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MARTIRI CINESI
tratto dal n. 09 - 2000

L’inermità dei martiri di fronte ai giochi delle potenze occidentali


L’intreccio tra attività missionaria e interessi coloniali, che oggi Pechino rinfaccia a Roma, era ben presente alla Sede apostolica. Tanto che Benedetto XV, nell’enciclica missionaria Maximum illud del 1919, condanna come «tremendo flagello» per l’apostolato missionario «un indiscreto zelo per lo sviluppo della potenza del proprio Paese»


di Gianni Valente


Agostino Zhao morì di stenti e torture in prigione, nei primi mesi del 1815. Era stato arrestato mentre andava di villaggio in villaggio, portando ai cristiani il conforto dei sacramenti, in quel tempo in cui l’imperatore di turno aveva condannato a morte tutti i cinesi avvinti della fede cristiana, quella fede «che rende dementi gli uomini». Si salvava solo chi faceva apostasia, calpestando la croce.
Don Luigi Versiglia, salesiano, mentre insegna catechismo nella sua missione di Canton. 
È uno dei martiri uccisi prima degli anni Venti canonizzati il 1° ottobre

Don Luigi Versiglia, salesiano, mentre insegna catechismo nella sua missione di Canton. È uno dei martiri uccisi prima degli anni Venti canonizzati il 1° ottobre

Marta Wang era una vedova che sapeva cucinare, e si era fatta battezzare. Le toccò in sorte di fare la cuoca al seminario di Quingyan, nella provincia del Guizhou. Quando vennero ad arrestare i seminaristi, presero anche lei. Le tagliarono la testa il 29 luglio 1861.
François Regis Clet, prete di Grenoble, era dovuto scappare dalla Francia della grande Rivoluzione. Per trent’anni aveva girato in lungo e in largo le sterminate province della Cina centrale, battezzando, predicando, confessando. Poi di nuovo era ritornato ad essere un fuggitivo. Si era dato alla macchia, finché non lo aveva tradito un altro cristiano. Gli aguzzini, prima di strangolarlo, lo torturarono per giorni, tenendolo in ginocchio su delle punte di ferro.
Invece Giovanni Wang era un ragazzino della provincia dello Shanxi, ma a sedici anni aveva già visto Parigi. I francescani lo avevano portato in giro per l’Europa nel 1898. Al padiglione missionario dell’Esposizione internazionale, a Torino, il seminarista bambino dagli occhi a mandorla era quasi diventato una celebrità. Il 9 luglio del 1900 stava giocando con gli altri ragazzini nel cortile del seminario, quando le bande guidate dai Boxer fecero scempio di lui e dei suoi amici.
Le storie dei 120 beati, 87 cinesi e 33 stranieri, martirizzati tra il 1648 e il 1930 che Giovanni Paolo II ha elevato alla gloria dell’altare domenica 1° ottobre in piazza San Pietro, sono tutte più o meno così. Povere stoffe umane attraversate dalla filigrana del martirio, il filo d’oro più lucente che da duemila anni brilla dentro l’ordito dell’avventura cristiana. Eppure, proprio intorno a queste vite di poveretti, per la maggior parte analfabeti, ammazzati nella totale inermità, è esplosa l’ultima, clamorosa guerra tra la Cina popolare e il Vaticano. Con il governo di Pechino che attacca la canonizzazione come un’operazione politica, un complotto anticinese per santificare missionari e sacerdoti che in realtà erano agenti del colonialismo occidentale, autori di “efferati delitti” contro il popolo cinese, e per infangare la gloriosa rivolta antimperialista dei Boxer, la sollevazione xenofoba in cui furono uccisi 87 dei 120 nuovi martiri. «La canonizzazione distorce e calpesta la storia, vuole abbellire l’imperialismo, è una calunnia contro il popolo cinese» ha detto a pochi giorni dalla celebrazione il portavoce del Ministero degli Esteri di Pechino, aggiungendo con tono minaccioso che dopo tale “provocazione” la Cina «non potrà far finta di nulla». Gli organismi della Chiesa riconosciuta dal governo si sono subito dovuti allineare alle parole d’ordine, esprimendo la propria «indignazione» per le «inaccettabili canonizzazioni». Nel linguaggio dei simboli, anche la data scelta per la canonizzazione, in coincidenza con la festa nazionale della Cina popolare, è stata letta nell’ex Celeste Impero come una beffa ordita dagli strateghi vaticani «per umiliare il popolo cinese».
Frasari che sembrano usciti da un’altra epoca. Un rigurgito di guerra ideologica che pare seppellire in un momento tutti i voti di una normalizzazione dei rapporti tra Pechino e Vaticano che avrebbe effetti benefici sulla situazione travagliata della Chiesa di Cina. «Il Vaticano dovrà pagare un prezzo altissimo per riconquistare il terreno perso con questa scelta» ha sentenziato Ren Yan Li, direttore dell’Istituto di ricerche sul cristianesimo dell’Accademia delle scienze sociali. «Per vent’anni abbiamo lavorato per cercare di riabilitare il cristianesimo, che in Cina ha sempre avuto un connotato imperialista e colonialista, ora tutto è andato in fumo».
Eppure, già più di quattro anni fa un missionario francese giustiziato in terra cinese aveva preceduto i suoi compagni martiri nella gloria degli altari. Il lazzarista Jean Gabriel Perboyre, ucciso nella persecuzione anticristiana del 1840, era stato canonizzato da Giovanni Paolo II il 2 giugno del ’96. Allora, di là dalla Grande Muraglia, nessuno aveva protestato. Semmai, qualche mugugno era arrivato da Taiwan, l’altra Cina.

