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LEFEBVRIANI
tratto dal n. 09 - 2000

Intervista con il superiore generale della Fraternità San Pio X

«Se il Papa mi chiama, io vado. Anzi, corro»


«Noi siamo cattolici romani, e per un cattolico è normale fare il Giubileo». Il vescovo Bernard Fellay racconta il pellegrinaggio delle migliaia di fedeli tradizionalisti nella Città eterna. E spiega lo stato dei rapporti tra Ecône e Roma


Intervista con Bernard Fellay di Stefano Maria Paci


«Se il Papa mi chiama, io vado. Subito. Anzi, corro». È in questa frase sorprendente, pronunciata nell’intervista che segue dal superiore generale della Fraternità San Pio X, il vescovo Bernard Fellay, che si misura la portata storica di quanto sta accadendo all’interno dei lefebvriani. Un nuovo clima di dialogo, che potrebbe portare, se intelligentemente valorizzato da chi ha per mandato divino il compito di garantire l’unità della Chiesa, a dei passi decisivi per sanare una frattura che è stata, e resta, dolorosa. Per capire come sia cambiato il clima all’interno della Fraternità, basti pensare che monsignor Lefebvre rifiutò, nei giorni precedenti la consacrazione dei vescovi che causò lo scisma, di rispondere all’appello pressante di Giovanni Paolo II, che gli aveva inviato una macchina pregandolo insistentemente di recarsi da lui, in Vaticano, per incontrarsi ancora una volta prima di sancire la rottura definitiva.
Ma non è questa l’unica sorpresa che riserva l’intervista di monsignor Fellay. Che dalla sua residenza in Svizzera, lancia un appello al Vaticano: apriteci dei canali ufficiali di dialogo.

Il pellegrinaggio dei lefebvriani nella Basilica di San Paolo l’8 agosto 2000
(il secondo da destra è il vescovo Fellay)

Il pellegrinaggio dei lefebvriani nella Basilica di San Paolo l’8 agosto 2000 (il secondo da destra è il vescovo Fellay)

