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ECUMENISMO
tratto dal n. 09 - 2000

Alcune riflessioni sulla Dichiarazione Dominus Iesus

Possibilità di salvezza per tutti nel modo che Dio conosce



di Lorenzo Cappelletti


Non è nostra intenzione offrire né una sintesi né un commento della dichiarazione Dominus Iesus, e tantomeno una sua interpretazione. Con ben altra autorità l’interpretazione autentica del documento è già stata offerta, all’atto della sua presentazione il 5 settembre scorso, dallo stesso prefetto della Congregazione per la dottrina della fede cardinale Ratzinger e dal segretario della medesima Congregazione monsignor Bertone, che ne ha precisato valore e grado di autorità. Nostro intento è solo di offrire qualche spunto di riflessione a partire dalle reazioni critiche suscitate sulla stampa dalla Dichiarazione.


L’incontro di Gesù con il centurione (XVI secolo), Veronese, Museo del Prado, Madrid

L’incontro di Gesù con il centurione (XVI secolo), Veronese, Museo del Prado, Madrid

«Si vuole riportare la Chiesa cattolica a Pio IX e al primo Concilio Vaticano» ha denunciato Hans Küng all’indomani della presentazione della Dichiarazione. E c’è stato anche chi, come Giancarlo Zizola sul Sole-24Ore, ha lasciato intendere che la Dominus Iesus abbia addirittura smentito innovazioni dottrinali appoggiate dal Papa: «Le posizioni sostenute dal documento della Congregazione per la dottrina [...] sembrano lasciare prive di sostanziali coperture, e dunque splendide nella loro solitudine, le innovazioni dottrinali appoggiate formalmente dal Papa». È lo stillicidio solito, ma non per questo meno efficace – gutta cavat lapidem –, di timori e scongiuri di fronte a un supposto ritorno a posizioni preconciliari. Si dice in sostanza: non è lecito ritornare alla dottrina precedente dopo le innovazioni introdotte dal Concilio Vaticano II (e ancora più audacemente da Giovanni Paolo II) nella dottrina della unicità e universalità salvifica di Cristo e della Chiesa.
Prima di dibattere, però, se sia lecito o meno il ritorno a Pio IX logica vuole che ci si chieda se Pio IX in questa questione sia davvero rétro.
Monsignor Gérard Philips, autore della più autorevole esegesi della Lumen gentium (L’Église et son mystère, del 1967-68, che citeremo dalla traduzione in italiano della Jaca Book del 1975) commentando il numero 14 di essa, che tratta ex professo del nostro argomento, scriveva: «Certuni pensano che la Chiesa romana, che continua a considerarsi come la sola vera Chiesa, abbia però praticamente abbandonato il suo preteso monopolio di condurre gli uomini alla salvezza. Una tale asserzione non è esatta né dal punto di vista teologico né da quello storico» (p. 169).
Da una parte, infatti, Philips dimostra (servendosi probabilmente di un lavoro precedente di Hugo Rahner) che il principio, che in prosieguo di tempo sarebbe stato espresso icasticamente con le parole extra Ecclesiam nulla salus (nessuna salvezza fuori della Chiesa), vigeva fin dall’antichità presso tutti i Padri. Da Ireneo a Cipriano, da Girolamo ad Agostino non c’è chi non lo abbia fatto proprio. Dall’altra, avverte che i Padri non intendono riferirsi «al fedele isolato che s’inganna in buona fede; quando questo si presenta, è oggetto della loro misericordia» (p. 172). Gli fa eco Henri de Lubac (in un testo dello stesso 1967, Paradoxe et mystère de l’Église): «Il celebre assioma extra Ecclesiam nulla salus non ebbe in origine presso i Padri della Chiesa quel senso generale che molti oggi pretendono; esso riguardava, in situazioni molto concrete, fautori di scismi, ribellioni, tradimenti» (pp. 152-153).
Con questa intenzione, l’assioma sarà ripreso, in formulazioni conciliari e dogmatiche, dal Medioevo fino a Pio IX...