Pressing taiwanese
Joseph Wang Yu-jung, vescovo di T’ai-chung, sorride. «Non è vero, come è stato detto, che protestammo quando fu fatto santo Perboyre. Eravamo contenti, ma certo ci sarebbe piaciuto che il primo santo di Cina fosse un cinese». In quell’occasione, si tentò in extremis di riagganciare Perboyre mentre era in fuga solitaria verso gli altari. I vescovi taiwanesi fecero arrivare in Vaticano un memorandum, in cui chiedevano di aggregare a quella del lazzarista francese le canonizzazioni degli altri martiri cinesi. Ma oramai mancavano i tempi tecnici. L’episodio finì comunque per ravvivare il pressing dei vescovi taiwanesi per stringere i tempi. «Già dall’84» racconta Wang «avevamo dato vita ad una commissione episcopale per sostenere la canonizzazione dei martiri cinesi. Ma la Segreteria di Stato, in quegli anni, ci diceva di aspettare, che i tempi non erano maturi». Subito dopo la canonizzazione di Perboyre, le premure diplomatiche cedettero il passo. La commissione della Chiesa di Taiwan divenne il centro propulsore impegnato a pieno ritmo a favore di una canonizzazione “rapida”. Ricorda Wang: «Abbiamo iniziato traducendo le vite dei martiri in varie lingue, compreso il polacco». Anche il Papa, già nell’omelia per la canonizzazione di Perboyre, diede segnale verde, accennando agli altri martiri cinesi «la cui canonizzazione comune, attesa da numerosi fedeli, potrà un giorno essere un segno di speranza per la Chiesa presente in mezzo a questo popolo». Durante il processo canonico, la Sede apostolica ha concesso generosamente alcune deroghe, vista la difficoltà di compiere ricerche approfondite nella Cina continentale. «Ad esempio» dice il vescovo di T’ai-chung «non abbiamo allegato nel materiale per le canonizzazioni le pur tante notizie di miracoli e di grazie ricevute. Non era possibile verificarle, non potendo compiere indagini medico-scientifiche approfondite all’interno della Repubblica Popolare».
In tempi più tranquilli, quando non era ancora nota la decisione vaticana di procedere alla solenne canonizzazione collettiva, anche nella Cina popolare si poteva parlare dei martiri cinesi senza rischiare l’accusa di complotto col nemico della patria. Nel dicembre del 1999 Petrus Fan Wenxing, vescovo di Hengshui riconosciuto dal governo, nella provincia dell’Hubei, aveva raccontato sul bollettino Église d’Asie la sua devozione per loro. «Prego ogni giorno questi martiri» aveva detto, aggiungendo che i suoi preferiti erano quattro martiri uccisi dalla persecuzione dei Boxer. Il giornale cattolico La fede, di Shijiazhuang, distribuito nelle parrocchie della Chiesa ufficiale, aveva addirittura iniziato una serie sulle biografie dei martiri, lamentando che i cattolici cinesi si ostinano a far battezzare i propri figli con i nomi dei santi “occidentali”, invece di chiamarli come i cinesi già beatificati per il loro martirio. «Infatti» conferma il vescovo Wang «le petizioni per la canonizzazione sono state sottoscritte anche da quaranta vescovi della Cina continentale, compresi tre o quattro appartenenti alla Chiesa riconosciuta dal governo».
Vescovi e religiosi uccisi nel luglio del 1900, 
canonizzati da Giovanni Paolo II

