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GUATEMALA
tratto dal n. 05 - 2000

Quiché. La persecuzione dimenticata


Anni Ottanta: nella regione più povera del Guatemala un’intera diocesi cattolica viene annientata da un regime sanguinario. Sacerdoti, catechisti e migliaia di fedeli vengono massacrati come “sovversivi” e “comunisti” in nome della difesa della “civiltà occidentale cristiana”. Viaggio nei luoghi della grande persecuzione, tra storie di martirio e nuovi inizi di vita cristiana


di Gianni Valente


Il vescovo Julio Edgar Cabrera Ovalle durante una visita pastorale 
nella diocesi del Quiché

Il vescovo Julio Edgar Cabrera Ovalle durante una visita pastorale nella diocesi del Quiché

«Buenos días, monseñor». Tutta la comunità gli è venuta incontro lungo il sentiero polveroso, come si va incontro a un padre che si aspetta di abbracciare da tempo. E adesso gli anziani e i catechisti gli stringono la mano, gli appoggiano la testa sul petto, mentre le donne, vestite coi colori sgargianti del quetzal, l’uccello della giungla, lo cospargono di petali di fiori. I bambini – uno sciame – sventolano bandierine di carta su cui le brave suore hanno fatto disegnare loro il logo del Grande Giubileo, le cinque colombe stilizzate della diocesi globale. Così fuori luogo, così innaturali tra i colori maya di questa allegra processione, che si dirige verso la chiesetta bianca. Monseñor, il vescovo Julio Edgar Cabrera Ovalle, giunto fino qui alla guida della sua jeep, appare commosso, quasi imbarazzato da tanta devozione verso la sua persona. «La accetto» dice iniziando la messa «perché so che in questo modo volete dire che volete bene a Gesù».
Qui al cantón El Tabil, nella terra del Quiché, la regione più povera del Guatemala, a nord-ovest della capitale, quando viene il vescovo è giorno di festa grande. Nella chiesa addobbata di festoni colorati, i bambini li fanno sedere davanti all’altare, sulla terra coperta con fronde di palma. Ma anche gli anziani del villaggio sembrano degli scolaretti, mentre seguono la messa sprofondati nei banchetti della scuola elementare, disposti per l’occasione fuori dalla chiesa, davanti all’entrata, perché dentro non c’è più posto. Il Signore, raccontano le letture di questa domenica, lette in lingua k’iché, moltiplicava i miracoli tra gli apostoli. Nell’omelia, circondato dai catechisti, il vescovo riprende l’immagine: «Il Signore è venuto come medico a sanare le ferite, col suo perdono. E anche oggi semina di nuovo i miracoli, tra i suoi. Questo seme viene accolto e porta frutto in chi è semplice e ha cuore di povero». Dopo la messa, a piccoli gruppi, tutti si spargono per le balze intorno, e mangiano riso, fagioli e mais che escono fumanti da enormi pentoloni. Per il vescovo e per i suoi accompagnatori c’è anche un pezzo di pollo e un po’ di gazzosa, mentre nel bagagliaio della sua jeep vengono caricate spezie e pietanze, banane e uova, insieme a qualche gallina viva. Dopo gli abbracci e i saluti, mentre il fuoristrada ballonzola sulla via del ritorno, monseñor risponde con ampi gesti della mano ai saluti dei campesinos che si affacciano dalle soglie delle loro case, o dei bambini che giocano a mucchi ai bordi della strada: «Ogni volta che passo giornate come questa», mormora quasi sovrappensiero, «mi chiedo come è stato mai possibile. Già questa normalità mi sembra un miracolo».
Poco lontano da qui, nel novembre dell’82, giunse una pattuglia dell’esercito guatemalteco e convocò tutta la gente dei villaggi circostanti. Juanito, il vecchio catechista dagli occhi lucidi, più di settant’anni e dieci figli, ci ha raccontato a pranzo quella storia: «Il capitano ha letto i nomi di cinque nostri fratelli: Lucas, Justo, Ángel, Domingo e Juan. Erano cinque catechisti dell’Azione cattolica rurale, benvoluti da tutti. Avevano iniziato le cooperative agricole e i corsi di formazione sociale, e per questo erano visti dagli agenti del governo come un pericolo per la “sicurezza nazionale”. Il capitano ha detto: “Signori, questi uomini sono sovversivi e devono morire, perché non contagino gli altri. Però non li ammazzeremo noi. Dovete farlo voi, che siete i loro familiari. Se domani quest’ordine non sarà eseguito, torniamo con gli elicotteri e radiamo al suolo tutti i villaggi”. Un silenzio di morte scese sulla gente, quando i militari furono partiti sulle camionette. Poi tutti cominciarono a dire che non avrebbero eseguito mai quell’ordine atroce. Sono stati i cinque condannati a convincerli. Dicevano: “È meglio che moriamo noi, piuttosto che muoiano mille persone, compresi i nostri figli e le nostre mogli”». Erano le quattro del pomeriggio, quando la folla cominciò a muoversi verso il cimitero. In testa alla processione, i cinque catechisti. Scavarono le fosse, poi tutta la gente si dispose intorno. Ricorda Juanito: «Uno di loro ha recitato il Padre nostro, insieme a tutto il popolo. Un altro ha detto: “Non abbiate pena della nostra morte, perché siamo certi di non aver commesso alcun delitto. Ci rivedremo in cielo. Vi chiedo solo un favore: di aiutare i miei bambini”. Poi, tra i pianti, i machete hanno cominciato a fare il loro lavoro».

