1978. Inizia il terrore
Julio Edgar Cabrera Ovalle, vescovo di Santa Cruz del Quiché, racconta la fede degli indios negli anni tragici della persecuzione. E i nuovi, inimmaginabili segni di riconciliazione
Intervista con Julio Edgar Cabrera Ovalle di Gianni Valente
«Verrà l’ora in cui chiunque vi ucciderà
crederà di rendere culto a Dio». Così, nel Vangelo di
Giovanni, Gesù aveva preannunciato ai suoi discepoli. Nel
Quiché, la regione più martoriata dalla guerra civile
guatemalteca, quest’ora è arrivata tra la fine degli anni
Settanta e i primi anni Ottanta. «Qui da noi, quando massacravano
sacerdoti, missionari, catechisti e fedeli, il carnefice spesso portava un
nome cristiano. E si considerava un difensore della civiltà
cristiana, contro quelli che vedeva come dei sovversivi». Per Julio
Edgar Cabrera Ovalle, vescovo di Santa Cruz del Quiché, la
persecuzione dei cristiani nella storia recente dell’America Latina
resta una circostanza rimossa anche dentro la Chiesa, per questo marchio
che la distingue da tutti gli altri supplizi di cristiani consumati nel XX
secolo. A questo sessantenne ospitale e dai modi gentili, è toccato
di essere il vescovo del Quiché dopo che era passato l’uragano
della violenza. «Dall’80 all’83 l’intera regione
era rimasta senza vescovo, senza sacerdoti e religiosi. Le comunità
erano disperse, senza neanche il conforto dei sacramenti. Decine di
migliaia di civili erano profughi nei boschi delle regioni montuose del
nord, verso il Messico. Dall’83 all’87 la diocesi è
stata seguita da un amministratore apostolico. Poi, hanno mandato
me». Sotto i suoi occhi, e anche con il concorso della sua cura
pastorale accorta e comprensiva, la vita cristiana è tornata a
fiorire nel Quiché, fino a dare frutti umanamente inimmaginabili,
come il perdono talvolta offerto dalle vittime ai propri carnefici. Se
ripensa alla sua storia, oggi monsignor Cabrera si accorge che tante volte
la sua vita è stata toccata e cambiata da fatti e incontri
inaspettati. Racconta: «Mi è capitato di svolgere i miei studi
nel seminario messicano di Guadalajara, proprio quando i padri Casas e
Valdés raccoglievano ancora le testimonianze sui cristeros, i martiri messicani
massacrati negli anni Venti. Allora, chi poteva immaginare che nella mia
vita avrei incontrato persone come monsignor Romero, che conobbi al
seminario di San José de la Montaña, o padre Ignacio
Ellacuría, uno dei gesuiti massacrati nell’89, che fu mio
professore di filosofia? Né si poteva immaginare che un giorno
dell’estate ’78 avrei stretto tra le braccia il corpo senza
vita del mio amico don Hermógenes López, ammazzato per aver
difeso dallo sfruttamento i suoi amici campesinos di San José Pinula...».
Il suo predecessore, Juan José Gerardi Conedera, che è stato ucciso due anni fa, nel 1980 diede ai sacerdoti e ai religiosi l’indicazione di lasciare il Quiché. Quali erano i motivi di tale misura estrema?
JULIO EDGAR CABRERA OVALLE: La fuga era una scelta di sopravvivenza. La consegna ricevuta dagli squadroni e dall’esercito era molto concreta: farla finita coi preti. In quel momento, continuare a visitare i villaggi e celebrare messe pubbliche avrebbe messo a rischio sia i pastori sia i loro collaboratori più vicini, come i catechisti. Inoltre, con quel gesto, si cercò di rompere la cortina di silenzio che circondava i massacri nel Quiché. Sembra incredibile, ma durante la fase della terra bruciata, quando si giunse ad annientare interi villaggi coi bombardamenti, nel resto del Guatemala non sapevano nulla di ciò che succedeva nel Quiché. E anche la rete dei media internazionali ignorava la situazione. Questo occultamento aumentava la libertà di repressione delle popolazioni civili.