Vescovi e religiosi uccisi nel luglio del 1900, canonizzati da Giovanni Paolo II

Nondimeno, proprio l’attivismo taiwanese intorno alla canonizzazione è la prima causa dichiarata dell’irritazione di Pechino. Quello vaticano rimane il riconoscimento diplomatico più prestigioso del governo di Taipei, che non ha rapporti diplomatici di alto livello con nessun Paese di rilievo geopolitico. E la Cina popolare da sempre pone tra le condizioni per riaprire il dialogo con la diplomazia papale la rottura delle relazioni diplomatiche tra il Vaticano e quella che Pechino definisce una provincia ribelle. Ma alla messa di canonizzazione, l’ambasciatore di Taiwan presso la Santa Sede, Raymond Tai, era in prima fila. E la commissione episcopale taiwanese sui martiri cinesi potrebbe avviare nuove iniziative destinate fatalmente a far incollerire i funzionari di Pechino. Confida monsignor Wang: «Abbiamo già portato a Roma un cd-rom in cui sono raccolte le storie di 999 cristiani morti per le persecuzioni avvenute nella Cina comunista».
Era l’11 febbraio ’99 quando il segretario di Stato vaticano, cardinale Angelo Sodano, si dichiarò pronto a trasferire la sede diplomatica vaticana da Taipei a Pechino «non domani, ma stasera stessa, se le autorità cinesi lo permettono», mandando in fibrillazione i funzionari della Cina più piccola. Anche questo, adesso, sembra lontano.