Una messa nella parrocchia di San Juan, a Cotzal. La chiesa, distrutta nel periodo della repressione, è stata ricostruita dai fedeli 
in questi ultimi anni

Una messa nella parrocchia di San Juan, a Cotzal. La chiesa, distrutta nel periodo della repressione, è stata ricostruita dai fedeli in questi ultimi anni

Anni Ottanta, o del terrore
Per contrade e villaggi come questo, dove tutto l’anno si arrampica la jeep impolverata di monsignor Cabrera, quando si parla dell’orrore si usa il passato prossimo. La mattanza che ancora segna la carne e il cuore di tutti non è un ricordo di bui secoli lontani. È avvenuta appena ieri, nella prima metà degli anni Ottanta.
Fu allora che il conflitto tra i regimi militari e i gruppi guerriglieri diventò sterminio di popolo. Fu allora che l’esercito, braccio armato dell’oligarchia, che organizzava anche le bande paramilitari e gli squadroni della morte, decretò che gli omicidi selettivi, le sparizioni di sindacalisti e campesinos leader dell’opposizione non bastavano a piegare le insorgenze. Bisognava “togliere l’acqua al pesce”, annientare e terrorizzare le popolazioni accusate di essere la base sociale dei ribelli.
I dati finali della strategia della terra bruciata, che coprì la prima metà degli anni Ottanta (200mila morti, 48mila desaparecidos, 200mila orfani, più di un milione di profughi e rifugiati, più di quattrocento villaggi rasi al suolo) fanno impressione. Il rapporto Guatemala: Nunca más, pubblicato nel ’98 come frutto del Progetto interdiocesano di recupero della memoria storica sostenuto dalle diocesi cattoliche del Guatemala, ha raccolto capillarmente da tutto il territorio nazionale migliaia di testimonianze dirette sulle violenze di quegli anni. Dati da cui risulta che l’esercito e i gruppi paramilitari sono stati responsabili del 90% delle vittime cadute in omicidi e massacri. Ma solo le storie individuali disseminate nelle 1400 pagine del rapporto riescono a suggerire l’abisso di perversione che si toccò nell’ultimo genocidio maya. Quando divennero cose ordinarie gli stupri collettivi, i roghi di fedeli nelle chiese, le crocifissioni, le mutilazioni dei corpi, gli annientamenti di intere comunità indigene. «Alcune donne erano incinte, una di loro era di otto mesi e le tagliarono il ventre, le tirarono fuori la creatura e si misero a giocarci a palla, poi le staccarono una mammella e la lasciarono appesa a un albero», racconta una testimone di Huehuetenango. E un’altra: «Facevano sempre così, uccidevano prima i bambini, era un modo per torturare la gente... il piano dell’esercito era quello di lasciare senza semi. Anche se è un bambino di un anno, di due anni, tutti i semi sono cattivi, così dicevano».
Ci fu del metodo, in tanto abominio. La barbarie, i corpi mutilati appesi agli alberi, le peggiori fantasie nel bricolage della tortura servivano come strumento di controllo sociale, per terrorizzare tutti, spegnere i cuori di tutti. Allo stesso obbiettivo mirava la militarizzazione della vita quotidiana, l’infiltrazione sociale della rete di spionaggio, gli arruolamenti forzati dei civili nelle Patrullas de autodefensa civil, la deportazione delle comunità in villaggi controllati dall’esercito, sul tipo dei villaggi-modello già sperimentati dall’esercito statunitense in Vietnam. Sistemi appresi all’Escuela de las Américas, l’accademia militare creata nella zona del canale di Panama con il sostegno degli Usa, per addestrare tutte le élite militari latinoamericane alle “tecniche” antiguerriglia.
A distanza di vent’anni, ogni tanto vengono scoperte le fosse comuni e i cimiteri clandestini dove si occultarono i massacri. Allo stesso modo, dagli archivi nordamericani tracimano rari indizi, puntualmente ignorati dal media system internazionale, sugli interessi di egemonia globale che coprirono lo sterminio. Come i documenti declassificati del National Security Archive di Washington, sull’appoggio diretto e indiretto degli Stati Uniti ai regimi macellai succedutisi in Guatemala, che saranno presto pubblicati nel volume La Cia in Guatemala. Orrori di un genocidio (edizioni Odradek). «In quel piccolo Paese centroamericano, sottomesso da più di un secolo alla sfera d’influenza Usa» scandisce lo statunitense Peter Tompkins, giornalista e autore del libro insieme a Maria Luisa Forenza, «lo sterminio pianificato fu la risposta dell’ideologia della sicurezza nazionale al pericolo d’infiltrazione marxista. Bisognava impedire che il contagio arrivasse nel cortile di casa. E qualcuno doveva pur fare il lavoro sporco».

Una donna partecipa ai riti penitenziali 
della settimana santa, ad Antigua Guatemala. Negli anni della repressione, anche possedere un Vangelo o ricevere il battesimo divenne motivo di rischio per la vita

Una donna partecipa ai riti penitenziali della settimana santa, ad Antigua Guatemala. Negli anni della repressione, anche possedere un Vangelo o ricevere il battesimo divenne motivo di rischio per la vita