LA DISTINZIONE INTRODOTTA DA PIO IX

«Per quanto possa a prima vista stupire, è soprattutto a Pio IX e poi a Pio XII che dobbiamo un allargamento di orizzonti. Dopo aver insistito ancora una volta sull’adagio “fuori della Chiesa nessuna salvezza”, Pio IX [nella enciclica del 1863 Quanto conficiamur moerore] considera la situazione dell’uomo vittima di una ignoranza invincibile riguardo alla Rivelazione e alla Chiesa. Poiché Dio vuole la salvezza di tutti, è evidente che un tale uomo, rispettoso della legge naturale scritta da Dio nel cuore di ciascuno, può arrivare alla vita eterna» (Philips, p. 174). Pio IX introduce così la distinzione fra «gli “eretici materiali”, vale a dire uomini che in buona fede aderiscono a tesi eterodosse» (Philips, p. 175) e gli eretici o scismatici formali, cioè i nemici dell’unità, «consapevoli di strappare la tunica inconsutile rifiutando di restare nell’unica Chiesa cattolica» (Philips, p. 174). Heinrich Denzinger, nella celeberrima raccolta che porta il suo nome, commenta così questo passo fatto da Pio IX nella Quanto conficiamur moerore (DS 2865-67): «È merito di Pio IX l’aver per primo introdotto esplicitamente questa distinzione nei documenti del Magistero».
Pio IX innovatore? Ebbene sì. Non c’è da meravigliarsi che dalla custodia del deposito scaturisca un vero progresso religioso. Sembra venire a proposito qui quel che scriveva nel 1930 Giovanni Battista Montini, quando, giovane tra i giovani, opponeva l’amore alla Tradizione e quindi il progresso religioso all’utopia: «Guardarsi bisogna dall’utopia che la verità cercata si raggiunga per rivoluzione, piuttosto che per rinnovazione, per un amore cioè che è fedele al passato in ciò che ebbe di buono, in ciò che di grande creò e ideò, e che perciò sa aggiungere, modificare, migliorare. [...] Il protestantesimo negò la Chiesa e negò la Tradizione. Negò quindi il progresso religioso: tornò alle origini e si fissò nella lettera: incapace di restarvi, s’abbandonò ad una nuova tradizione: quella del dubbio che distrugge la fede da esso tanto magnificata. Fu una tradizione a ritroso. La Chiesa invece custodì il dogma, linea indefettibile della sua strada attraverso la storia. Custodì, come dice un suo santo dottore, Ireneo, il “depositum iuvenescens et iuvenescere faciens ipsum vas in quo est”: il deposito sempre giovane che fa ringiovanire» (corsivi nostri).