Nella fase più cruenta, rimasero i laici ad assicurare alle popolazioni un sostegno pastorale minimale. Cosa ricorda di quel periodo?
CABRERA OVALLE: In una maniera imprevista, non dovuta, i catechisti laici si presero cura della Chiesa come della cosa più cara. Lo fecero in tanti modi diversi. C’era chi andava in città, a Huehuetenango, o a San Cristóbal, per prendere il Santissimo e portarlo nei villaggi. A Città del Guatemala, padre Suárez si incaricò di coordinare questa distribuzione di ostie consacrate ai catechisti, perché le portassero di nascosto alle proprie comunità. Altri catechisti seguirono i desplazados e le cosiddette comunità di resistenza, col solo intento di far recitare insieme le preghiere quotidiane e così sostenere la fede tra queste popolazioni in fuga, con l’esercito sempre alle costole.
Quando finì il silenzio sui fatti del Quiché?
CABRERA OVALLE: Gli anni peggiori, come ho già detto, furono i primi anni Ottanta. Ma poi seguì un lungo periodo di transizione. Fino al ’92 non si poteva neanche parlare delle vittime. C’era un bombardamento ideologico per far passare la falsità che tutti i morti, i desaparecidos e gli esiliati erano davvero gente mala, persone cattive coinvolte con la guerriglia. Poi si cominciò a vedere che non tutto era perduto (perché si era pensato anche questo, che la repressione avesse completamente annullato ogni realtà cristiana), e quelli che erano sopravvissuti iniziarono a resistere alla propaganda, a ribattere che i sacerdoti e i catechisti uccisi non erano affatto guerriglieri, ma persone che avevano dato la vita per seguire Gesù. Qui da noi i santi venerati sono sempre stranieri, sembrava incredibile che ci potessero essere martiri della nostra terra, della nostra gente. La scoperta delle fosse comuni, con le riesumazioni dei corpi di innocenti che apparivano torturati e giustiziati, ha aiutato questa riconciliazione con la memoria di coloro che sono stati uccisi, permettendo di onorare queste persone secondo quel culto dei propri cari che è radicato nella cultura maya.
Eppure in quegli anni, in Guatemala, alcuni sacerdoti optarono realmente per la guerriglia.
CABRERA OVALLE: Nessun caso del genere si verificò nel Quiché. Anche nella popolazione, l’appoggio alla guerriglia era spesso frutto delle circostanze. Fuggendo dalla repressione dell’esercito, la gente arrivava nelle zone controllate dalla guerriglia, dove almeno non li ammazzavano. Ma questo non comportava di per sé una cosciente scelta di campo. La gran maggioranza della popolazione civile era vittima del conflitto senza aver sostenuto in alcun modo le azioni della guerriglia. E anche molti che facevano parte dei gruppi paramilitari, le Patrullas, raccontano di essere stati costretti ad arruolarsi, sotto minaccia.
Ci sono, dopo tanti anni, segni di perdono e di riconciliazione?
CABRERA OVALLE: Raccogliamo continuamente testimonianze di vittime che arrivano a riconciliarsi con chi ha causato loro atroci sofferenze. Anche tra chi compiva violenze e massacri, molti chiedono in confessionale di essere perdonati. Soprattutto le donne hanno preso a cuore questa missione della riconciliazione. Ma tutto avviene dentro le circostanze concrete, senza urgere o pretendere nulla. Non si può obbligare nessuno a perdonare. Il Signore concede il perdono tramite gli uomini, ma è un’opera sua, una sua azione.
Che ruolo ha svolto, in questa fase, il lavoro di recupero della memoria storica, da cui è scaturito il rapporto Guatemala: Nunca más?
