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SANTO ROSARIO
tratto dal n. 05 - 2000

Come è nata e si è sviluppata questa devozione

I misteri della gioia vengono prima dei misteri del dolore


«Movendo dal gioioso saluto dell’Angelo [...] l’ordinato e graduale svolgimento del Rosario riflette il modo stesso con cui il Verbo di Dio, inserendosi per misericordiosa determinazione nella vicenda umana, ha operato la redenzione». Così Paolo VI nella Marialis cultus, il testo recente più importante sul Rosario


di Lorenzo Cappelletti


«I misteri della gioia, che vengono prima dei misteri del dolore, i misteri della gioia – gaudium –, i misteri gaudiosi ci riportano, ci richiamano il mistero della novità – l’annuncio dell’Angelo –, la carità verso la cugina Elisabetta, la nascita di Gesù, la purificazione della Madonna e l’offerta di Cristo al Padre, la vita apparentemente insignificante di Gesù di Nazareth. Sono ricordi in cui si allinea e prende corpo la presa che Gesù ha su di noi». È un passaggio dell’articolo che don Giussani ha scritto per Avvenire lo scorso 30 aprile (che ripubblichiamo a p. 48). «I misteri della gioia, che vengono prima dei misteri del dolore...» può sembrare un piccolo inciso che richiama didascalicamente i misteri del Rosario, a partire da quelli con cui si comincia (consono a quel piccolo inciso che fa Paolo VI nella esortazione apostolica Marialis cultus, il testo recente più importante sul Rosario: «Movendo dal gioioso saluto dell’Angelo [...] l’ordinato e graduale svolgimento del Rosario riflette il modo stesso con cui il Verbo di Dio, inserendosi per misericordiosa determinazione nella vicenda umana, ha operato la redenzione»).
La Madonna dei Pellegrini, Caravaggio, chiesa 
di Sant’Agostino 
in Campo Marzio, Roma

La Madonna dei Pellegrini, Caravaggio, chiesa di Sant’Agostino in Campo Marzio, Roma