Rosari e cooperative
C’è un tratto psicologico che ritorna insistente, nei racconti del rapporto Guatemala: Nunca más. Quando l’uragano del terrore passava nei villaggi, oltre alle macerie e ai corpi straziati lasciava dietro di sé un popolo triste, comunità e famiglie mute, talmente annichilite da non riuscire più a parlare. Un silenzio di morte anche in chi rimaneva vivo.
Invece era vivace e ciarliero il popolo maya che avevano trovato Faustino Villanueva e Juan Alonso, giovani missionari del Sacro Cuore quando, alla fine degli anni Cinquanta, erano giunti qui dalla lontana Spagna. Adesso, insieme al confratello José María Gran, che era arrivato qui nel ’75, riposano nel cimitero di Chichicastenango, ammazzati come “comunisti” in tre agguati tra l’80 e l’81. Il Quiché, quella che oggi è diventata la patria dei martiri, era allora terra di fame e sfruttamento, da cui si era tentato di cancellare ogni germoglio di speranza cristiana. Dai tempi della dittatura liberale del presidente Justo Rufino Barrios, che nel 1871 aveva espulso i missionari, abolito i diritti ecclesiali e comunitari sulle terre e imposto il lavoro forzato degli indigeni nelle piantagioni dei potenti cafetaleros, fino alla metà degli anni Cinquanta, qui e nelle altre regioni rurali del Guatemala il cristianesimo era rimasto un residuo coloniale, la religione delle classi urbane di discendenza spagnola, confinata nella capitale e in qualche altra città. Nel 1954, l’invasione del Guatemala da parte delle truppe mercenarie di Castillo Armas, finanziate dalla Cia, aveva posto fine ad un governo riformista, che aveva tentato di realizzare la riforma agraria suscitando la reazione dei latifondisti e delle grandi compagnie statunitensi che controllavano le piantagioni. La svolta conservatrice aveva aperto alla Chiesa, riconoscendole personalità giuridica e consentendo il ritorno dei missionari stranieri. Tra il ’50 e il ’59, i sacerdoti in Guatemala passarono da 132 a 346.
Il regime conservatore apriva alla Chiesa cattolica con l’intento di stabilizzare l’ordine sociale. In quegli anni, davanti a quanto era accaduto nei Paesi dell’Europa dell’Est, l’allarme per l’avanzata mondiale del comunismo aveva raggiunto anche gli episcopati dell’America Latina. Le masse di campesinos oppressi dal sistema economico sembravano facilmente infiammabili dagli slogan dell’internazionalismo proletario. Nel ’54, l’arcivescovo di Città del Guatemala Mariano Rossell y Arellano aveva scritto nella sua Carta pastoral sobre avances del comunismo en Guatemala: «Ubbidendo ai comandi della Chiesa, che ci ordina di combattere e vanificare gli sforzi del comunismo, dobbiamo ancora una volta innalzare la voce di allarme... Queste parole vogliono orientare i cattolici ad una giusta, nazionale e degna crociata contro il comunismo». Ma lo stesso arcivescovo, qualche mese dopo, scriveva in un altro messaggio parole meno gradite ai nuovi potenti: «Il nuovo presidente deve allontanare dal suo governo tutti gli sfruttatori del proletariato, sia i responsabili dell’aumento smisurato del costo della vita, sia coloro che rubano sui salari dei contadini, sia coloro che negano dovuta assistenza sociale».