Eccellenza, lei è un vescovo formalmente scomunicato. Perché ha deciso di venire, con tutta la sua Fraternità, in pellegrinaggio a Roma, di pregare solennemente nella Basilica di San Pietro e di farlo anche per il Papa che l’ha allontanata dalla comunione della Chiesa cattolica?
BERNARD FELLAY: Io non mi considero scomunicato. Quella scomunica non è valida. Per questo credo sia stato importante aver mostrato a tutti la nostra volontà di essere e mantenerci cattolici. Pregare in San Pietro ne è stato un segno. Per me non c’è stata nessuna contraddizione. Ma immagino che per gli uomini del Vaticano non sia stato così, e devono aver considerato tutto questo come una contraddizione. Però la contraddizione, quella vera, è avere lanciato la scomunica su dei cattolici fedeli e devoti.
Per poter effettuare questo pellegrinaggio ci sono state trattative con Roma durate due anni. Le vostre richieste sono state tutte accolte?
FELLAY: All’inizio avevamo chiesto anche di poter dire la messa dentro San Pietro, ma sinceramente sapevo che ci sarebbe stato risposto che non era possibile. Abbiamo chiesto il massimo per ottenere il possibile.
Ha mai avuto il timore di un rifiuto totale?
FELLAY: A dire il vero, no. Politicamente parlando, non credo che ci potesse essere un’altra soluzione, visto il clima attuale della Chiesa. Un “no” del Vaticano avrebbe causato uno scandalo enorme, e sarebbe stato in palese contraddizione con il suo atteggiamento ecumenico. Si fanno venire a Roma i capi delle Chiese scismatiche e i leader non cristiani, e il Papa prega con loro. Come avrebbe potuto dire di no proprio a noi, che ci diciamo e siamo cattolici?
A molti però questo pellegrinaggio a Roma è sembrato una provocazione, il tentativo di muovere le acque per rimettere in discussione una scomunica mai accettata. È così?
FELLAY: Assolutamente no. Noi siamo cattolici romani, ed è normale per un cattolico fare il Giubileo.
Il cardinale Ratzinger è intervenuto su questa decisione di farvi venire a Roma?
FELLAY: Non ufficialmente. Suppongo di sì, ma non ho alcun indizio di questo.
Monsignor Fellay, lei venne ordinato vescovo il 30 giugno del 1988 e il giorno stesso venne scomunicato latae sententiae. Il giorno dopo, monsignor Lefebvre mi confidò, in un’intervista “a cuore aperto”: «Queste ordinazioni ho dovuto farle, altrimenti la mia opera sarebbe scomparsa e con essa la Tradizione della Chiesa. Ma entro quattro, cinque anni al massimo, Roma finirà per trovare un accordo con noi». Di anni invece ne sono passati oramai dodici: cosa è successo?
FELLAY: È difficile prevedere le azioni umane. È chiaro che la Chiesa non può proseguire ancora per troppo tempo nella direzione attuale, e che un giorno dovrà ritornare alla Tradizione, se non vuole perdere del tutto la sua credibilità. Monsignor Lefebvre pensava che questo sarebbe accaduto prima: cinque anni, le aveva detto. Purtroppo, di anni ne sono passati tanti e noi siamo ancora considerati fuori dalla comunione.
Lei, oggi, che previsioni può fare?
FELLAY: Una previsione? Oggi è più difficile da fare che non dieci anni fa. In Vaticano le tendenze diverse sono molto più forti di allora. Quale prevarrà? La fede ci dice che alla fine prevarrà l’ordine giusto, ma attraverso quali passi ci si arrivi, non lo sappiamo. La situazione è tale che si può immaginare che la ricomposizione possa avvenire in un anno, ma anche in venti.