In realtà questi piccoli incisi dicono una verità teologica e spirituale (è da un gaudio che «prende corpo la presa che Gesù ha su di noi») che è insieme una precisa verità storica sul Rosario. Originariamente tutti i misteri non erano contemplati se non come gioie di Maria, in numero variabile di cinque, sette, venti o quindici, quelle tre cinquine, che poi diventeranno tradizionali, e che per la prima volta si trovano nelle meditazioni di un cistercense della metà del Duecento, Stefano abate di Sallai che così le allinea: la nascita della Vergine; la vita della Vergine; l’annunciazione; la concezione di Gesù; la visitazione; la nascita di Gesù; la visita dei Magi; la presentazione al Tempio; il ritrovamento di Gesù; i miracoli della predicazione di Gesù; la croce, la cui gioia riscatta il mondo; la resurrezione; l’ascensione; la pentecoste; l’assunzione e la glorificazione della Vergine in cielo.
Il Rosario in effetti nasce dalla «concezione assolutamente tradizionale nella Chiesa che la maternità di Maria Vergine e le scene comuni della sua vita e di quella di Gesù sono gioie che sorpassano qualunque altra gioia» (esordio della bella voce, anche se d’anteguerra, che il DTC, ovvero il Dictionnaire de Théologie catholique, dedica al Rosario). Quando l’Angelo recò l’annuncio a Maria, per la prima volta risuonò la gioia paradisiaca della redenzione: «Ave, Maria, piena di grazia». Per mezzo di Maria è questa stessa gioia che vibra in mezzo al popolo cristiano. Che come ringraziamento ripete alla Vergine quelle parole che fecero trasalire lei e dopo di lei tutti quelli che sono diventati partecipi di quella gioia: «Ave, Maria, piena di grazia». L’Ave Maria, che fino al XIV o forse al XV secolo non è costituita che dal saluto dell’Angelo (Lc 1, 28) unito a quello di Elisabetta (Lc 1, 42), è il saluto più semplice. Il santo Rosario non è che la moltiplicazione e la ripetizione di saluti a Maria (accompagnati da gesti del corpo, come per esempio l’inginocchiarsi) fino a farne un giardino (in latino rosarium) o un serto (in latino sertum o corona), quasi fino a circondarla, a coronarla di rose: Rosenkranz (corona di rose), in tedesco, è tuttora il nome del Rosario, chapelet (coroncina di fiori) in francese. In effetti cosa corrisponde di più all’annuncio di una gioia nuova se non l’offerta di un fiore? E quale è il fiore dei fiori se non la rosa?
Saluti, gioie o rose sono espressioni equivalenti di gratitudine in questa fase preistorica del Rosario che si sviluppa fra il XII e il XIII secolo negli ambienti cistercensi e domenicani della regione renano-fiamminga. Quel che conta è salutare Maria, come fece l’Angelo. Come fece quel povero saltimbanco che non sapeva pregare ma risultò ugualmente gradito alla Vergine colle sue capriole, si racconta nella raccolta così cara al Medioevo dei Miracles Notre-Dame. Come usava fare già secoli prima Gregorio Magno da monaco, a Roma, davanti a un’immagine che porta ancora il titolo di Madonna del Saluto e che si conserva nella Basilica dei Santi fratelli medici Cosma e Damiano (per cui poi è diventata anche Madonna della Salute). Tanto gradito le era quel saluto, che la Vergine, si racconta, apparve a Gregorio, ormai troppo occupato, da papa, per occuparsi di quella piccola devozione, e gli mosse un dolce rimprovero: «Gregorio, perché non mi saluti più, quando l’hai sempre fatto passando?».
Qui si dovrebbe aprire un lungo excursus, che un articolo del genere non consente, su cosa voglia dire “monaco”, su cosa voglia dire, nei primordi della loro storia, “domenicano” o “cistercense”. Qui basterà dire che significa qualcosa di molto più mobile di una forma esclusiva e particolare di vita. I Domenicani che, ai loro esordi, «non fanno esplicitamente voto di castità e di povertà, fanno esplicitamente voto di obbedienza alla santa Vergine» (dal DTC). L’abito che portano è più o meno il medesimo di quello dei canonici regolari e dei Cistercensi e i legami personali spesso si intrecciano indipendentemente dall’appartenenza all’uno o all’altro Ordine. Per non parlare dei rapporti che intercorrono fra l’Ordine e quella che, a vero dire, è l’unica istituzione voluta proprio da Domenico, quella cioè dei Cavalieri di Nostra Signora o Cavalieri contenti (meglio chiamarli così che gaudenti o gai).
CENTOCINQUANTA SALUTI
Saluti, rose o... capriole di monaci, frati o semplici cavalieri contenti, fin dalla preistoria del Rosario, si incontrano in numero di cinquanta o centocinquanta. Perché?
Molto semplicemente perché il numero dei salmi è centocinquanta. La pietà mariana medievale è modellata, più di quanto si possa immaginare, sulla preghiera della Chiesa antica basata sul Salterio. Centocinquanta saluti corrispondono ai centocinquanta salmi. E non soltanto perché col tempo, al di fuori dei monasteri, si perde la familiarità col Salterio (è infatti pur sempre in ambiente lato sensu monastico, e senza sostituirsi ai salmi ma sulla base dell’antico costume monastico orientale di ripetere invocazioni, che si diffonde l’uso di ripetere le Ave Maria), ma perché quel Salterio di David, come tutta l’Antica Alleanza, non parla che di quel che sarebbe accaduto a Maria. Basta leggere i profeti e i salmi. La prima grande apologia del cristianesimo è la realizzazione delle profezie veterotestamentarie. La Chiesa non deve inventare nulla, tanto meno il contenuto e la forma della sua preghiera.
Così, a designare la recitazione di centocinquanta Ave, si trova a partire dalla metà del Duecento il termine Psalterium beatae Mariae, laddove il termine Rosarium è di preferenza impiegato per una terza parte di esso (cinquanta). E come si usava aprire e chiudere con delle antifone ciascun salmo, così si apporranno alle Ave Maria delle chiuse (clausulae) aggiungendo il nome di Gesù e i fatti della sua vita («...e benedetto il frutto del tuo seno, Gesù adorato dai Magi», ad esempio, ovvero «Gesù asceso al cielo» e così via). Come strumento per questa forma di preghiera si diffonde rapidamente, a partire dalla stessa epoca, una cordicella a grani, mutuata probabilmente dal medesimo oggetto che usavano e usano i musulmani.


