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INCONTRI
tratto dal n. 05 - 2000

Elogio dello stupore


L’intervento del nostro direttore alla presentazione del libro di Luigi Giussani L’io, il potere, le opere. Roma, 10 maggio 2000


di Giulio Andreotti


Penso che chi è chiamato a presentare un libro, se è convinto della sua bontà, debba avere il fine di creare i presupposti perché molti siano poi indotti a leggerlo, a meditarlo.
Stasera sono stati già arati moltissimi terreni di questo libro1. Vorrei fare alcune osservazioni.
Don Giussani non è un autore facile. Aiuta, quando si legge qualche cosa di suo – sia un libro, un articolo o un’intervista –, pensare alla inflessione della sua voce, come se stesse parlando, perché ha dei contenuti formidabili, spesso ha molte citazioni sempre molto puntuali. C’è una traccia che uno deve però scoprire, una traccia che è di una semplicità assoluta nel suo concepire il rapporto con l’esterno, nel suo concepire il suo ministero sacerdotale.
I relatori della serata. 
Da sinistra, il professor Dario Antiseri, 
filosofo; il professor Giorgio Vittadini, presidente della Compagnia delle opere; 
il moderatore, il giornalista 
Roberto Fontolan; Giulio Andreotti; 
monsignor Diarmuid Martin, segretario 
del Pontificio Consiglio della giustizia 
e della pace

I relatori della serata. Da sinistra, il professor Dario Antiseri, filosofo; il professor Giorgio Vittadini, presidente della Compagnia delle opere; il moderatore, il giornalista Roberto Fontolan; Giulio Andreotti; monsignor Diarmuid Martin, segretario del Pontificio Consiglio della giustizia e della pace