Per la gran parte dei missionari che in quegli anni arrivano dall’estero, come Faustino Villanueva e Juan Alonso, la novità viene proprio dagli incontri con questo popolo oppresso dalla rapacità delle oligarchie vecchie e nuove. Giunti dalla Spagna col loro bagaglio di salda dottrina, compreso l’allarme per l’offensiva ateista del comunismo, si imbattono in una cosa più grande dei loro buoni propositi. Vedono fiorire il germoglio della vita cristiana che l’azione stessa del Signore opera tra i poveri. Tutte le lettere e i diari di quegli anni raccontano lo stupore grato di questo tempo d’inizio. «Anche se mi dà un po’ di pena celebrare il Natale lontano da voi» scrive Faustino ai suoi familiari alcuni mesi dopo essere partito, «la felicità e l’allegria che incontro qui è incomparabile». In continuo viaggio per serre e gole, di villaggio in villaggio, recitando il breviario a dorso di cavallo, portano con sé qualche medicina, pochi vestiti e l’indispensabile per dir messa. Un bagaglio minimo essenziale, come i pochi semplici gesti che nutrono e conservano questo nuovo inizio di grazia. «Il mio lavoro apostolico» scrive nel diario Juan Alonso «sta tutto nel celebrare il santo sacrificio della messa, battezzare, confessare, dare la comunione, predicare il catechismo, insistendo nel segno della croce, il Padre nostro, l’Ave Maria, e il Gloria al Padre, al Figlio, allo Spirito Santo. Prima di tutto prego che non perdano i princìpi della fede, e aspetto opportunità migliori per illuminarli sui comandamenti». Raggiungono a cavallo, con viaggi di ore e ore, villaggi che da decenni non vedono un sacerdote, si riaprono cappelle chiuse da tempo, dove si conservano antiche statue dei santi, e se ne costruiscono di nuove. «A Canjia, nella parte più settentrionale e montuosa della Zona Rejna» scrive ancora Juan Alonso «mi hanno ricevuto molto bene. Lì ho celebrato 39 battesimi. Alcuni bambini avevano già otto o nove anni, ma quando me li presentavano, dicevano che avevano solo tre mesi...». Alcuni continuano a mischiare i sacramenti cristiani con gli usi religiosi della costumbre maya. Ma cresce anche una generazione di laici catechisti, legati all’Azione cattolica rurale, che collaborano col piccolo gruppo di missionari. Sono i laici a ripetere nella quotidianità i gesti ordinari che alimentano la fede delle comunità – recita del Rosario, del Credo e delle preghiere, catechismo, litanie dei santi – quando il prete non c’è. E non c’è quasi mai.
Un uomo alla Via Crucis del venerdì santo, nel villaggio di Santiago Atitlán. I villaggi che circondano il lago di Atitlán 
portano tutti i nomi degli apostoli