Lei parla di tendenze diverse che si combattono nella Chiesa. Eppure si parla spesso di una Chiesa “wojtylizzata”, per intendere che questo Papa ha dato un’impronta marcatamente personale alla Chiesa universale, che appare molto unita e compatta.
FELLAY: È vero. L’apparenza è più armonizzata. Ma non è così. È un errore di valutazione. La Chiesa è più divisa di venti anni fa. Ci sono vescovi che fanno dichiarazioni contro Roma, e Roma non fa quasi nulla per controbatterli. Anche venti anni fa c’erano questo tipo di dichiarazioni, ma Roma interveniva. Oggi non lo fa più, ammettendo così una perdita di potere.
Non è singolare che sotto un Papa considerato più progressista, come Paolo VI, voi siate rimasti, nonostante le difficoltà, dentro la comunione della Chiesa, e sotto un Pontefice come papa Wojtyla, da molti accusato di essere troppo tradizionalista, siate stati scomunicati? Come se lo spiega?
FELLAY: In Giovanni Paolo II ci sono due volti, quasi contraddittori. Karol Wojtyla è una personalità molto complessa. Le sue posizioni sulla morale, sulla famiglia, sull’aborto, danno un’impressione tradizionale. Ma su temi come l’ecumenismo e le relazioni con il mondo, è molto avanzato. Siamo lieti quando mostra il volto tradizionalista, ma l’altro ci spaventa. Wojtyla per me è un mistero, e in parte, forse, lo è anche per se stesso.
Vi aspettate forse che con un futuro papa le cose potrebbero cambiare?
FELLAY: Dio può cambiare un cuore quando vuole, e quindi le cose potrebbero mutare anche da subito. Spesso, anche tra i cattolici, si dimentica che la Chiesa non è un organismo semplicemente umano, ma è essenzialmente soprannaturale. Non è il risultato delle azioni degli uomini: anche il buon Dio ha qualcosa da dire. È questo che costituisce il mistero della Chiesa. Ci aspettiamo di più da un futuro papa? Lo speriamo. Ma non si può dire molto altro. Il futuro è incerto.
Però il pellegrinaggio a Roma ha avuto degli esiti notevoli. Quale sarà la prossima mossa?
FELLAY: Sto pensando se vale la pena chiedere un’udienza al Papa. Il Papa sarà disposto a riceverci? E ancora: cosa ci aspettiamo da un’udienza? Sto riflettendo su questi due punti, prima di decidere.
Prima ha detto che Roma non poteva ragionevolmente impedire il vostro pellegrinaggio. Difficile quindi pensare che il Papa non accetti di ricevervi: non ha mai rifiutato a nessuno un’udienza.
FELLAY: Sì. Ma non voglio fare un atto politico, non voglio incontrare il Papa per avere i titoli sui giornali. Se incontro il Papa, è per parlare della situazione della Chiesa.
Ma non pensa che incontrare Giovanni Paolo II possa essere in ogni caso utile per aprire un dialogo diretto?
FELLAY: È difficile da dire. Può darsi, ma non ne sono certo. Vedendo tutto quello che accade nella Chiesa, vedendo come funziona la curia romana, sono perplesso. Le confesso che sono di fronte a una scelta molto difficile, che non ho ancora risolto.
Ma non dico per principio che non voglio vedere il Papa.
E se il Papa la chiamasse?
FELLAY: Se mi chiama, io vado. Subito. Anzi, corro. Questo è certo. Per obbedienza. Per filiale rispetto verso il capo della Chiesa.
La processione verso la Porta Santa 
di San Pietro

