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MARTIRI CINESI
tratto dal n. 09 - 2000

Un cardinale a Pechino


Per la prima volta dal 1949 un porporato venuto da Roma ha potuto celebrare messa in una chiesa cinese. Appunti dal viaggio di Roger Etchegaray


di Angelo S. Lazzarotto


Il cardinale Roger Etchegaray in visita, a settembre, al seminario di Pechino

Il cardinale Roger Etchegaray in visita, a settembre, al seminario di Pechino

Il recente viaggio nella Repubblica Popolare Cinese del cardinale Roger Etchegaray, presidente del Comitato centrale per il Grande Giubileo dell’anno 2000, è stato seguito e commentato con dispacci a volte contraddittori dalle agenzie di stampa.
Partendo per la sua terza visita in Cina, il cardinale aveva detto il 12 settembre scorso: «I cattolici cinesi hanno il diritto di sapere ciò che vado a farvi e in quali condizioni». Una consapevolezza necessaria, in quanto, come osservava, «nessuno ignora le mie responsabilità ecclesiali».
Era già stato in Cina nel 1980, come arcivescovo di Marsiglia, primo alto prelato ad essere invitato nella Repubblica Popolare Cinese, e poi nel 1993. Questa nuova visita rispondeva a un invito, rivoltogli dall’Istituto per le grandi religioni dell’Accademia cinese delle scienze sociali, a partecipare ad un simposio sul tema “Le religioni e la pace” a Pechino, un fatto molto positivo, come egli teneva a sottolineare, per il clima e la serietà degli scambi storici e teologici che lo hanno caratterizzato. Ma ovviamente il suo interesse andava oltre gli aspetti culturali.
Già nei precedenti viaggi aveva potuto rendersi conto sul luogo «delle serie difficoltà che attraversa la Chiesa, ma anche della fede intrepida dei cattolici». E oggi, «nessuno può negare diversi aspetti positivi che indicano come la comunità cattolica stia crescendo sotto l’azione dello Spirito Santo. Però è vero che alcune notizie che ci giungono sono gravi e non rassicuranti». Ma, da cristiano, sa guardare avanti, confortato dal mistero di morte e resurrezione che sta nel cuore della vita della Chiesa, sicuro che «non si può bloccare il movimento della storia».
Il cardinale aveva evitato ogni prematura informazione su questo viaggio, consapevole che i media lo avrebbero inevitabilmente caricato di significati politici che non intendeva avere: «Tengo a precisare che non vado a negoziare alcunché a nome della Santa Sede (non è di mia competenza)».
Ci andava contando sulla forza dello Spirito («dal mio primo viaggio, vent’anni fa, prego ogni sera per il popolo cinese e per la Chiesa in Cina»), auspicando, nel clima di riconciliazione proprio dell’anno giubilare, «un sussulto di sforzi comuni verso una Chiesa pacificata e meglio riconosciuta come portatrice di una Buona Novella al servizio di tutto il popolo cinese». Alla domanda su cosa pensava di poter fare praticamente, rispondeva con molta