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GIUSTIZIA E PACE
tratto dal n. 05 - 2002

Un intervento del cardinale vietnamita François Xavier Nguyên Van Thuân

Il contagio della carità


Le parole del presidente del Pontificio Consiglio della giustizia e della pace, alla mostra-convegno “Civitas” di Padova: «Quando ero in prigione, i miei carcerieri mi raccontavano che il loro capo aveva detto loro: “Sorvegliate questo pericoloso vescovo, ma senza parlargli, altrimenti lui vi contaminerà e sarò costretto a sostituirvi”. Ma dopo un po’ li aveva riconvocati dicendo: “Ormai non vi cambierò più, perché se continuo a sostituirvi, questo pericoloso vescovo contaminerà tutta la polizia”»


François Xavier Nguyên Van Thuân


Il cardinale François Xavier Nguyên 
Van Thuân presidente del Pontificio Consiglio  della giustizia e della pace

Il cardinale François Xavier Nguyên Van Thuân presidente del Pontificio Consiglio della giustizia e della pace

Gentili signore, illustri signori, è per me una grande gioia essere qui con voi e con il senatore Giulio Andreotti dal quale tanto ho imparato!
Senza preamboli, entro subito nel merito del mio breve intervento nel quale mi ripropongo di trattare tre argomenti. Primo: la natura e la funzione del Pontificio Consiglio della giustizia e della pace; ne parlo in quanto presidente. Secondo: come mettere in pratica quanto si studia e si elabora in seno al Pontificio Consiglio; ne parlo in quanto pastore. E per ultimo: una breve esperienza personale come vescovo in prigione.
Il santo padre Giovanni Paolo II, nel suo magistero sociale, in particolare nell’enciclica Centesimus annus, parla anche delle res novae, delle novità del mondo di oggi. Questa espressione è stata usata per la prima volta da papa Leone XIII, nella Rerum novarum: sono i problemi nuovi del mondo. Come si è andato sviluppando questo interesse della Chiesa per quanto di nuovo attraversa la famiglia umana e come ne è nato il Pontificio Consiglio della giustizia e della pace? È un frutto del Concilio Vaticano II! I padri conciliari, come è noto, incontrarono difficoltà nel portare a termine la costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, pressati come erano, oltre tutto, dalla data fissata per la chiusura del Concilio che ebbe luogo, effettivamente, il giorno dopo l’approvazione del documento. I padri conciliari si espressero quindi, al numero 90 della Gaudium et spes, in favore dell’opportunità della creazione, da parte del papa, di «un organismo della Chiesa universale... che avrà come scopo di stimolare la comunità dei cattolici a promuovere lo sviluppo delle regioni bisognose e la giustizia sociale tra le nazioni», per seguire, appunto, le res novae. Il santo padre Paolo VI, dopo due anni di riflessione, istituì, con un motu proprio pubblicato il 6 gennaio del 1967 (atholicam Christi Ecclesiam), la Pontificia Commissione “Iustitia et Pax”.
«“Giustizia e Pace” è il suo nome e il suo programma» scriveva il Papa, due mesi più tardi, nella Populorum progressio, l’enciclica che, ponendosi in certo qual modo «quale documento di applicazione degli insegnamenti del Concilio» (Sollicitudo rei socialis n. 6), costituisce, con la Gaudium et spes, il punto di partenza e di riferimento del nuovo organismo. Dopo un periodo sperimentale della durata di dieci anni, lo stesso Paolo VI, con un nuovo motu proprio (Iustitiam et pacem), del 10 dicembre 1976, diede alla Commissione il suo mandato definitivo.
Infine, la costituzione apostolica Pastor bonus, del 28 giugno 1988, con la quale Giovanni Paolo II ha disegnato la nuova fisionomia della Curia romana, ha trasformato la Pontificia Commissione in Pontificio Consiglio della giustizia e della pace, riconfermandone, a grandi linee, le funzioni.