La processione verso la Porta Santa di San Pietro

Eccellenza, sono sorpreso. A volte, al vostro interno, sono affiorate delle tendenze sedevacantiste, che affermavano che il Papa non è più il legittimo capo della Chiesa. O che, perlomeno, ne mettevano in dubbio l’autorità. E anche questo ha spesso reso più difficile il dialogo. Lei in questo momento sta dicendo recisamente il contrario, ed è una novità. Quelle tendenze sono state definitivamente sconfitte?
FELLAY: Non pensiamo tutti all’unisono. Un altro, vista la situazione attuale, potrebbe rispondere in senso meno aperturista, in maniera più dura. Tra di noi, uno potrebbe usare parole più severe, un altro più concilianti. Ma credo che oggi ci sia una linea generale che è la stessa per tutti. Non ho molti timori.
Tra l’altro lei ha pregato per il Papa, dentro San Pietro. Ricordando certi toni di notevole asprezza usati dalla Fraternità in questi anni, anche questo è sorprendente.
FELLAY: E neanche su questo ci sono stati contrasti all’interno della Fraternità. Forse la nostra posizione è un po’ difficile da capire. La riassumo: per noi c’è una sola Chiesa, e il suo capo in terra è il Papa. È normale che preghiamo per il Papa, anche se non siamo contenti di tutto ciò che fa.
Pensa che se monsignor Lefebvre fosse vivo oggi, la sua autorità faciliterebbe un eventuale rientro di tutta la Fraternità in piena comunione con Roma?
FELLAY: La questione è difficile. E spesso mi chiedo come si comporterebbe oggi. Lui percorreva due strade: dialogare con Roma, e insieme condannarne gli errori. E noi stiamo facendo lo stesso. Sono sempre state le questioni dottrinali a creare il problema. E queste questioni non sono ancora state risolte.
Provi a dire, sinteticamente, qual è il problema.
FELLAY: Il problema è questo: Roma accetta o no la nostra posizione come una posizione cattolica? Per esempio sull’ecumenismo. È normale che si cerchi l’unione di tutti i cristiani. La vogliamo anche noi: quando si dice che noi siamo contro l’ecumenismo, si dice una falsità. Non è questo il punto. È il metodo praticato che noi mettiamo in discussione. Un metodo che ha come unico obiettivo una convivenza pacifica, e non la conversione di chi sbaglia. Ma è solo tenendo fermi i punti dottrinali che si dimostra un vero desiderio di dialogo. Il problema è: abbiamo il diritto di dire queste cose, o chi le sostiene deve essere messo fuori dalla comunione ecclesiale? Purtroppo il Vaticano II ha confuso le idee a molti nella Chiesa.
Monsignore, siamo realisti. È davvero difficile pensare che Roma possa dire: col Concilio Vaticano II ci siamo sbagliati. Allora, cosa potrebbe fare, concretamente, il Vaticano, per ritessere i legami con voi?
FELLAY: Nei passi pratici, su come fare per risolvere i problemi, la sapienza e l’abilità di Roma è grandissima. Quindi può trovare le formule adeguate. Ha ragione lei: occorre essere realisti. Non ci aspettiamo che il Vaticano effettui un grande mea culpa, dicendo cose del tipo: “Abbiamo promulgato una falsa messa”. Non vogliamo che l’autorità della Chiesa venga ancor di più sminuita. Lo è stata anche troppo: adesso basta. Ma Roma potrebbe mostrare con i fatti un segnale di un chiaro cambio di direzione.
Monsignore, insisto: faccia un esempio di quello che riterrebbe sufficiente per indicare questo cambio di direzione. Un esempio, appunto, realistico.
FELLAY: Un atto chiarissimo sarebbe quello di permettere a tutti i sacerdoti del mondo la possibilità, solo la possibilità, di dire la messa tridentina. La messa che per secoli e secoli è stata la messa della Chiesa. E che ora è diventata fuorilegge.
Non ci sarebbe bisogno di dire che sono stati fatti degli errori con la nuova messa: sarebbe sufficiente concedere ai sacerdoti che lo vogliono la possibilità di celebrare la messa col rito che preferiscono.
Ci sono altre richieste, o sarebbe sufficiente questo perché voi riconosciate un segno di quello che voi chiamate un cambio di direzione?
FELLAY: Questo è il punto fondamentale.
Ammettiamo allora che Giovanni Paolo II, o un futuro papa, decida di permettere a tutti i sacerdoti del mondo di celebrare, se vogliono, la messa secondo il rito tridentino. Voi cosa fareste? Vi sentireste autorizzati a chiedere che la scomunica venga tolta?
FELLAY: Se questo fosse fatto, in pochissimo tempo tutto l’ambiente ecclesiale cambierebbe, e sarebbe molto, ma davvero molto più favorevole a una armonizzazione piena.
Eppure, non sembra una decisione molto difficile da prendere, questa, per Roma, in cambio del rientro di uno scisma. Del resto quella messa è stata per così tanto tempo la messa ufficiale della Chiesa cattolica...
FELLAY: No, non sarebbe difficile. Anzi, le posso dire che Roma stessa, nel 1986, in una riunione di cardinali, aveva discusso se prendere questa decisione. Vuol dire che il Vaticano ha già preso in considerazione la possibilità di poterlo fare...
E quindi, se accadesse...?
FELLAY: Non voglio parlare di rientro, perché noi non ci consideriamo fuori. Ma posso dire con certezza che cambierebbe tutto. Sì, cambierebbe tutto se si concedesse, a noi e a chiunque lo voglia, la semplice libertà di poter dire la messa che la Chiesa ha sempre detto.
Monsignore, lei è il superiore generale della Fraternità. Attraverso quali canali fa conoscere le vostre richieste in Vaticano?
FELLAY: Abbiamo solo contatti personali con alcune persone che hanno autorità nella Chiesa. Nient’altro.
È curioso, questo. Si fanno molti sforzi per il dialogo con protestanti ed eretici e non c’è un canale ufficiale di dialogo con voi. Siete voi che lo rifiutate?
FELLAY: Credo che il Vaticano si trovi di fronte ad un problema. Quale congregazione romana è competente per parlare con noi? Da una parte, Roma non ha formalmente detto che tutta la Fraternità è scismatica: ha scomunicato solo noi vescovi. Quindi, non può essere il Consiglio per l’unità dei cristiani, che tiene i rapporti con i non cattolici, a doversene occupare. Dovrebbe essere un compito affidato a qualcuna delle altre congregazioni romane. Ma quale? Non ce n’è nessuna che possa dirsi competente.
Ma visto che si è fatta una commissione ad hoc, l’Ecclesia Dei, per il dialogo con quei lefebvriani che dopo le scomuniche volevano rientrare in comunione con Roma, si potrebbe fare una commissione ad hoc anche con voi, no?
FELLAY: Sì. Si potrebbe. Perché no? Potrebbe essere un’ottima idea. Anzi, posso dirle ufficialmente, come superiore della Fraternità San Pio X, che, se ci fosse proposta una commissione del genere, saremmo aperti all’ipotesi di parteciparvi.


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