DAL GAUDIO ALLE CONFRATERNITE
In un manoscritto del 1501 (citato nell’articolo assai analitico che dedica al Rosario il recente Dictionnaire de Spiritualité, che abbrevieremo in DdS) si legge: «Rosarius originem suam habet principalem ab ordine sancti Benedicti, deinde robur a Carthusiensibus, novissime vero consummationem et fraternitatem a Praedicatoribus». In altre parole, il Rosario, che ha avuto origine nel mondo benedettino, si è propagato per opera dei Certosini fino a svilupparsi in una rete di fraternità coi Domenicani.
In effetti, due certosini della prima metà del XV secolo, Adolfo di Essen e il suo discepolo Domenico di Prussia (non è escluso sia stato poi confuso con Domenico di Guzmán) – che operano nella stessa zona, ovvero in quel cuore dell’Europa che è la regione renano-fiamminga, in cui la primitiva devozione si era diffusa e che essi evidentemente avevano conosciuto –, saranno i propagatori del Rosario come metodo di vita spirituale. Sono costoro che fissano anche la misura di dieci Ave per ciascun mistero. Il Rosario diventa un esercizio.
I misteri dolorosi cominciano a essere ora inclusi nel Rosario come una piccola Via Crucis. Ancora nel Trecento un lungo poema domenicano (Rosarius) «faceva portare dalla gioia dell’Ave Maria “les douleurs cinq qu’eust Jehsuschrist quant a la croix fut pour nous mis” [i cinque dolori che patì Gesù Cristo quando fu per noi messo in croce]» (come si legge citato nel DTC). Ma ora, in pieno autunno del Medioevo, grandi scismi, grandi pesti e grandi guerre fanno piuttosto compatire il dolore della Vergine che prender parte alle sue gioie. Finché non si arriva a un vero e proprio capovolgimento dell’ispirazione antica. Quando il vescovo ausiliare di Tolosa nel 1545 raccomanderà la recita del Salterio di Nostra Signora (centocinquanta Ave) o del Rosario (cinquanta Ave), senza neanche far cenno ai misteri, farà corrispondere i quindici o rispettivamente i cinque Pater (che ormai si accompagnavano ad ogni gruppo di dieci Ave) ai principali tormenti che Dio soffrì al momento della sua dolorosa passione e morte, ovverosia alle cinque piaghe del Signore.