PIO XII DIFENDE LADOTTRINATRADIZIONALE DAI RIGORISTI

Ma torniamo al nostro tema. Pio XII fece suo il progresso di Pio IX e distinse nella Mystici Corporis coloro che, «non appartenendo al visibile ordinamento della Chiesa» (ad adspectabilem non pertinent catholicae Ecclesiae compagem), pur tuttavia, «per un certo desiderio e un’aspirazione inconsci, sono orientati al mistico Corpo del Redentore» (inscio quodam desiderio ac voto ad mysticum Redemptoris Corpus ordinentur) da «quelli che si sono voluti separare o sono stati separati per colpe gravissime dalla compagine del Corpo» (a Corporis compage semetipsos misere separarunt vel ob gravissima admissa a legitima auctoritate seiuncti sunt): cosa che accade nel caso di scisma, eresia o apostasia (Mystici Corporis 102 e 20). Dunque, «quanto a quelli che sono nell’errore solo materialmente» commenta Philips «Pio XII è d’accordo che il loro votum basta per salvarli» (Philips, p. 178).
Pio XII d’altra parte tratta la condizione di coloro che in atto non appartengono alla Chiesa come una condizione storico-esistenziale, quindi precaria, non come un’ipostasi ovvero una condizione posta una volta per tutte. È per questo che, seguendo il commento di Agostino al Vangelo di Giovanni, tiene presente l’eventuale, sempre possibile dinamica d’ingresso nell’unico ovile di Cristo di chi non vi fa parte: «È assolutamente necessario che ciò sia fatto di libera e spontanea volontà, non potendo credere se non chi lo vuole. Se alcuni non credenti vengono di fatto forzati a entrare nell’edificio della Chiesa, ad appressarsi all’altare, a ricevere i sacramenti, costoro, senza alcun dubbio, non diventano veri cristiani, poiché la fede senza la quale è impossibile piacere a Dio deve essere libero “ossequio dell’intelletto e della volontà” (Concilio Vaticano I, De fide catholica 3). Se dunque dovesse talvolta accadere che, in contrasto con la costante dottrina di questa Sede apostolica (cfr. Leone XIII, Immortale Dei), taluno venga spinto suo malgrado ad abbracciare la fede cattolica, Noi non possiamo esimerci, per coscienza del nostro dovere, dall’esprimere la nostra riprovazione. E poiché gli uomini godono di libera volontà e possono anche, sotto l’impulso di perturbazioni d’animo e di perverse passioni, abusare della propria libertà, è perciò necessario che vengano attratti con efficacia alla verità dal Padre dei lumi per opera dello Spirito del suo diletto Figlio» (Mystici Corporis 103).
Non potendo «l’attrazione efficace» essere prodotta dall’uomo, Pio XII lega finalmente il destino di salvezza di coloro che sono lontani dalla verità cattolica alla preghiera, non solo loro propria ma pure di coloro che appartengono alla visibile compagine della Chiesa (e con ciò lega anche modo Deo cognito – dirà il Vaticano II – gli uni agli altri): «Se ancora molti, purtroppo, vagano lontani dalla cattolica verità e non piegano l’animo all’afflato della grazia divina, ciò avviene perché né essi né i fedeli cristiani innalzano a Dio più ferventi preghiere a tal fine. Noi quindi vivamente e insistentemente esortiamo tutti coloro che sentono amore per la Chiesa affinché, seguendo l’esempio del divino Redentore, non cessino mai di elevare tali suppliche» (Mystici Corporis 104).
Forse Pio XII era andato troppo avanti. E aveva irritato coloro che pensavano e pensano – contro Agostino che insegna che «non intratur in veritatem nisi per charitatem» (Contra Faustum 32, 18) – che per riconoscere salubriter (cfr. sempre Agostino, Sermone 68) la verità non ci sia bisogno di preghiera né di alcuna attrattiva di grazia. Infatti in contemporanea con l’uscita della Mystici Corporis si diffuse in alcuni centri di studio cattolici degli Stati Uniti un insegnamento «di una severità che nessun autore antico o medievale aveva mai sostenuto» (Philips, p. 174). Secondo tale insegnamento rigoristico i non cattolici, esclusi i catecumeni che hanno già espresso l’esplicito desiderio di entrare a far parte della Chiesa, sarebbero esclusi dalla salvezza eterna. Pertanto, in una lettera all’arcivescovo di Boston Richard J. Cushing dell’8 agosto 1949, il Sant’Uffizio ribadiva la dottrina della Mystici Corporis. Negando, da una parte, che ogni religione sia ugualmente (aequaliter) buona per salvarsi, e affermando, dall’altra, che in ordine alla salvezza eterna basta il voto implicito di aderire alla Chiesa.

