto Chiesa


Nel mio ultimo soggiorno in Russia, a metà settembre, nel pieno dello scandalo-scontro tra Cremlino e Gasprom, da un lato, e gruppo Media-Most di Gusinskij dall’altro, mi sono trovato nella più rappresentativa tusovka (party) della capitale: il decennale della Radio (anch’essa di Vladimir Gusinskij) “Eco di Mosca”. Raramente mi è accaduto di trovare così tanta incertezza, inquietudine, disparità e varietà di attese, punti di vista, valutazioni. Situazione tipica dei momenti di transizione politica.
Putin ascolta i problemi di una pensionata. Il presidente è riuscito a saldare i debiti 
dello Stato verso pensionati, dipendenti e militari incamerando un buon consenso popolare, ma non è riuscito a porre mano al risanamento dell’economia

Putin ascolta i problemi di una pensionata. Il presidente è riuscito a saldare i debiti dello Stato verso pensionati, dipendenti e militari incamerando un buon consenso popolare, ma non è riuscito a porre mano al risanamento dell’economia

La Russia e Mosca si trovano esattamente in mezzo a un altro guado dei tanti che hanno cercato di attraversare, senza riuscirci, in questo decennio di postcomunismo. Si potrebbe dire, senza andare troppo lontano dalla verità, che – come ha scritto Gleb Pavlovskij (Izvestija, 16 settembre 2000) – «al momento in Russia c’è una democrazia come intenzione […] delle forze politiche principali. Ma non c’è democrazia come sistema di istituti e come meccanismo funzionante. Siamo di fronte a qualcosa di simile a impalcature poggiate sulla costruzione statale sovietica…». Anche Pavlovskij, considerato uno degli artefici della vittoria elettorale di Putin, ha fatto una capatina alla festa di “Eco di Mosca”. Lui ritiene – credo abbia ragione – che sia il potere esecutivo sia la maggioranza delle forze politiche esistenti, quelle che contano, si siano convinti della necessità di stabilire finalmente delle regole stabili, più o meno democratiche. Ma l’accordo finisce qui. Attorno alla qualità delle regole domina il più completo disaccordo.
La seconda questione su cui si può fissare un punto fermo riguarda l’eventualità di un golpe autoritario. Pavlovskij lo ritiene impraticabile. Di fatto nessuno degli interlocutori con cui ho potuto parlare lo ritiene un’ipotesi realistica. Per una molteplicità di ragioni, la più importante delle quali è che non esiste un esercito in grado di farlo, nemmeno di concepirlo, tanto meno di reggerlo a lungo. E non esiste nemmeno una quota sufficiente di opinione pubblica disposta ad appoggiarlo. La maggioranza dei russi – sicuramente quella parte cospicua di elettori che ha votato per Putin – non vede di cattivo occhio una “mano forte”, qualche deus ex machina capace di portare ordine, pulizia contro la corruzione, un minimo di stabilità economica e sociale. Eppure solo una minoranza assai ridotta sembra disposta a correre il rischio di perdere quella situazione, simile a un limbo, in cui si possono esercitare almeno una parte delle libertà, specie quelle individuali, che quattro generazioni di sovietici non poterono gustare.
Su queste considerazioni di fondo s’inquadra “l’interrogativo Putin”. Qui il ventaglio delle posizioni è apertissimo. Tante teste, altrettanti pareri. Eppure qualche conclusione la si può tirare. Vladimir Putin non dispone ancora di tutto il potere, non soltanto e non tanto quello che formalmente gli assegna una Costituzione ampiamente autoritaria, quanto quello effettivo dei reali rapporti di forza all’interno dell’élite dominante e negli apparati burocratici del Cremlino e dello Stato. È in corso una battaglia molto complessa, articolata su una miriade di fronti, destinata a non finire presto, e il cui esito è attualmente di molto difficile lettura. Ma il dato che Putin stia ancora combattendo per farsi strada tra le sabbie mobili dell’élite eltsiniana non deve essere trascurato. Per due ordini di ragioni.
La prima è che non tutto ciò che accade a Mosca può essergli addebitato. Qualcosa ma non tutto. E ogni evento di un certo grado d’importanza richiede un’analisi dettagliata prima che gli si possa assegnare una paternità. E, di conseguenza, per evitare di attribuire a Putin scelte e pensieri che non sono i suoi. Nel caso del sommergibile Kursk, sicuramente, una parte degli errori commessi sono da assegnare a Putin, ma probabilmente non tutti. Altrettanto può dirsi del caso della tv privata Ntv.