Un uomo alla Via Crucis del venerdì santo, nel villaggio di Santiago Atitlán. I villaggi che circondano il lago di Atitlán portano tutti i nomi degli apostoli

Già in quegli anni, nel lavoro minimale dei missionari e dei catechisti di Azione cattolica, accanto ai sacramenti rientra anche il tentativo di rispondere ai bisogni materiali dei campesinos. Padre Faustino, ad esempio, costruisce un piccolo dispensario, un ambulatorio, e fa nascere una cooperativa agricola, la Liga campesina, per sottrarre i contadini maya alla morsa di finqueros (proprietari terrieri) e usurai. Per risposta, il padrone espelle decine di famiglie dalla sua proprietà, condannandole alla fame.
L’episodio del sindacato campesino della finca San Francisco aiuta a cogliere cosa accadde in buona parte della Chiesa latinoamericana di quegli anni. Ricorda monsignor Próspero Penados del Barrio, arcivescovo di Città del Guatemala, ormai prossimo al ritiro: «I settori del potere economico si aspettavano forse che preti e suore li aiutassero a tener buoni gli schiavi. Che gli parlassero del cielo, per renderli sottomessi davanti alle oppressioni e allo sfruttamento qui sulla terra. E invece, quando i preti e le suore videro la predilezione del Signore per i poveri, i prodigi che compiva tra loro, se ne innamorarono. E presero la loro parte».
Nel Guatemala di quegli anni, come in gran parte dell’America Latina, un ordine sociale fondato sullo sfruttamento e sulla repressione esige il puntello della Chiesa, in nome della resistenza al comunismo. Già sant’Agostino, molto prima di Marx, aveva descritto l’uso politico della religione, l’invenzione di favole religiose buone per il popolo, affinché chi ha il potere lo conservi. Ma ampi settori della Chiesa latinoamericana si sottraggono al ruolo assegnato. Hanno constatato che la preferenza dei poveri, come insegna tutta la Tradizione, è la scelta stessa di Dio.
La reazione è feroce. E parte da lontano.