IL CONCILIO VATICANO II

Il Concilio Vaticano II non ha operato cambiamenti in questa dottrina. Al limite si potrebbe affermare che, riferendo le affermazioni di Pio IX e di Pio XII a coloro che «si sforzano di compiere con le opere la volontà di Lui conosciuta attraverso il dettame della coscienza» (corsivo nostro), il numero 16 della Lumen gentium ha un po’ irrigidito i controlli alle frontiere. Forse è anche in relazione a tale volontarismo che l’allora professor Ratzinger scriveva nel 1969 che il desiderio implicito della Chiesa non può essere «identificato con una non ben precisata specie di buona fede e buona intenzione» (Il nuovo popolo di Dio, p. 380). Perché si finisce «poi facilmente nelle vicinanze di un pensiero pelagiano secondo il quale basterebbe in fondo la buona volontà dell’uomo per salvarlo» (ibidem).
Ma il medesimo Concilio Vaticano II, nella Gaudium et spes 22, ha fatto sua, peraltro, una più umile e aperta prospettiva, rimettendo unicamente a Dio di conoscere quale sia il modo di salvare coloro che non appartengono alla Chiesa: «Poiché Cristo, infatti, è morto per tutti e la vocazione ultima dell’uomo è realmente una sola, quella divina, dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo, nel modo che Dio conosce [modo Deo cognito], offra a tutti la possibilità [cunctis possibilitatem offerre] di essere associati al mistero pasquale». Ci piace riportare il commento (apparso su Nouvelle Revue Théologique del 1980) a questo passaggio di Gaudium et spes fatto da Pierre Eyt, allora rettore dell’Institut Catholique di Parigi: «Modo Deo cognito, ovvero in un modo su cui l’uomo non può pronunciarsi. Di conseguenza il cristiano non può far derivare dalla sua fede un qualsivoglia sapere o potere assegnando all’“altro” un posto determinato in una strategia di recupero ideologico e istituzionale. [...] Ponendosi sotto la “riserva” del mistero stesso di Dio la teologia cristiana non può che abbandonare qualunque pretesa di sapere e di imporre questo sapere qualunque esso sia». Nel De dono perseverantiae (6,12) Agostino, facendosi a sua volta discepolo di Cipriano, così che uno solo sia il Maestro, scriveva che siamo tutti più al sicuro se rimettiamo tutto nelle mani di Dio: «Tutiores vivimus si totum Deo damus».

POSTILLA

Ma riprendere in mano sant’Agostino in questa questione può aiutare anche a capire quale fosse e resti il centro della resistenza alla dottrina della unicità e universalità salvifica di Gesù Cristo e della sua Chiesa. E perché. Il giovane Ratzinger, in Volk und Haus Gottes in Augustins Lehre von der Kirche (citiamo dalla traduzione in italiano del 1971 Popolo e casa di Dio in Sant’Agostino), il suo primo libro, mostra che da sempre tale dottrina conosce una resistenza agguerrita presso quei «philosophi contra quorum calumnias defendimus civitatem Dei, hoc est eius Ecclesiam», come scriveva Agostino nel De civitate Dei XIII,16,1: «La purificazione dei cristiani non è un procedimento intellettuale, bensì si attua attraverso il sacramentum e la res in esso elargita; essa avviene come grazia dall’alto che prende l’uomo (cfr. Agostino, Commento al Vangelo di Giovanni 26, 4-9). La più elevata ascesa dell’uomo ora si compie non altrimenti che mediante la discesa di Dio. La colpa dei filosofi è non volersi inserire in quest’ordine. Poteva rappresentare un grave problema per Agostino mantenere l’esclusività della salvezza della Chiesa anche rispetto ai filosofi. Infatti essi erano in qualche maniera giunti alla meta in quanto avevano cognizione del Dio trino [scrive Ratzinger a p. 237 nota 2, basandosi su De civitate Dei 10, 23, che «Agostino attribuiva ai neoplatonici una piena conoscenza della Trinità»]. E l’incarnazione di Cristo e tutte le istituzioni salvifiche visibili erano solo mezzi per raggiungere tale meta (cfr. Agostino, Commento al Vangelo di Giovanni 13, 4: “Per Christum hominem ad Christum Deum”). Si poteva forse fare obiezione a chi raggiungeva la meta senza il mezzo? A chi aveva il cuore in alto anche senza i segni esterni della Chiesa? Sì! Perché se ai filosofi non manca l’elevazione del cuore, il sursum cor, manca però il gratias agere, la risposta adeguata a Dio. “Conoscendo Dio non gli hanno dato gloria e non gli hanno reso grazie” (Rm 1, 21)» (p. 222). Per Christum hominem ad Christum Deum. Da un grazie umano reso a una realtà umana dipende la salvezza divina. Quel primo libro di Ratzinger si apriva con un grazie ai genitori che, nel percorso ad Christum Deum, a tutti fanno fare il primo passo: Meinen Eltern in Dankbarkeit zugeeignet.


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