In secondo luogo non è affatto detto che la battaglia in corso si concluda a suo favore. Dentro il Cremlino è ancora saldamente insediata una parte della squadra di Boris Eltsin. Pavel Borodin è stato promosso per toglierlo dai più diretti paraggi, ma la figlia di Boris Eltsin, Tatjana Djacenko, continua ad avere un ufficio al Cremlino, sebbene il suo nome non figuri negli elenchi della nomenklatura. Alla testa dell’amministrazione presidenziale c’è ancora Voloshin, che fu ed è il terminale nel Cremlino di Boris Berezovskij. Il governo è guidato da Kasianov, detto dai banchieri occidentali “mister 5%” per le tangenti che sarebbe stato solito chiedere in ogni affare, prima di diventare premier. E un nutrito stuolo di ministri vengono dalla scuola della massima corruzione.
Si racconta che un giornalista amico abbia chiesto a Putin, mentre riposava in Crimea, come mai non si liberava di Kasianov. La risposta del presidente, molto significativa, sarebbe stata la seguente: «Se io tolgo quello, non è ancora detto che non ce ne mettano un altro peggiore». Questo spiega molte cose. Spiega anche, tra l’altro, perché Vladimir Putin, molto inopinatamente per molti osservatori russi, frequenti Michail Gorbaciov e chiarisce anche perché Michail Gorbaciov abbia dichiarato, ormai a diverse riprese, che a Putin bisogna dare credito. Non a fondo perduto, non senza rinunciare all’esercizio della critica, ma pur sempre dar credito. Ciò che comincia ad apparire sempre più chiaramente è che Putin ha intrapreso una strada autonoma rispetto ai disegni dei suoi stessi creatori, cioè di quel coacervo di interessi potentissimi che negli anni scorsi ha tenuto al potere Boris Eltsin e che – quando è apparso evidente che nemmeno l’Occidente (segnatamente l’amministrazione degli Stati Uniti) era ormai più disposto a mantenere al potere quel fantoccio impresentabile – scelse Putin come il candidato vincente. Minore dei mali possibili, certo stimato come meno pericoloso di Aleksander Lebed.
Con buona dose di probabilità la “Famiglia” ritenne che Vladimir Putin le avrebbe consentito un lungo periodo di quiete. Dovendole la carica, il potere, essendo forse in varia misura vulnerabile ai materiali compromettenti, inesperto, privo di una propria squadra, relativamente fedele. Certo l’ideale sarebbe stato, per la “Famiglia”, riuscire – prima di effettuare la sostituzione – a emendare la Costituzione in modo da ridurre significativamente i poteri presidenziali. Ciò avrebbe ridotto ulteriormente i pericoli di un colpo di coda – ritenuto comunque poco probabile nel breve e medio periodo – del nuovo tenutario formale dei poteri del Cremlino. Purtroppo per loro i tempi del tramonto eltsiniano si fecero rovinosamente brevi. Ora accade il peggiore degli scenari possibili tra quelli che la “Famiglia” aveva ipotizzato. L’uomo che essi hanno portato al potere si sta rivelando dotato di proprie idee e di una propria ambizione. Quel che è peggio, essi vanno scoprendo che le idee del “loro uomo” sono in rotta di collisione con gli interessi che essi difendono.
Infine si scopre che Vladimir Putin, pur inesperto e lento nel costruirsi una propria squadra, non manca di capacità tattiche. Egli sta ponendo fine all’era Eltsin senza clamore, evitando i colpi di mano illegali, mantenendo una linea di sostanziale rispetto delle leggi. A sei mesi dalla sua elezione formale a presidente, a poco più d’un anno dall’assunzione della responsabilità di governo, Putin ha realizzato alcune operazioni di grande momento. Tra queste c’è la conquista di una maggioranza parlamentare nella Duma. Ciò che non era riuscito a Eltsin per nove anni è riuscito a Putin in meno di un anno. La seconda operazione è stata la riforma costituzionale che ha liquidato di fatto il potere dei governatori sulle faccende dello Stato unitario, ponendo un freno al processo di disgregazione innestato dalla baraonda delle sovranità avviata e alimentata da Boris Eltsin e dai suoi. Il nuovo Consiglio della Federazione, divenuto una Camera alta di parlamentari professionali, ha ora un ruolo sostanzialmente minore di quello della Duma, mentre i governatori hanno perduto l’immunità e l’indiscussa gestione dei loro territori. Non è ancora la fine dei “principati indipendenti”, ma è senza dubbio un loro sostanziale indebolimento.
È ovvio che un tale rafforzamento del potere centrale non potesse piacere né ai boiardi regionali, né ai baroni del capitalismo criminale, agli oligarchi (o a una parte importante di essi). Gli uni e gli altri avevano potuto procedere liberamente alla spartizione delle spoglie dello Stato, dei suoi averi centrali e periferici, proprio grazie alla assoluta debolezza e corruzione dell’apparato dello Stato e al completo disordine istituzionale del Paese. E grazie alla disponibilità permanente di Eltsin e della sua “Famiglia” – deboli politicamente – a contrattare appoggi in cambio di elargizioni di sovranità e di proprietà statali. Non è un caso che Boris Berezovskij abbia deciso di passare all’opposizione lanciando il “grido di dolore”: «Putin si propone di distruggere le nuove élites politiche della Russia». Mai definizione suonò più precisa di questa.