chiarezza: «Vorrei poter dare a tutti qualche piccolo segno di speranza. Sono ben consapevole che le mie parole, i miei gesti, per quanto limitati, rischiano di essere mal compresi, mal utilizzati. Gli eventuali contatti non potranno essere interpretati come un riconoscimento delle strutture ecclesiastiche esistenti. Mio solo desiderio è di poter semplicemente testimoniare a tutti una volontà sincera e determinata di dialogare senza nulla nascondere della verità della Chiesa, quale Cristo l’ha fondata».
L’opportunità di essere accanto al cardinale, non solo per il ben riuscito simposio che si concluse a mezzogiorno del 16 settembre, ma anche nei cinque giorni seguenti, mi ha permesso di condividerne le preoccupazioni e le speranze, e di constatare un provvidenziale snodarsi di circostanze, pur nei limiti oggettivi di quella realtà sociale. Il cardinale Etchegaray ha vissuto quei giorni con fede e serenità, convinto come Giovanni Paolo II che il Giubileo «è il tempo favorevole per tutte le audacie apostoliche, per tutte le speranze spirituali».
In una nuova intervista concessa alla Radio Vaticana al suo ritorno, il cardinale ricordava tra l’altro la forte impressione suscitatagli dalla visita al Pudong, nella municipalità di Shanghai, dove fu ricevuto dal vicegovernatore della metropoli. Questa straordinaria zona di sviluppo industriale ed economico rappresenta il drammatico cambiamento sociale che sta avvenendo in Cina, anticipando «quello che sarà la Cina di domani, la cui inebriante modernizzazione fa ancor più sentire il bisogno di un “supplemento di anima”».
Uno dei desideri più vivi del cardinale era di poter personalmente esprimere ai fedeli della Chiesa cinese la solidarietà e il sostegno dei cattolici di tutto il mondo e specialmente del Santo Padre. Purtroppo, la sua ripetuta richiesta di poter incontrare qualche rappresentante delle comunità cattoliche non ufficialmente riconosciute è andata delusa («l’unico canale rimane l’Associazione legata al governo e onnipresente») ed egli non ha mancato di far sapere il suo rammarico alle autorità. Ha anche «protestato energicamente contro le nuove ondate di arresti di fedeli, addirittura di vescovi, nello stesso periodo in cui io mi trovavo in Cina». Ma non si è tirato indietro. Interessato specialmente alle persone, egli nota che, vivendo questo dramma dall’interno, ci si accorge che anche in Cina «si è ancora nella stagione evangelica in cui non si può separare il grano dal loglio. Tanto più che si tratta in fondo di una sola Chiesa. In cui la fede comune cerca, a poco a poco, di superare ciò che fino a questo momento separa sfortunatamente “clandestini” da “ufficiali”. Il tempo in realtà rende le frontiere tra cattolici “clandestini” e “ufficiali” sempre più porose, almeno in certe regioni di questo immenso Paese dove tutto è mobile».
Aloysius Jin Luxian, vescovo di Shanghai

