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BACHELET VENT’ANNI DOPO
tratto dal n. 05 - 2000

Il sacrificio dell’agnello


Ettore Gallo capeggiò il voto contrario a Bachelet nell’elezione alla vicepresidenza del Csm. Poi gli divenne amico imparando sul campo ad apprezzarne le doti umane e professionali. Ecco la sua testimonianza


di Ettore Gallo


Ogniqualvolta mi affaccio al ricordo del povero, caro Vittorio mi prende una grande commozione. Avevo le lacrime agli occhi quando lo commemorai, in una gremita aula della Corte d’appello di Bari, a pochi giorni dall’infame assassinio (il discorso fu pubblicato dal Consiglio), e gli occhi mi ritornano umidi nel riparlarne vent’anni dopo.
Dissi allora, e confermo oggi, che si è trattato del sacrificio dell’agnello; un sacrificio che dovrebbe ancor oggi pesare come un macigno sulla coscienza degli autori del crimine.
E pensare che – come ricorda il senatore a vita Andreotti nel suo bell’articolo sul numero di febbraio di questa rivista – non solo la sua elezione, nei primi giorni del 1976, fu «fortemente ostacolata dalle sinistre che gli votarono contro compatte». Ma devo confessare che fui proprio io a capeggiare quel voto contrario, che per poco non lo escluse dalla vicepresidenza. In verità, la mia qualità di laico convinto influì ben poco sulla mia iniziativa, anche perché non conoscevo affatto quello che poi divenne un carissimo, indimenticabile amico. Più che la linea della sinistra, io sostenevo in realtà la candidatura di un altro amico, al quale ero profondamente legato per ammirazione, per affinità di sentimenti e di pensiero scientifico: ognuno ha inteso che alludo a Giovanni Conso. Tuttora sono sicuro che Giovanni sarebbe stato un grande presidente, come lo fu Vittorio Bachelet; e, del resto, ebbe a dimostrarlo in quel breve scorcio finale, allorquando dovette accollarsi il grave compito.
Fui io, dunque, che, nel tentativo di raccogliere qualche altro voto, chiesi di poter parlare al capo dello Stato, che era venuto a presiedere il Consiglio superiore della magistratura in occasione del voto. Si trattava di Giovanni Leone, troppo esperto per lasciarsi sorprendere dalla mia ingenua sortita. «Eh no, caro Gallo» mi disse; «non è possibile perché siamo in sede di voto. E poi, vedi, io ho già votato», e in così dire lasciò cadere nell’urna (ch’era stata collocata a lui vicino) la sua scheda. Silenzio pesante nell’aula, ma ormai non c’era alternativa; e il voto si concluse con l’elezione di Vittorio Bachelet.
Nei mesi successivi potei rendermi conto di quale gentiluomo si trattasse: sempre attento affinché, nelle sedute, ciascuno godesse del più ampio diritto di parola, sempre vigile a mantenere il dibattito su di un piano di grande civiltà e cortesia, pur indulgendo a qualche eccesso oratorio. E sapeva ascoltare paziente per ore e ore, mentre a se stesso riservava un tempo minimo, nel quale però coglieva il punto focale dell’intera discussione, spesso orientando la soluzione a criteri di serenità e di misura. Quale presidente della Sezione disciplinare, di cui feci parte per l’intero corso di quel drammatico Consiglio, dimostrò sempre l’umanità che lo distingueva, ma fu inflessibile sulle questioni di principio che riguardavano la dirittura e l’imparzialità del magistrato. Diventammo presto amici e quando, dopo qualche mese di direzione dell’Ufficio studi e della rivista, ebbi la presidenza della prima Commissione, imparai ad apprezzarne anche la grande cultura e il vivo senso dell’equilibrio. Com’è noto quella Commissione ha compiti delicatissimi perché raccoglie scritti, ricorsi, lamentele a carico dei magistrati e, quando ritiene che possano avere qualche fondamento, apre un’inchiesta e – se del caso – accede anche sul posto a svolgere un’indagine preliminare, talvolta