Martiri dimenticati
È dell’agosto del 1969 il famoso rapporto Rockefeller, quello in cui, dopo aver analizzato l’azione di sacerdoti e fedeli dentro il contesto sociale di quegli anni, si concludeva che in America Latina «la Chiesa ha cessato di essere un alleato di fiducia degli Usa, e non è più la garante della stabilità sociale del continente, ma al contrario si trasforma in un pericolo perché forma la coscienza delle masse». Già nei primi anni Settanta cominciano attacchi ai sacerdoti e ai catechisti che sostengono i campesinos indigeni impiantando cooperative agricole, ambulatori, scuole. Ogni opera sociale, ogni simpatia dichiarata alle lotte degli sfruttati viene considerata un atto di sovversione, di fiancheggiamento alla guerriglia. Ma la persecuzione cruenta verso gli uomini di Chiesa comincia nel ’78. In due anni, vengono assassinati in varie parti del Paese dodici sacerdoti, che animavano cooperative, radio diocesane, o corsi di formazione sociale nelle campagne. Poi, nel triennio ’80-82, si passa dalle esecuzioni selettive agli assassinii di catechisti e ai massacri di fedeli e di intere comunità.
Il Quiché è il dipartimento più martoriato. Dei 422 massacri registrati da Guatemala: Nunca más, 263 sono stati compiuti in questa provincia. Anche la persecuzione dei cristiani qui supera ogni immaginazione: l’intera struttura diocesana viene cancellata, tutti i sacerdoti e i religiosi presenti sul territorio ammazzati o costretti a fuggire. Caso unico, ai nostri tempi, in una “nazione cristiana”.
Il frate marista Santiago Otero che da anni gira per villaggi e comunità della regione a raccogliere queste storie di persecuzione e martirio, racconta come si fece terra bruciata della Chiesa del Quiché. «La strategia dell’esercito fu quella di imporre l’equazione tra Chiesa e sovversione. Chiunque, prete o catechista, rimaneva a fianco del popolo colpito dalla repressione, veniva bollato come un sobillatore e un guerrigliero, e segnato nelle liste della morte. Chi parlava di comunità cristiana era un comunista. Ricevere il battesimo divenne motivo di rischio per la vita, e infatti dall’82 all’87 la percentuale dei battezzati nell’area calò al 20%. Possedere un Vangelo diventò come avere un libro sovversivo. Tanti nascosero la Bibbia, i libri di preghiere e i crocefissi sotto terra, nell’attesa che la furia passasse».
I corpi ritrovati in una fossa comune vengono portati dalla chiesa al cimitero, nella città di Xecoxol. Le riesumazioni di spoglie 
dai cimiteri clandestini hanno consentito finora il riconoscimento 
di più di 50mila vittime della guerra civile, in gran maggioranza donne e bambini

I corpi ritrovati in una fossa comune vengono portati dalla chiesa al cimitero, nella città di Xecoxol. Le riesumazioni di spoglie dai cimiteri clandestini hanno consentito finora il riconoscimento di più di 50mila vittime della guerra civile, in gran maggioranza donne e bambini