CABRERA OVALLE: La fase di raccolta delle testimonianze ha dato un aiuto grande per recuperare la salute mentale, psicologica e spirituale di molte persone. Ed è servita anche come cammino per preparare alla riconciliazione. Se tutta la tragedia di quegli anni fosse rimasta occultata, nessuna riconciliazione sarebbe possibile. Il vescovo Gerardi, che fu il grande promotore dell’iniziativa, non intendeva dividere la vicenda guatemalteca in buoni e cattivi, inchiodando ognuno alle proprie responsabilità. La speranza era proprio che la raccolta di testimonianze servisse anche alla liberazione spirituale dei carnefici, di coloro che avevano partecipato ai massacri. Si sa che ancora oggi, nell’esercito, molti devono sottoporsi a programmi di salute mentale, dopo essere stati sconvolti dalle atrocità a cui hanno preso parte, a volte sotto coercizione.
Il suo predecessore Gerardi aveva dedicato nel Quiché un’attenzione pastorale speciale per la maggioranza indigena. Anche lei ha proseguito su questa strada.
CABRERA OVALLE: Qui, nell’incontro tra la Chiesa e i popoli indigeni, si è rinnovato un dato della Tradizione apostolica, quello della predilezione della Chiesa per i poveri. Qui da noi, purtroppo, la struttura ecclesiastica a volte si è presentata come uno strumento degli oppressori spagnoli. Gli indigeni ripetono ancora: Gesù per noi è stato sempre una buona notizia, la struttura ecclesiastica non sempre. Il nome del Vangelo è stato strumentalizzato per ammazzare, rubare le terre, emarginare le culture indigene. Certo, è andata meglio qui che in America del Nord. Qui qualcosa è rimasto. Lì, degli indiani, hanno cancellato ogni traccia.
Il suo predecessore, Juan José Gerardi Conedera, che è stato ucciso due anni fa, nel 1980 diede ai sacerdoti e ai religiosi l’indicazione di lasciare il Quiché. Quali erano i motivi di tale misura estrema?
JULIO EDGAR CABRERA OVALLE: La fuga era una scelta di sopravvivenza. La consegna ricevuta dagli squadroni e dall’esercito era molto concreta: farla finita coi preti. In quel momento, continuare a visitare i villaggi e celebrare messe pubbliche avrebbe messo a rischio sia i pastori sia i loro collaboratori più vicini, come i catechisti. Inoltre, con quel gesto, si cercò di rompere la cortina di silenzio che circondava i massacri nel Quiché. Sembra incredibile, ma durante la fase della terra bruciata, quando si giunse ad annientare interi villaggi coi bombardamenti, nel resto del Guatemala non sapevano nulla di ciò che succedeva nel Quiché. E anche la rete dei media internazionali ignorava la situazione. Questo occultamento aumentava la libertà di repressione delle popolazioni civili.
Nella fase più cruenta, rimasero i laici ad assicurare alle popolazioni un sostegno pastorale minimale. Cosa ricorda di quel periodo?
CABRERA OVALLE: In una maniera imprevista, non dovuta, i catechisti laici si presero cura della Chiesa come della cosa più cara. Lo fecero in tanti modi diversi. C’era chi andava in città, a Huehuetenango, o a San Cristóbal, per prendere il Santissimo e portarlo nei villaggi. A Città del Guatemala, padre Suárez si incaricò di coordinare questa distribuzione di ostie consacrate ai catechisti, perché le portassero di nascosto alle proprie comunità. Altri catechisti seguirono i desplazados e le cosiddette comunità di resistenza, col solo intento di far recitare insieme le preghiere quotidiane e così sostenere la fede tra queste popolazioni in fuga, con l’esercito sempre alle costole.
Quando finì il silenzio sui fatti del Quiché?