Aloysius Jin Luxian, vescovo di Shanghai

Racconta il cardinale: «Il momento più toccante del mio viaggio in Cina è stato il mio pellegrinaggio a Nostra Signora di Sheshan, su una collina a 40 chilometri da Shanghai», un santuario mariano amato e frequentato, specialmente in maggio e ottobre, da tutti i cattolici senza distinzione. «Celebrandovi la prima messa officiata pubblicamente in tutta la Cina, dalla rivoluzione del 1949, da un cardinale venuto da Roma, misuravo fino alle lacrime la tenerezza di Colei che è invocata appunto sotto il nome di Nostra Madre Misericordiosa».
Una tappa significativa, e per certi aspetti controversa, del suo viaggio è stata la visita al seminario nazionale di Pechino, dove ha potuto parlare a lungo con l’ottantina di seminaristi che da pochi mesi occupano una nuova, spaziosa sede a sud-ovest della capitale. Ha potuto tenere una lunga conversazione anche nel seminario regionale di Shanghai, situato sul pendio della collina di Sheshan, che conta oltre 120 alunni. «Che fervore di dialogo», annota il cardinale, «con quei giovani avidi di Vangelo e appassionati del Papa, che saranno la forza motrice di una Chiesa unita e al servizio del popolo cinese. Il grosso problema, di cui i responsabili sono ben coscienti, è quello della formazione dei formatori, come mi ha detto, a Shanghai, il vescovo ufficiale Jin Luxian… Ascoltando quei giovani, ho pensato molto ai seminaristi clandestini, che non possono beneficiare degli stessi mezzi di formazione».
Richiesto di un commento sul ruolo del Papa nella vita della Chiesa in Cina, il cardinale si è detto gioioso di averlo potuto constatare, qui più che altrove, come fermento e garante di una fede veramente cattolica: «E ciò rende ancora più insopportabili le divisioni che vengono da tragiche e complesse contingenze della storia». E commentava: «Il fatto che io abbia riconosciuto la fedeltà al Papa di cattolici della Chiesa ufficiale, non può per niente diminuire il mio riconoscimento dell’eroica fedeltà della Chiesa del silenzio. Gli uni e gli altri vivono dolorosamente nella carne e nello spirito, ma in modo diverso, il rapporto fede e storia, sempre fragile e da verificare sempre, in verità». Ricordando che la storia della Chiesa, attraverso i secoli, è illustrata con le sue ombre e le sue luci dalle parole di Gesù: «Date a Dio quel che è di Dio e a Cesare quel che è di Cesare», egli non esitava ad affermare: «È malsano lasciare affondare dei cattolici nella clandestinità, o farveli affondare, per motivi non religiosi, mentre molti di essi aspirano ad essere riconosciuti come veri patrioti».
Riferendosi alla controversia sulle ordinazioni episcopali, il cardinale Etchegaray osservava che si tratta di un punto cruciale per la Chiesa e per lo Stato, che non può essere né evitato né risolto agevolmente date le divergenze dei punti di vista. La recente moltiplicazione di ordinazioni senza il consenso del Papa costituisce «un fatto molto grave che tocca l’ecclesiologia. Se si ripete, rischia di compromettere il riavvicinamento tra cattolici. Ho avuto l’occasione di dirlo molto chiaramente ai vescovi ufficiali di Pechino e di Nanchino». Ma anche qui, «la storia mostra che soluzioni ragionevoli possono essere trovate sotto tutti i climi politici».
Nei giorni della visita del cardinale in Cina diveniva rovente un’altra controversia, certo imprevista nell’intensità e asprezza di toni che ha assunto, quella dell’imminente canonizzazione dei 120 martiri della Cina. Quest’ultimo incidente di percorso la dice lunga, notava con amarezza il porporato, sulla distanza che separa l’Oriente dall’Occidente. Particolarmente spiacevole è risultata la coincidenza con la data della festa nazionale della Repubblica Popolare Cinese: «Quelli che hanno scelto il 1º ottobre hanno pensato solo a santa Teresa del Bambino Gesù, patrona delle missioni, ma sono sicuro che nella scelta non vi è stata né provocazione né rivincita. Giovanni Paolo II, grande amico della Cina, non si abbassa a calcoli così meschini».
In questo clima non proprio sereno, acquista un particolare significato il fatto che, appena finito il simposio con l’Accademia, il cardinale sia stato ospite per due giorni nella Diaoyutai State Guest House e che sia stato ricevuto nella residenza esclusiva dei dirigenti del governo e del partito a Zhongnanhai dal consigliere di Stato e vice primo ministro Ismail Aimati per un incontro, caratterizzato dalla cordialità pur nella differenza delle rispettive posizioni. Seguito da un lungo e illuminante dialogo con il direttore generale dell’Ufficio affari religiosi sotto il Consiglio di Stato, signor Ye Xiaowen. Inoltre, al cardinale è stata data l’opportunità di incontrare ancora (come già era avvenuto nel lontano 1980) i rappresentanti delle 5 religioni riconosciute dallo Stato, una quarantina in tutto, presso la sede della Conferenza politica consultiva del popolo cinese.
È legittimo vedere nel viaggio del cardinale Etchegaray, pur nell’intrecciarsi di questi segni contraddittori, un motivo di speranza. La possibilità di dialogo sembra rimanere aperta, e la via privilegiata è ancora oggi quella percorsa dal padre Matteo Ricci (conosciuto in Cina come “Li Matou”), per il quale il cardinale Etchegaray auspica che proceda speditamente la causa di beatificazione, già completata a livello diocesano. L’atteggiamento di rispetto, stima e dialogo sincero del grande missionario che nei secoli XVI-XVII ha saputo conquistare il cuore di tanti cinesi anche intellettuali, non mancherà di ottenere effetti positivi anche in futuro.


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