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MEETING DI RIMINI
tratto dal n. 09 - 2000

Note per un bilancio

Lo sguardo cristiano simpatizza per l’uomo


A proposito delle accuse di revisionismo storico: i cattolici non possono vivere per dimostrare che «avevano ragione». Per testimoniare Cristo a tutti sono disposti anche ad accollarsi torti non commessi perché possano venir meno pregiudizi ideologici


di Antonio Socci


Romano Guardini affermava che il mondo moderno ha «una profonda slealtà nei confronti del cristianesimo». Il dogmatismo laicista è un atteggiamento diffuso e negli ultimi mesi tanti articoli che hanno riempito le pagine dei giornali sui fatti della Chiesa appaiono viziati da questo «pregiudizio universale».
Il Meeting di Rimini è stato uno dei fatti che ha scatenato più reazioni di questo genere. Ma proprio perché dilaga questo bigottismo, credo sia prezioso ascoltare quelle (poche) voci laiche che senza pregiudizi formulavano rilievi critici, anche duri, amari.
Il Meeting di Rimini di quest’anno, 
dal titolo 2000 anni: un ideale senza fine

Il Meeting di Rimini di quest’anno, dal titolo 2000 anni: un ideale senza fine

Giuliano Ferrara – per esempio – ha scritto un editoriale sul Foglio (23 agosto) pieno di stima e di ammirazione per «i fratelli ciellini», perfino pieno di affetto («quello di cielle è un popolo che si fa amare dalle persone libere»), tuttavia – proprio per questa stima – non ha voluto tacere le sue perplessità.
Perplessità sul Meeting di quest’anno («effetto paccottiglia», «il mercato delle pulci»), ma con l’intuizione di qualcosa di più profondo e per noi (mi metto fra i destinatari delle critiche) più doloroso: «Un certo pericoloso innalzamento della curva dell’umiltà, un sentimento di vittoria sbandierato con strafottenza». Giudizi duri, senza dubbio, ma dettati dal positivo stupore visto che, subito dopo, Ferrara invitava a ritrovare «il tocco spontaneo e ribaldo dei primi tempi» e «il racconto dell’Incarnazione che è il sale di cielle», cioè una centratura sull’essenziale che forse al Meeting non è stata così evidente, nonostante fosse il tema stesso di quest’anno.
Sia chiaro, il Meeting è stato, anche stavolta, un commovente appuntamento. Innanzitutto per quello spettacolo che sono i volti dei tanti giovani e meno giovani che lo frequentano o che lo costruiscono materialmente regalando settimane di lavoro e di fatica. Anche la trama degli incontri politici, da Silvio Berlusconi a Romano Prodi, racconta di una sincera apertura, di un desiderio di comprensione con tutti.
L’appuntamento con il senatore Andreotti poi anche quest’anno ha spalancato l’orizzonte sul Mediterraneo e sul mondo, come un tentativo di abbraccio e di condivisione delle vicende di tutti gli uomini e del loro desiderio di pace. Com’è tradizione di un Meeting che si definisce «per l’amicizia fra i popoli».
Credo che la gente del Meeting abbia imparato questo sguardo da don Luigi Giussani. Mi ha sempre colpito che per lui il «racconto dell’Incarnazione» sappia incontrare e abbracciare la storia e la vicenda di ciascuno, al di là delle bardature ideologiche. Una volta rievocò come quel «racconto» lo raggiunse nella sua giovinezza. Quando don Gaetano Corti – il suo professore – gli parlò di Gesù Cristo come «la giustizia, la verità, la bellezza che si è fatta carne».
«Nel mio animo di sedicenne, sufficientemente assetato di queste parole» dice Giussani «fu un’illuminazione improvvisa. Non ricordo nell’intera mia vita un momento più decisivo. Con stupore mi ritrovai così a scoprire i nessi fra quell’annuncio e tutte le cose; ad esempio il nesso con la passione che nutrivo per la poesia di Giacomo Leopardi… Tornavo continuamente a ripetermi il canto Alla sua donna – che è un inno alla bellezza – intuendovi la profezia (perché in un non credente lo stato d’animo è come quello di un uomo prima di Cristo) di quello che il Signore aveva già compiuto: in fondo l’aspirazione di Leopardi era di vedere con gli occhi e toccare con le mani la Bellezza fatta carne… Ricordo che su un’immaginetta di Cristo del Carracci, posta davanti al mio tavolo di studio, avevo scritto una frase di Moehler, grande teologo tedesco dell’Ottocento: “Io penso che non potrei più vivere se non Lo sentissi più parlare”. Gli anni successivi non fecero che approfondire e dilatare questa persuasione».
Mi ha sempre colpito questo sguardo pieno di simpatia e compassione per gli esseri umani, mendicanti della felicità, cioè di Dio fatto uomo, al di là delle ideologie che professano. Non ho titoli per dar lezioni, sono davvero l’ultimo arrivato alla scuola di Giussani, ma mi pare eccezionale che egli abbia iniziato ciò che poi si sarebbe chiamato Comunione e liberazione con le domande del pastore errante di Leopardi. A pensarci c’è da trasecolare. Il poeta più nichilista della letteratura italiana, quello che si dichiarava ateo e materialista, è la passione di un grande della Chiesa di oggi. Com’è possibile?