CABRERA OVALLE: Gli anni peggiori, come ho già detto, furono i primi anni Ottanta. Ma poi seguì un lungo periodo di transizione. Fino al ’92 non si poteva neanche parlare delle vittime. C’era un bombardamento ideologico per far passare la falsità che tutti i morti, i desaparecidos e gli esiliati erano davvero gente mala, persone cattive coinvolte con la guerriglia. Poi si cominciò a vedere che non tutto era perduto (perché si era pensato anche questo, che la repressione avesse completamente annullato ogni realtà cristiana), e quelli che erano sopravvissuti iniziarono a resistere alla propaganda, a ribattere che i sacerdoti e i catechisti uccisi non erano affatto guerriglieri, ma persone che avevano dato la vita per seguire Gesù. Qui da noi i santi venerati sono sempre stranieri, sembrava incredibile che ci potessero essere martiri della nostra terra, della nostra gente. La scoperta delle fosse comuni, con le riesumazioni dei corpi di innocenti che apparivano torturati e giustiziati, ha aiutato questa riconciliazione con la memoria di coloro che sono stati uccisi, permettendo di onorare queste persone secondo quel culto dei propri cari che è radicato nella cultura maya.
Eppure in quegli anni, in Guatemala, alcuni sacerdoti optarono realmente per la guerriglia.
CABRERA OVALLE: Nessun caso del genere si verificò nel Quiché. Anche nella popolazione, l’appoggio alla guerriglia era spesso frutto delle circostanze. Fuggendo dalla repressione dell’esercito, la gente arrivava nelle zone controllate dalla guerriglia, dove almeno non li ammazzavano. Ma questo non comportava di per sé una cosciente scelta di campo. La gran maggioranza della popolazione civile era vittima del conflitto senza aver sostenuto in alcun modo le azioni della guerriglia. E anche molti che facevano parte dei gruppi paramilitari, le Patrullas, raccontano di essere stati costretti ad arruolarsi, sotto minaccia.
Ci sono, dopo tanti anni, segni di perdono e di riconciliazione?
CABRERA OVALLE: Raccogliamo continuamente testimonianze di vittime che arrivano a riconciliarsi con chi ha causato loro atroci sofferenze. Anche tra chi compiva violenze e massacri, molti chiedono in confessionale di essere perdonati. Soprattutto le donne hanno preso a cuore questa missione della riconciliazione. Ma tutto avviene dentro le circostanze concrete, senza urgere o pretendere nulla. Non si può obbligare nessuno a perdonare. Il Signore concede il perdono tramite gli uomini, ma è un’opera sua, una sua azione.
Che ruolo ha svolto, in questa fase, il lavoro di recupero della memoria storica, da cui è scaturito il rapporto Guatemala: Nunca más?
CABRERA OVALLE: La fase di raccolta delle testimonianze ha dato un aiuto grande per recuperare la salute mentale, psicologica e spirituale di molte persone. Ed è servita anche come cammino per preparare alla riconciliazione. Se tutta la tragedia di quegli anni fosse rimasta occultata, nessuna riconciliazione sarebbe possibile. Il vescovo Gerardi, che fu il grande promotore dell’iniziativa, non intendeva dividere la vicenda guatemalteca in buoni e cattivi, inchiodando ognuno alle proprie responsabilità. La speranza era proprio che la raccolta di testimonianze servisse anche alla liberazione spirituale dei carnefici, di coloro che avevano partecipato ai massacri. Si sa che ancora oggi, nell’esercito, molti devono sottoporsi a programmi di salute mentale, dopo essere stati sconvolti dalle atrocità a cui hanno preso parte, a volte sotto coercizione.
Il suo predecessore Gerardi aveva dedicato nel Quiché un’attenzione pastorale speciale per la maggioranza indigena. Anche lei ha proseguito su questa strada.
CABRERA OVALLE: Qui, nell’incontro tra la Chiesa e i popoli indigeni, si è rinnovato un dato della Tradizione apostolica, quello della predilezione della Chiesa per i poveri. Qui da noi, purtroppo, la struttura ecclesiastica a volte si è presentata come uno strumento degli oppressori spagnoli. Gli indigeni ripetono ancora: Gesù per noi è stato sempre una buona notizia, la struttura ecclesiastica non sempre. Il nome del Vangelo è stato strumentalizzato per ammazzare, rubare le terre, emarginare le culture indigene. Certo, è andata meglio qui che in America del Nord. Qui qualcosa è rimasto. Lì, degli indiani, hanno cancellato ogni traccia.