Nei confronti degli oligarchi la linea adottata da Putin appare meno lineare e forse meno chiara. Non è escluso che l’apparente zigzagare del suo comportamento e l’ambiguità delle sue dichiarazioni siano semplicemente effetto di una mancanza di forza. Ma Putin non è rimasto inattivo neppure su questo fronte. Con alcuni oligarchi (il più significativo dei quali è Vladimir Potanin), il presidente ha siglato un patto di non belligeranza, per non dire di collaborazione. Con due di essi è entrato in guerra. E c’è una spiegazione precisa per questo. Nel panorama così povero della società civile russa, così bene sintetizzato da Pavlovskij con l’espressione «impalcature poggiate sulla costruzione statale sovietica», si stagliano i due partiti che hanno deciso la sorte delle elezioni russe di tutti questi anni. Due partiti veri, gli unici oltre al Partito comunista, che hanno combattuto e vinto tutte le prove elettorali a partire dal 1993.
I due partiti in questione si chiamano Ort, il canale televisivo nazionale, e Ntv, la principale televisione privata della Russia. Essi hanno agito insieme, nel 1995 e 1996, per garantire la rielezione di Eltsin. Ma, a partire dal 1998, le loro linee hanno cominciato a divergere, fino a che, nel 1999, i due partiti sono diventati nemici l’uno dell’altro: espressioni e portatori al tempo stesso di due gruppi oligarchici contrapposti. Ort cavallo di battaglia della “Famiglia”, portatore del candidato Vladimir Putin; Ntv patrocinatore esplicito della coppia Primakov-Luzhkov, contro il Cremlino. Sappiamo che la sigla Ort significa Boris Berezovskij, e che quella Ntv significa Vladimir Gusinskij.
Vladimir Putin sa perfettamente, come lo sanno il primo e il secondo, che senza il possesso – o la benevola neutralità – dei due partiti decisivi della scena politica russa, non potrà portare a compimento né il suo disegno di emancipazione dai suoi pigmalioni e creatori, né, tanto meno, il progetto di arrestare la disgregazione della Russia e la sua trasformazione graduale in paria della comunità internazionale. È questo il significato della manovra a largo raggio per togliere dalle mani di Berezovskij il dominio di Ort (di cui l’affarista Berezovskij è proprietario solo al 49%), e della manovra a corto raggio per costringere Vladimir Gusinskij a cedere, in tutto o in parte, il controllo su Ntv. L’esito di queste due battaglie sarà decisivo in molti sensi. Non ultimo quello che consentirà di misurare se e fino a che punto lo stesso Putin consideri valido il principio della pluralità e della libertà d’informazione.
Certo è che, in caso di sconfitta del presidente, la sua posizione non potrà essere considerata stabile. In questa fase egli ha avuto dalla sua parte anche la fortuna, sotto le spoglie del prezzo del petrolio. Non vi fossero state le altissime entrate statali derivanti dall’oro nero, la situazione economica, assolutamente catastrofica, lo avrebbe costretto ad agire senza troppi complimenti e in gran fretta. In questo modo egli ha potuto saldare i conti con i dipendenti dello Stato, in primo luogo i milioni di militari e loro famiglie, e con i milioni di pensionati lasciati alla fame nei cinque anni trascorsi. In tal modo incamerando una cospicua dose di consenso popolare. Ma non ha potuto, per il momento, neppure porre mano al risanamento dell’economia e della finanza russe. Per questo, come si è detto, avrebbe dovuto disporre di forze ben più cospicue di quelle di cui dispone attualmente, e di una squadra di uomini capace di pensare in termini di reale riforma. Il che non è ancora all’orizzonte e non sarà realizzabile fino a che il governo resta composto come è oggi.
Molte cose restano dunque sospese ai punti interrogativi. Personalmente non credo che i due turni presidenziali siano già assicurati per il giovane Vladimir Putin. I tempi della crisi della Russia (e del suo eventuale avviarsi a soluzione) si concentrano in un solo mandato presidenziale, cioè nei prossimi tre-quattro anni. La Russia è andata indietro, catastroficamente, per dieci anni. La sua struttura industriale, le sue forze armate, sono invecchiate oltre i limiti di una normale gestione. Occorrono misure d’emergenza in termini d’investimenti, di capitali che non ci sono (ci sono, ma all’estero). Putin ha dovuto riconoscere apertamente che il Paese sta andando in pezzi, in ogni senso. Lo stesso clima morale del Paese è disastrosamente basso. Neanche la pazienza russa può essere infinita. Putin ha rappresentato, per molti – a torto o ragione – una speranza. Se anche questa non troverà conferme, è molto difficile che egli riesca a restare in sella. E nessun Paese, neanche la Russia, può “inventare” due presidenti.


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