Monsignor Martin ha detto che gli sarebbe piaciuto avere un professore di religione come don Giussani, e credo anche a tutti noi. Perché – per carità non parlo dell’attualità –, ognuno che abbia una storia (alcuni di noi, data l’età, una storia in parte archeologica) non ha sempre un ricordo dell’insegnante di religione come di qualcuno che incidesse. Eppure l’ora di religione è uno dei momenti nei quali la Chiesa ha modo di parlare anche a chi non va a messa, a chi non va in chiesa. Un altro momento è quello dei cappellani militari, e anche qui la società che si trasforma porta ad una serie di novità...
Comunque mi pare importante il concetto di base… È un concetto nato nel Sessantotto, probabilmente anche pensato prima, ma che nasce nel clima del Sessantotto, un clima che è di contestazione globale. Nasce anche dalla necessità di fare in modo che ci si difenda da questa contestazione, ma non per negarne dei motivi, alcuni anche positivi. Mi sembra che, allora, proprio la creazione del movimento, che poi nel libro viene man mano ripresa e riassunta, abbia questa funzione.
Molti dei sessantottini poi si sono ricreduti. Anzi, addirittura, adesso, senza fare esempi italiani, vediamo che la politica europea ha la guida di alcuni autorevoli sessantottini: Tony Blair, Schröder… Naturalmente qualche volta, come il pendolo, quando si passa da una posizione all’altra, forse prima di passare alla posizione giusta si va anche ad eccessi da antisessantottini.
La cosa importante mi sembra che sia il segreto che don Giussani ha e che pone come base: lo fa citando Paolo VI in maniera molto puntuale, quando dice che l’antidoto per risolvere i problemi critici è, il più possibile, formare «piccoli gruppi di pensiero, di preghiera e di azione che sarebbero restati come scintille nella notte e che un giorno sarebbero stati capaci di creare un immenso incendio». Dice don Luigi che questo «era anche il pensiero di Giovanni XXIII».
Ho citato questo perché mi sembra che anche se si deve mettere in evidenza la novità del modello che don Giussani ha proposto e ha realizzato, bisogna riconoscere una continuità. Non a caso in questa citazione di Paolo VI ci sono queste parole: «Piccoli gruppi di preghiera e di azione»; infatti nello stemma dell’Azione cattolica si leggeva: «Preghiera, azione, sacrificio». È chiaro che il modello che chiamiamo di Pio XI era un modello, a mio avviso, assolutamente aderente alle condizioni in cui eravamo. Era un centro di formazione, un centro di raccolta, era anche una forma di contrasto verso la concezione totalitaria dello Stato. Mi pare però importante che non si arrivi adesso a un eccesso opposto, e mi sembra che questo non accada. Però chi interpretasse don Giussani – sia il libro sia la sua “filosofia”– come qualcosa che debba essere in antitesi completa con il passato, sbaglierebbe, secondo me. Sbaglierebbe. Ma questo è un discorso che andrebbe fatto indipendentemente dal libro.
I movimenti sono una ricchezza formidabile. Con un solo rischio: che qualche volta si considerino “il tutto” e che allora abbiano nei confronti di altri movimenti una posizione, direi, “terrena”, quasi “concorrenziale”, e questo pericolo un po’ c’è. Del resto, quando leggiamo san Paolo (quando dice che c’era chi apparteneva a Pietro, chi apparteneva a Paolo, chi ad Apollo) risulta evidente che anche allora c’erano dei movimenti.
Però questo movimento che don Giussani crea ha una sua caratteristica diversa.
In una delle pagine più belle del libro, che mi ha colpito, si parla della necessità di «creare una casa più abitabile per l’uomo». Questo è un concetto globale ed è in tutta la parte che riguarda la politica, direi con la “p” maiuscola, come la sente don Luigi, e che riguarda i rapporti con lo Stato.
Vorrei fare una piccola parentesi. Allo sviluppo dell’Irlanda ha contribuito notevolmente, e in modo determinante, la Comunità europea2. Senza l’aiuto della Comunità europea – che naturalmente è stato ben utilizzato, senza dubbio con serietà di gestione –, senza questo aiuto, che partiva proprio dal concetto di solidarietà e di necessità di dare una priorità di aiuto alle zone più depresse dell’Europa, non ci sarebbe stata la scintilla iniziale che ha creato poi lo sviluppo dell’Irlanda. Questo non lo dico perché voglio sottovalutare lo Stato irlandese o il popolo irlandese, ma perché mi pare giusto che si ricordi anche questo aspetto. Lo dico anche per un’altra ragione, che qui nel libro è ricordata. Si va verso la globalizzazione (adesso siamo tutti presi dalla mondializzazione, dalla globalizzazione), che può essere una grande opportunità, senza dubbio, ma anche un grandissimo rischio, perché può essere una forma di relativo indifferentismo.
Lo Stato. Qui è stato citato il Sillabo di Pio IX da cui oggi fra l’altro vengono prese separatamente righe o mezze righe facendo tanta confusione! Io spero che l’evento della beatificazione faccia finalmente distinguere l’azione di Pio IX come uomo (massima espressione della cristianità) da quella che era la sua azione politica. Ancora oggi stupidamente – abbiate pazienza se ho fatto questo inciso – alcuni lo vogliono dipingere, anche se con meno virulenza del passato, quasi come un nemico dell’unità d’Italia. Ma non è assolutamente vero. L’Italia era spezzettata in tanti Stati e non sarebbe stata, non solo moralmente, ma anche politicamente, possibile una rinuncia unilaterale. Ma nei prossimi mesi dovremo approfondire il discorso.
È stata fissata nella stessa data la beatificazione di Giovanni XXIII e Pio IX. Non so quale sia la filosofia di fondo. Chiedo scusa e non vorrei scandalizzare nessuno dicendo che forse è come quando si prendeva l’olio di ricino: affinché fosse meno cattivo si metteva una fetta di arancia. In questo caso, allora, io non so quale sia l’arancia e quale sia l’olio di ricino! Chiudo però la parentesi, perché è un discorso al di fuori del libro di cui ci stiamo occupando.
Una fotografia tratta da Elio Ciol, 
Cinquant’anni di fotografia, 
Federico Motta Editore, 
Milano 1999

Una fotografia tratta da Elio Ciol, Cinquant’anni di fotografia, Federico Motta Editore, Milano 1999