Padre José María Gran, confratello di Faustino e Juan Alonso, lo ammazzano insieme al suo sacrestano Mingo il 4 giugno ’80 in un sentiero nei pressi di Chajul, mentre si reca a cavallo a celebrare l’Eucarestia in un villaggio. I carnefici riempiono la sua borsa di propaganda sovversiva, per farlo passare come un guerrigliero ammazzato in azione. Sei giorni dopo tocca a padre Faustino, freddato da due sicari a cui aveva aperto la porta della sua parrocchia di Joyabaj. Nel frattempo, continuano gli omicidi e le sparizioni di catechisti, case di religiosi vengono assaltate, chiese e cappelle vengono occupate come basi operative dell’esercito, che spesso le trasforma in stanze di tortura o in terreni per nascondere le fosse comuni. A quel tempo, vescovo del Quiché era Juan José Gerardi Conedera, che è stato ammazzato due anni fa dopo aver presentato in Cattedrale, a Città del Guatemala, i risultati della Commissione per il recupero della memoria storica. «Ma già fin da allora» racconta Otero «c’era chi stava organizzando attentati contro di lui. Proprio su suggerimento di Gerardi, i pochi sacerdoti e religiosi rimasti decisero di abbandonare la diocesi e sospendere ogni azione pastorale, anche con l’intento di diminuire i rischi di vita per i catechisti ed i fedeli». Rimasero in tutto il dipartimento quattro sacerdoti, per assicurare alle comunità la possibilità di fruire dei sacramenti. Tra di loro c’era Juan Alonso, tornato apposta dalla lontana regione del Petén, che fu giustiziato mentre girava in moto da un villaggio all’altro per celebrare messa e portare il conforto della confessione. Ammazzato come “sovversivo comunista”, lui che – gli amici lo ricordavano bene –, quando era giovane seminarista in Spagna, aveva tenuto per Francisco Franco.
Il tentativo del vescovo Gerardi di attirare l’attenzione su quanto avveniva nel Quiché fu silenziato. In Guatemala, la legge che impediva la pubblicazione di notizie riguardanti la guerra civile contribuì a occultare la repressione. Il sistema dei media internazionali puntò altrove i suoi riflettori. E anche nella Chiesa, in quegli anni di sante alleanze contro l’Impero del male, un velo d’ombra scese sui martiri del Quiché. Monsignor Gerardi arrivò fino in Vaticano per raccontare cosa accadeva nella sua terra e cercare appoggi. Il Papa, in un suo discorso, espresse solidarietà per chi soffriva nel Quiché. E invitò il vescovo a tornare nella sua diocesi. Ordine che Gerardi non potrà eseguire: sulla via del ritorno, all’aeroporto, il governo guatemalteco lo respinge come persona indesiderata.
Intanto, nel Quiché, la persecuzione incrudelisce con chi è rimasto. Saranno più di quattrocento i catechisti e i membri dell’Azione cattolica rurale ad essere uccisi in agguati e massacri. Storie che padre Otero sta ancora raccogliendo, come quella di Nicolás Castro, catechista e ministro dell’Eucarestia di Chicamán, giustiziato il 29 settembre 1980 all’età di trent’anni. Da quando avevano proibito le riunioni negli oratori e nessuno si avvicinava più alle parrocchie, per timore di essere denunciato, lui aveva continuato a portare le ostie consacrate ai fedeli nelle case e nei campi. «In questo tempo di persecuzione» ripeteva sempre «abbiamo bisogno solo del Corpo di Cristo, perché ci dia forza». Andava fino alla lontana Cobán per prendere le ostie consacrate, le nascondeva con cura tra le tortillas, avvolte in un panno. Altri catechisti, come lui, arrivavano a prendere la comunione a Cobán da ogni parte del Quiché, la nascondevano in mezzo al mais, e la riportavano al proprio villaggio. Fino a quando qualche delatore lo denunciò all’esercito. Vennero a prenderlo di notte, e lo ferirono a morte nel patio della sua casa. La “passio” raccolta da padre Otero racconta che mentre agonizzava, con le ultime forze, chiamò la moglie e i quattro figli piccoli, che avevano assistito al suo martirio, domandò perdono di tanto dolore che causava loro, e volle recitare insieme a tutti quanti il Padre nostro.

Un nuovo inizio
Sangre de los mártires, semilla de los cristianos. Il motto dei primi cristiani è vergato in rosso porpora sul drappo che copre tutta la facciata di una chiesa. Il seme che volevano distruggere sta germogliando ora, nella terra del Quiché.
La guerra civile si è chiusa ufficialmente nel 1996, con gli accordi tra governo e quel che rimaneva dei gruppi guerriglieri. Da quando è passato l’uragano, gli indizi di un nuovo inizio di vita cristiana sono più potenti proprio nelle comunità e nei luoghi più irrorati dall’esperienza del martirio. Dopo gli anni del grande silenzio, le storie di questi cristiani ordinari, sacerdoti, catechisti, padri e madri di famiglia, passano di bocca in bocca. I loro nomi vengono celebrati nelle feste dei martiri, convocate spontaneamente dal popolo dei fedeli, che punteggiano sempre più numerose il calendario pastorale del Quiché. Come a Chajul, dove decine di migliaia di fedeli accorrono il 4 giugno per far memoria di José María Gran e dei suoi amici. Dovunque si ricostruiscono le chiese distrutte durante il conflitto e si tornano a celebrare i sacramenti. Anche il dolore delle riesumazioni, quando si aprono le fosse comuni, è tutto intriso di cristiano conforto.
«Dovremmo fare ai nostri martiri un monumento» dice il vecchio Juanito «non per ricordare che sono morti, ma perché adesso, in paradiso, sono ancora più vivi».


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