La croce e i cannoni
Al tempo dei Boxer i membri della setta scatenavano i pogrom anticristiani diffondendo ad arte storie di suore fattucchiere, sacerdoti collezionisti di occhi strappati ai bambini, missionari untori. Nei giorni precedenti le canonizzazioni, gli organi di propaganda di Pechino hanno rispolverato il vecchio armamentario sugli “efferati crimini” commessi dai martiri cinesi canonizzandi. Un sito internet collegato all’agenzia ufficiale Nuova Cina li ha descritti come un manipolo di sanguinari, spacciatori di oppio, stupratori dediti alla pratica dello ius primae noctis con le sposine dei villaggi.
Un rigurgito di infamie spedite in ritardo al mittente sbagliato. Tutta la storiografia cattolica, infatti, riconosce senza censure che a partire dall’Ottocento e fino ai primi anni del Novecento il fervore apostolico in Cina ebbe a che fare con le strategie imperialiste dei Paesi occidentali, intenti a spartirsi il bottino di un Impero al collasso. Quando Inghilterra, Stati Uniti e Francia imposero al “Regno di Mezzo” gli ignobili “trattati ineguali” che inauguravano la penetrazione coloniale, in tutti e tre i casi a fare da interpreti per i nuovi conquistadores al tavolo delle trattative c’erano dei missionari. Nel 1902, nelle conclusioni di un’opera monumentale sulle missioni, l’accademico di Francia Fernand Brunetière poteva scrivere ancora: «In Estremo Oriente i missionari sono i migliori informatori e gli agenti più sicuri dei nostri diplomatici».
In quel frangente storico, i trattati sempre più umilianti imposti alla Cina a colpi di cannone includevano anche privilegi e garanzie sempre più larghi per l’attività missionaria. Le congregazioni religiose dei vari Paesi, ovviamente, ne approfittavano. Ma già allora i missionari e gli uomini di Chiesa più accorti non mancavano di denunciare quanto alla lunga fosse soffocante, per l’azione apostolica, la stretta delle potenze imperialiste. Celso Costantini, che nel 1922 diventerà il primo delegato pontificio in Cina, già nel 1920 tracciava un crudo bilancio dei decenni in cui la missione era divenuta per le potenze mondane una strumento di espansione coloniale: «I cinesi subirono la formidabile serie di perdite e di umiliazioni per opera delle missioni cristiane, e videro le missioni strettamente connesse con la politica aggressiva delle nazioni estere... I ministri degli Esteri, talvolta ebrei o atei, trattavano gli affari delle missioni e ne difendevano gli interessi in virga ferrea. Avvenne che governi europei cacciavano i religiosi dal proprio Paese, negando loro il diritto comune a tutti i cittadini, ma furono estremamente solleciti di proteggerli nelle missioni in Cina. Se si toccava un missionario nell’interno della Cina, dietro il missionario si profilava subito la figura del console e, in lontananza, quella del ministro estero a Pechino. Se veniva inferto qualche danno alle missioni o veniva ucciso un missionario, si obbligava la Cina a versare indennità. I giudici cinesi, quando dovevano trattare cause di cristiani, paventavano l’intervento del missionario. Per virtù dei trattati imposti alla Cina con la forza, e specialmente per l’esenzione degli stranieri dalla giurisdizione cinese, le missioni finivano col costituire un imperium in imperio».
L’intreccio tra attività missionaria e interessi coloniali che oggi Pechino continua a rinfacciare al Vaticano, era dunque ben presente allo sguardo dei missionari e della Sede apostolica già in tempi molto lontani. Nei primi decenni del secolo, l’azione della Santa Sede riguardo alla Cina è tutta segnata dalla paziente e ferma battaglia per emanciparsi dall’asfissiante tutela delle potenze occidentali. Che, dal canto loro, sabotano, fin dove è possibile, i tentativi di instaurare un rapporto diretto e senza mediazioni tra Sede apostolica e Celeste Impero, proprio per continuare a sfruttare il patronato sulle missioni cinesi come strumento di penetrazione coloniale. Benedetto XV, nell’enciclica missionaria Maximum illud, del 30 novembre 1919, condanna come «tremendo flagello» per l’apostolato missionario «un indiscreto zelo per lo sviluppo della potenza del proprio Paese». Ribadendo che i missionari devono curare «gli interessi di Cristo e in alcun modo gli interessi del proprio Paese». Non si tratta solo di tattiche ecclesial-diplomatiche, né di buone intenzioni. In gioco, allora come oggi, c’era ben altro. La Segreteria di Stato, in una nota del 25 febbraio 1924, ribadisce che in Cina «non bisogna esigere indennità per l’uccisione di un missionario, dato che è estraneo allo spirito della Chiesa chiedere dei compensi pecuniari per il sangue dei martiri».
Il cristianesimo germoglia tra le vicende del mondo solo per l’attrattiva della grazia della cui corrispondenza al cuore il martirio è la testimonianza pubblica più evidente. Lo sanno bene, ormai dal Paradiso, anche i martiri cinesi.


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