Mi sembra importante verso lo Stato questo indirizzo di serietà. Nei discorsi fatti, in quello che ha ricordato poc’anzi Vittadini, in alcuni altri accenni del libro, nelle due o tre pagine che riguardano anche la Democrazia cristiana (con uno spirito anche critico; forse se alcune cose fossero state da tutti noi meditate tempestivamente probabilmente la situazione sarebbe stata diversa da quella che poi si è avuta), il concetto fondamentale è quello della compagnia. Ed è molto bella la rivalutazione della parola “compagno”. “Compagno” è un termine abusivamente preso, nel passato, da qualcuno… Ci si nutre insieme dello stesso pane, cioè si spezza il pane… è questo dare un senso concreto alla socialità.
Direi che su alcune cose don Luigi mette molto l’accento, e non a caso.
È per una mia curiosità, per un mio vizio, che quando prendo in mano un libro la prima cosa che vado a guardare è l’indice dei nomi, perché dà un orientamento. In questo libro, se guardate l’indice dei nomi, c’è una prevalenza enorme di Giovanni Paolo II rispetto a tutti. È la constatazione di quella che è una realtà.
Poi don Luigi valorizza la tradizione attraverso, per esempio, l’importanza del concetto della sussidiarietà inteso nel senso corretto, cioè non che l’individuo o i gruppi intermedi devono fare tutto quello che lo Stato non può fare ma, viceversa, che si deve proprio partire dal basso. E questo è chiarito mi pare molto bene. Del resto poi è la condizione di base sia della Compagnia delle opere sia del movimento.
Una frase bella ma inquietante di don Luigi, che poi ha ripetuto più volte, è il suo augurio che non si sia mai tranquilli. Può sembrare veramente un paradosso ma invece è vero! Questa necessità di concepire le cose che accadono, anche con il loro aspetto alcune volte prevalentemente o totalmente negativo, sempre come possibili di essere corrette secondo un indirizzo giusto.
Anche l’accenno al colloquio con i non cristiani è certamente molto importante. Il colloquio interreligioso da un lato deve essere condotto da teologi, da filosofi, ma dall’altro deve trovare dei punti di incontro su quella che è la realtà del mondo, su quella che chiamiamo appunto la socialità. Qui è espresso più volte questo concetto: che dobbiamo cercare di essere compresi dagli altri, perché certo, delle volte c’è un atteggiamento fondamentalista da parte degli altri, un atteggiamento chiuso; però altre volte, da parte nostra, non si vede, per così dire, “l’umanesimo cristiano”, non si vede nella realtà. In fondo il Vangelo è fatto non di prediche ma di azione. Gesù Cristo non ha scritto niente, non ha lasciato niente di scritto. I suoi discorsi erano discorsi a parabole, proprio perché fossero accessibili, ma erano avvalorati dalla sua azione: curava gli infermi. Questa era un’azione di carattere sociale. Non è una confusione di piani; credo che questo sia un nuovo approccio che si debba avere nel colloquio con i non cristiani. Un approccio che deve essere realizzato anche attraverso le opere, attraverso iniziative di carattere pratico evidentemente disinteressate. E nel libro mi pare che ci sia tutto questo.
Viene ribadito molto bene da don Luigi, laddove cita anche Giovanni XXIII nella Mater et magistra, il diritto all’associazionismo. Questo è un fatto importante: il senso dei valori intermedi, il senso della famiglia, anche da un punto di vista di gerarchia di valori. Secondo me questo c’è, perché il totalitarismo può essere una tentazione, una tentazione che poi non passa.
E arrivo a una conclusione. Intanto c’è tutta una parte che vi consiglio perché è molto bella, anche come meditazione sul concetto di religione: il concetto di stupore, il concetto di amore alla Madonna. È molto bello perché direi che si inserisce nel quadro globale di questo insegnamento che ci viene dato.
Ma il finale, le ultime parole, mi hanno colpito proprio perché all’origine c’è, andando a più di trent’anni fa, questa reazione, chiamiamola anche difensiva, da quello che era un assalto… un assalto anche fisico ai ragazzi del suo liceo di Milano. Sono le ultime parole di questo libro: «L’amore è possibile anche col nemico, col tiranno, per la carità dell’Ultimo e per l’Ultimo, come passione di offerta al Divino, anche quando essa non è consapevole, di tutte le fatiche umane». A me è sembrata veramente una linea di indirizzo che certo è controcorrente, perché va contro quella che è una tendenza, un istinto, va contro l’uomo lupo verso l’altro uomo. E questo non è solo di un determinato periodo storico. Oggi a me sembra positivo avere, anche della propria presenza religiosa, questa concezione nello stesso tempo molto intransigente sui princìpi, ma molto aperta nel contatto, molto recettiva di tutte quelle che sono le possibilità.
Una parola che ricorre più volte in questo libro è “stupore”. Se c’è oggi forse un guaio nelle nostre generazioni è che non siamo più capaci di avere stupore, anche nella nostra vita collettiva. Forse se pensiamo all’ultimo momento di stupore, è stato la notte in cui vedemmo gli uomini arrivare sulla luna, guidati alla televisione dal cronista con delle parole così belle, anche di carattere spirituale, che univano la perfezione di tecnica a un contenuto umano. Forse abbiamo perduto questo senso di stupore. Io credo che la lettura di questo libro ci possa essere anche di stimolo a non perdere del tutto lo stupore, anche se qualche volta si fa fatica a sentirlo e a trasmetterlo un po’ agli altri.

[A questo punto Giulio Andreotti lascia la parola agli altri relatori per un altro loro breve intervento. Sua, infine, la conclusione]