A MALI ESTREMI ESTREME VITTORIE
A grandi guerre interne e esterne Maria Annunziata, per difendere la sua connaturale esultanza, non può che rispondere con grandi vittorie.
La prima vittoria sul campo non fu quella di Lepanto dell’ottobre 1571, come si crede, ma la liberazione dall’assedio di una piazzaforte sul Reno (Neuss) nel 1474. Una promessa fatta in quell’occasione avrebbe dato origine alla fondazione da parte del domenicano Jacob Sprenger di una fraternitas (la prima denominata de Rosario) presso il convento di Colonia (8 settembre 1475, natività di Maria). In quello stesso 1475, peraltro, e proprio alla vigilia di quella festa, il 7 settembre, era morto un altro domenicano, Alain de la Roche, il vero iniziatore della storia moderna del Rosario attraverso l’inaugurazione della pratica dell’iscrizione come atto decisivo di partecipazione a una confraternita. La solidarietà spirituale determinata dalla preghiera mariana è rafforzata ora da un obbligo rigoroso di iscrizione. Badiamo bene che non si trattava di formalismo, perché quell’iscrizione è intesa simbolicamente come l’iscrizione nel libro della vita (cfr. Ap 20, 12), ma diventerà l’occasione del prevalere di una forma. La storia del Rosario potrà d’ora in poi essere identificata con quella delle confraternite del Rosario.
Già dieci anni dopo la morte di Alain de la Roche e l’iniziativa di Sprenger, la diffusione delle confraternite del Rosario appare nell’Ordine domenicano come la gestione di un bene di famiglia. Il centro della propaganda si sposta in Italia e questo determina ben presto che si stabilisca «una sorta di monopolio domenicano sulla propagazione e la organizzazione di una devozione che canalizza in un solo corso una diversità di ruscelli sparsi attraverso la spiritualità medievale. La preponderanza presa dalla societas stabilita presso Santa Maria sopra Minerva a Roma fin dal 1481, che tende a dare, se non a imporre, il suo modello alle altre confraternite, è il segno di una enfiagione dell’apparato istituzionale che non sarà senza conseguenze» (dal DdS). San Domenico, che ancora nel XV secolo era solo piamente o tradizionalmente creduto il primo fondatore di una confraternita del Rosario, diviene già sicuramente tale nella Consueverunt romani pontifices di san Pio V, del 17 settembre 1569, che fissa la forma ormai ufficiale del Rosario. Cominciano ora a fioccare bolle di approvazione, concessioni di indulgenze, privilegi esclusivi.
Si forma tutta una normativa che non cesserà di crescere col tempo fino a dar vita a una edizione (Acta Sanctae Sedis pro Societate Rosarii, Lione 1890-91) che raccoglie in più volumi oltre 500 documenti sul Rosario, un vero e proprio prontuario del Rosario. Ma per fortuna nel frattempo quella preghiera era già divenuta patrimonio comune del popolo cristiano. Ed era stata rinverdita da nuove vittorie più che dalla manualistica. Vittorie sul campo. Non più di battaglia, o meglio di una battaglia più subdola e aspra che non può essere vinta che da santi innocenti: «Con la bocca dei bimbi e dei lattanti affermi la tua potenza contro i tuoi avversari» (Salmo 8). L’avvenimento di Lourdes (1858) avrà nell’epoca contemporanea una portata ancor più grande di quella di Lepanto. «La recitazione continua del Rosario (chapelet) meditato o no ai piedi della grotta è come una scuola permanente di preghiera [«la bimba ai suoi piedi la sta ad ammirar, il segno di croce impara a ben far» recita una strofa dell’Ave Maria di Lourdes], alla quale con l’afflusso di pellegrinaggi dal 1872 partecipano la maggior parte delle parrocchie di Francia e degli altri Paesi. Preghiera di gruppo e pure preghiera personale. Quel che si impara e si vive a Lourdes si ripercuote dappertutto» (dal DdS). Leone XIII si fa interprete di questo slancio e lo raccomanda in ben sedici documenti dedicati al Rosario come l’unica arma di vittoria, «in modo particolare quando “il potere delle tenebre” [quelle tenebre che più volte don Giussani ha richiamato ai recenti esercizi spirituali della Fraternità di Comunione e liberazione] sembra che tutto possa osare a rovina della religione cristiana» (enciclica Quamquam pluries del 15 agosto 1889, con cui il Papa introduce la preghiera a san Giuseppe). «Questo stato di cose dimostra con evidenza sempre maggiore quanto sia assolutamente necessario che chi è cattolico perseveri, “senza cessar mai” (1Ts 5, 17), nel rivolgere preghiere e suppliche; e non soltanto in privato, ma ancor più in pubblico, insieme nei sacri templi, scongiurino Dio perché voglia, nella sua infinita bontà, liberare la sua Chiesa “da uomini perversi e malvagi” (2Ts 3, 2), e voglia ricondurre i popoli confusi sulla via della salvezza e della ragione, con la luce e con la carità di Cristo. Spettacolo incredibile e meraviglioso! Il mondo percorre la sua strada con fatica, orgoglioso per le sue ricchezze, per la sua forza, per le sue armi, per il suo ingegno: la Chiesa con passo sicuro e svelto attraversa i secoli riponendo la sua fiducia soltanto in Dio a cui di giorno e di notte innalza occhi e mani supplichevoli. Essa infatti, sebbene non disdegni, nella sua prudenza, i soccorsi umani che per la divina bontà i tempi le offrono, non è tuttavia in questi che ripone in primo luogo la sua speranza, ma nella preghiera, nella preghiera comune, nell’implorare Dio. È così che essa può alimentare e fortificare la sua vita, perché con l’assidua preghiera le può capitare la felice sorte di rimanere intatta dalle traversie umane e costantemente congiunta a Dio, così da vivere placida e tranquilla della vita stessa di Cristo, quasi a immagine di Cristo stesso, cui l’orrore dei tormenti sofferti per il nostro bene nulla diminuì né tolse della luce beatissima e del gaudio che gli sono propri» (enciclica Octobri mense del 22 settembre 1891). È la gioia della croce che riscatta il mondo. Per questo si corona di rose Maria.


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