anche tramite l’Ispettorato del Ministero della Giustizia. Dopodiché riferisce al plenum del Consiglio che decide se si debba aprire un procedimento disciplinare formale, nel qual caso devono essere attuate tutte le garanzie a tutela dell’incolpato. Ovviamente si tratta di procedimenti riguardanti i casi di incompatibilità ambientale del magistrato a esercitare ulteriormente in quel certo luogo le sue funzioni, sia pure non per sua colpa. Altrimenti la competenza ad aprire il procedimento disciplinare spetta al ministro o al procuratore generale della Corte di cassazione, ai quali vanno trasmessi gli atti. Ebbene, in quegli anni (tenni quella presidenza per tutta la durata del Consiglio), molto spesso ebbi occasione di consultarmi con lui in ordine a casi di estrema delicatezza, e così ebbi modo di conoscerlo appieno e da vicino, e debbo dire che ne rimasi edificato. Una sola volta avemmo un piccolo, ma assolutamente momentaneo, contrasto. Fu quando per alcuni giorni i mezzi d’informazione riportarono, con malcelato scandalo, che in una delle nostre grandi isole era in corso in Corte d’assise d’appello un processo contro alcuni mafiosi, e si diceva che il presidente, mentre mostrava molto garbo e rispetto nei confronti degli imputati e dei testi a difesa (il che peraltro era da apprezzare), si sarebbe comportato molto diversamente nei confronti dei testi d’accusa, che ne apparivano intimiditi.
Vittorio mi convocò dicendomi che dovevo assolutamente accedere sul posto con una delegazione della Commissione per accertare cosa stava succedendo. Gli feci notare che non era possibile: «Come», ribatté stupito, «ma non ti sei reso conto che l’opinione pubblica è scandalizzata?». «È vero», gli risposi, «ma noi siamo l’organo di governo della Magistratura e dobbiamo per primi rispettare la sua autonomia. Se accedessimo laggiù nel corso del dibattimento, tutti avrebbero l’impressione che si voglia influire sul giudizio, il che sarebbe ancora più pregiudizievole». Mi guardò fisso per qualche secondo, e poi, allentando la tensione del volto, «hai ragione» mi disse «e allora scegli tu stesso il momento che riterrai più opportuno, ma devi andare». E andammo, infatti, appena concluso il processo, trovando un procuratore generale sdegnato, qualche preoccupazione nel foro e nei cittadini, ma nel complesso la situazione risultò meno drammatica di quanto s’era creduto.
In sostanza, quel magistrato era un brav’uomo, che aveva però la sventura di possedere una casa in campagna, con podere, nel bel mezzo di una zona malavitosa. Forse era anche stato intimidito: sta di fatto che il suo comportamento era solo una risposta del tutto formale al pericolo nel quale versava. Accolse di buon grado la proposta di essere trasferito sul continente, anche perché non era lontano dal pensionamento. La sentenza, comunque, se mal non ricordo, fu impugnata dal pubblico ministero, e lo scandalo si dissolse.
Vigile e accorto, quindi, Vittorio, all’immagine della magistratura, ma subito rispettoso dei princìpi di autonomia e indipendenza che la Costituzione a essa riconosce.
Quando il delitto fu commesso, anch’io stavo tenendo lezione all’Università di Firenze. Lo appresi poco dopo al ristorante, dove mi raggiunse, a portarmi la notizia, un conoscente cui mia moglie aveva telefonato non trovandomi più all’Università. Mi misi in relazione col preside della facoltà, ottenendo licenza di allontanarmi, sicché nel pomeriggio ero a Roma. Ci ritrovammo tutti al Consiglio, stupiti e ancora increduli per il sacrificio di un uomo mite, umano, disponibile. Nessuno di noi quella notte riuscì a chiudere occhio e, del resto, nel Paese il compianto fu unanime. Il ricordo di quel galantuomo è rimasto nel nostro cuore come una ferita.


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