Un altro spunto che mi pare molto bello è quello di rifiutare il concetto di tolleranza. La parola tolleranza ha sempre qualche cosa di arrogante, in fondo; invece la comprensione, il dialogo, questo mi sembra che sia un altro dei tracciati che questo libro ci aiuta a seguire.
Una prima cosa la vorrei dire riguardo alla scuola (perché non voglio sfuggire dal problema sollevato negli altri interventi). Certamente il fatto di avere noi una tradizione che non è laica – laici lo siamo tutti – ma è “laicista”, pesa notevolmente sulle tappe per la concessione dei diritti che ciascuno ha. Diritti poi conformi a quello che oltretutto è già nelle realtà dei Paesi che fanno parte del Consiglio d’Europa.
Credo quindi che ci sia la necessità da un lato di far maturare questo concetto di libertà della scuola come una necessità vera di avere cose concrete; però c’è anche qualche cosa che dobbiamo fare noi. E cito la storia tormentata dell’Università Cattolica e gli strumenti che la Provvidenza di Dio ha utilizzato per l’Università Cattolica. Quando l’Università Cattolica doveva nascere, c’era la difficoltà di averne il riconoscimento. L’Università Cattolica è nata sotto un ministro dell’Educazione nazionale che si chiamava Giovanni Gentile. L’Università aprì, si andò avanti, ma tardava ad arrivare l’autorizzazione a rilasciare le lauree. Un po’ perché c’erano problemi obbiettivi, un po’ perché questa Università Cattolica non era vista bene dalla struttura dominante… Passò il primo anno, il secondo, il terzo. Si era al quarto anno quando ormai i primi studenti erano lì lì per laurearsi e se non fosse arrivato il riconoscimento sarebbe stato un incredibile inganno verso quei giovani. Padre Gemelli andò dal ministro, il quale avendo in mano gli appunti ministeriali, disse: «Voi non avete un patrimonio sufficiente e quindi non c’è solidità». Padre Gemelli gli rispose: «Guardi che il nostro patrimonio è nelle offerte che un giorno all’anno, tutti i cattolici italiani, anche dai comuni più lontani, fanno per l’Università Cattolica». E il ministro disse: «Va bene… Ma vorrei vedere se nell’Italia del sud, nella mia Sicilia, danno offerte per l’Università Cattolica di Milano». Padre Gemelli ci raccontava che aveva avuto un momento di terrore perché allora venivano pubblicate le offerte città per città, diocesi per diocesi, in un libro che probabilmente serviva anche per provare che c’era una certa generosità. Il ministro andò a controllare se il comune di Castelvetrano era contributore e per fortuna lo era, e anche in misura generosa. Così disse subito: «Allora veramente questa è una garanzia», e firmò il decreto.
Qualche volta penso che noi cristiani moderni dimentichiamo, forse, che la caratteristica dei cristiani, anche in periodi difficili, era quella di mettere a fattore comune tutto quello che si aveva. Non credo che adesso si possa dire questo, probabilmente sarebbe un’utopia. Però io credo che se, come facciamo per l’Università Cattolica, facessimo una giornata l’anno per la scuola cattolica, probabilmente non solo risaneremmo i bilanci, ma probabilmente saremmo più forti. So che questo può sembrare un girare attorno al problema, ma non è così. Io ci credo veramente, come credo che sia stato un passo avanti notevole, dopo cinquant’anni, superare quelle terribili parole, «senza oneri per lo Stato», che sono nella Costituzione per una proposta di emendamento fatta dal liberale Corbino. Abbiamo faticato moltissimo per riuscire a superare queste parole. Nella stessa Costituente era detto con chiarezza, dallo stesso Corbino e da una fonte ineccepibile che era il professor Tristano Codignola, che era il corifeo della scuola laicista, che questo non voleva dire che non c’era la possibilità di aiutare la scuola privata. Codignola parla anzi, per esempio, degli aiuti per le scuole professionali. Certamente questo non è un punto di arrivo, ma è un punto di partenza. E io credo che sotto questo aspetto dobbiamo nutrirci un po’ dello spirito che ci dà la lettura e la meditazione di quanto scrive e di quanto dice don Luigi, che fa bene sia a noi, che per età e per il resto siamo in congedo, sia a quelli che sono attivi nella vita pubblica: lo Stato non deve essere un nemico; lo Stato deve essere qualche cosa che noi sappiamo costruire. E in un certo senso, poi, tutta la filosofia del suffragio universale è proprio questa. Anche se il discorso ci porterebbe fuori tema, c’è oggi l’illusione assoluta di far risolvere direttamente alla gente tutti i problemi tramite i referendum, che è una cosa assolutamente fuori luogo, secondo me.
Però su questo, per carità, non so come voterà don Giussani. So come voterò, cioè come non voterò io, perché non andrò a votare.

(Il testo riproduce più fedelmente possibile il parlato)

note
1 L’intervento del presidente Andreotti inizia dopo quello degli altri tre relatori della serata: monsignor Diarmuid Martin, segretario del Pontificio Consiglio della giustizia e della pace; il professor Dario Antiseri, filosofo; il professor Giorgio Vittadini, presidente della Compagnia delle opere.
2 Monsignor Martin nel suo intervento ha indicato nel notevole sviluppo sociale ed economico dell’Irlanda negli ultimi anni un significativo esempio del ruolo determinante dello Stato nella crescita di un Paese.


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