Giussani non contrappone all’ideologia di Leopardi un’ideologia cattolica, ma coglie sotto l’ideologia che il poeta professava la domanda del suo cuore: il desiderio che qualcosa accada che faccia fiorire la promessa della vita. Come accadde duemila anni fa a Giovanni e Andrea, alle quattro di un pomeriggio dell’anno 28, sulle rive affollate del fiume Giordano. Ricordo che una delle tante volte che Giussani rievocò quell’incontro di Giovanni e Andrea, lo fece in un modo tale che tutti coloro che lo ascoltavano erano commossi, sentendo che di loro stessi si parlava. E Giussani concluse: «La lotta col nichilismo, contro il nichilismo, è questa commozione vissuta» (questa conversazione è riportata in Il tempo e il tempio, pp. 39-74).
Mi sembra un’intuizione straordinaria. Perché tutti nella Chiesa individuano nel nichilismo l’ideologia dilagante, l’avversario, e molti pensano che lo si debba affrontare con un castello di granitiche certezze teologiche, altri con uno straordinario sforzo attivistico per mostrare che la Chiesa è la sola che resiste, altri ancora con una sottolineatura dei punti morali più sottoposti all’attacco.
Non voglio farla lunga, ma mi colpisce che Giussani indichi un’altra via: la commozione del cuore per l’incontro con Cristo presente, per l’incontro con la sua misericordia. E quindi la compassione per i tentativi o gli smarrimenti (nichilisti) di tutti gli uomini che non hanno la grazia di quell’incontro nel presente.
Basterebbe vedere gli autori che Giussani cita. Pavese per esempio. Tracce, la rivista di Cl, e 30Giorni, hanno dedicato bellissimi inserti all’anniversario della sua morte. Il Meeting purtroppo no. Eppure sarebbe stato più interessante di De Maistre, un autore reazionario che non ha nulla a che spartire con questo sguardo cristiano. È stata una fortuna che alla presentazione riminese del libro di De Maistre – la cui dottrina è più gnostica che cattolica – Andreotti abbia ironizzato sul pensatore savoiardo, utilizzando una sua frase: «Quando la cazzuola pensa di essere architetto».
Pigi Battista – sulla Stampa – ha bacchettato il pubblico del Meeting per aver prima invitato e poi fischiato il ministro Veronesi, invece di «ascoltare» e confrontarsi. Ma nella critica c’era un riconoscimento importante: che dal «fondamentalismo ululante, Cl, malgrado il parere dei suoi avversari più feroci, è stata finora lontana».
Infatti le iniziative fondamentaliste che hanno scatenato polemiche – sebbene ospitate dal Meeting – nascevano da gruppi tradizionalisti e reazionari. Personalmente li rispetto, ma il loro è un cattolicesimo fatto di crociate ideologiche, di battaglie di principio, che finisce per fare un simbolo del brigante Tata Maccarone «che rispetta ’a religgione».
Peraltro Indro Montanelli ha ricordato che gli stessi laici da tempo hanno preso le distanze dalla favoletta epica del Risorgimento. Più volte un laico come Paolo Mieli, su un giornale come La Stampa di Torino, ha «rivisitato» il Risorgimento riscoprendo le ragioni della Chiesa. Forse si poteva invitare Mieli e Montanelli al Meeting. Questa attenzione al presente e questa propensione all’incontro con persone reali, anziché allo scontro con ideologie, sarebbe stata molto «ciellina».
Oltretutto la guerra ai fantasmi intrapresa dai cattolico-reazionari è riuscita a far riesumare lo spettro dell’anticlericalismo di cui proprio non si sentiva la mancanza. Mi chiedo che senso hanno poi le crociate ideologiche dopo che si sono applauditi i «mea culpa» papali? Personalmente ne ho capito anch’io la grandezza quando lessi un articolo di Giussani su la Repubblica: «È dunque per affermare una positività, la positività di Cristo presente nella storia e vincitore che l’uomo chiede perdono. Ed è perché questa positività sia per tutto il mondo che il Papa si mette in ginocchio, addossandosi le colpe di tutti e di ciascuno… A nulla fuorché a Gesù il cristiano è attaccato».
Giovanni Paolo II, pochi giorni dopo, a Betlemme, sulla piazza della Natività, usava quasi parole identiche: «Qui l’eterno è entrato nella storia e rimane con noi per sempre. Questo bambino è l’intera ricchezza del mondo. Egli è il nostro tutto!».
Significa la fine delle crociate ideologiche. Così ho capito che i cattolici non possono vivere per dimostrare che «avevano ragione», ma sono disposti anche ad accollarsi torti non commessi pur di eliminare i pregiudizi ideologici e annunciare Colui che «è il nostro tutto». E quindi innanzitutto la nostra misericordia. È un’umile certezza che mi commuove, che vedo in tanti volti di miei amici ciellini.


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