Le attività di “Giustizia e Pace” si muovono lungo tre direttrici: la giustizia, la pace e i diritti umani. Ma come porta avanti, il Consiglio, il mandato affidatogli? Nell’impossibilità di enumerarne i numerosi campi di azione e citare i suoi diversi interlocutori, parlerò solo brevemente dello strumento privilegiato di cui esso dispone: la dottrina sociale della Chiesa. Tanta è l’importanza che Giovanni Paolo II attribuisce all’insegnamento sociale, – definito “strumento di evangelizzazione” nella Centesimus annus (n.54) – che ha affidato al Pontificio Consiglio della giustizia e della pace il compito di preparare un documento di riferimento sulle sue linee fondamentali, che sarà pubblicato quest’anno. Su che verterà questa sorta di compendio di dottrina sociale della Chiesa? Vi si tratterà della natura dell’insegnamento sociale cattolico, della persona umana, della famiglia, dell’ordine sociale, del ruolo dello Stato, della democrazia, dell’economia, del lavoro e del salario, della disoccupazione, della povertà e della carità, dell’ambiente, della bellezza del creato e dei problemi ambientali, della comunità internazionale, dell’immigrazione e del debito estero. Tutto ciò rientra nel mandato di “Giustizia e Pace” che lavora al servizio della Chiesa e della società per illuminare con la luce del Vangelo il discernimento in merito a questi temi.
Il Concilio Vaticano II ha definito la politica «arte nobile e difficile» (Gaudium et spes n. 73). Ad oltre trent’anni di distanza e in pieno fenomeno di globalizzazione, tale affermazione trova conferma nel considerare che alla debolezza e alla fragilità dei meccanismi economici di dimensioni planetarie si può rispondere solo con la forza della politica
Vengo al secondo argomento. Forse sono troppo ambizioso perché sono in un campo che non è proprio il mio, la politica. Tuttavia, nella pubblicazione alla quale ho appena accennato si parlerà anche dell’applicazione dei principi dell’insegnamento sociale, punto di riferimento dei cristiani per «compiere fedelmente» come dice la Gaudium et spes «i propri doveri terreni facendosi guidare dallo spirito del Vangelo» (n.43). E poiché si agisce attraverso la politica, bisogna formare la gente che fa politica. Per questo io oso parlarne, facendolo da pastore. E, se il Santo Padre ha parlato del decalogo di Assisi, io vi parlo delle beatitudini del politico. Non peccati, ma beatitudini. Le otto beatitudini del politico.
1.Beato il politico che ha un’alta consapevolezza ed una profonda coscienza del suo ruolo.
Il Concilio Vaticano II ha definito la politica «arte nobile e difficile» (Gaudium et spes n. 73). Ad oltre trent’anni di distanza e in pieno fenomeno di globalizzazione, tale affermazione trova conferma nel considerare che alla debolezza e alla fragilità dei meccanismi economici di dimensioni planetarie si può rispondere solo con la forza della politica, cioè con un’architettura politica globale che sia forte e fondata su valori globalmente condivisi.
2. Beato il politico la cui persona rispecchia la credibilità.
Ai nostri giorni, gli scandali nel mondo della politica, legati per lo più all’alto costo delle campagne elettorali, si moltiplicano facendo perdere credibilità ai suoi protagonisti. Per ribaltare questa situazione, una risposta forte è necessaria, una risposta che implichi riforma e purificazione al fine di riabilitare la figura del politico.
3. Beato il politico che lavora per il bene comune e non per il suo proprio interesse.
Per vivere questa beatitudine, il politico interpelli la sua coscienza e si domandi: sto lavorando per il popolo o per me? Sto lavorando per la patria, per la cultura? Sto lavorando per onorare la moralità? Sto lavorando per l’umanità?
4. Beato il politico che si mantiene fedelmente coerente.
Occorre una coerenza costante fra la sua fede e la sua vita di persona impegnata in politica; una coerenza ferma fra le sue parole e le sue azioni; una coerenza che onori e rispetti le promesse elettorali.
5. Beato il politico che realizza l’unità e, facendone di Gesù il fulcro, la difende.
Questo, perché la divisione è autodistruzione. Si dice in Francia: «I cattolici francesi non sono mai in piedi tutti insieme, salvo che al momento del Vangelo». Mi sembra che questo detto popolare si possa applicare anche ai cattolici di molti altri Paesi!
6. Beato il politico che è impegnato nella realizzazione di un cambiamento radicale.
Tale cambiamento avviene lottando contro la perversione intellettuale; avviene non chiamando bene ciò che è male; non relegando la religione nel privato; bensì stabilendo le priorità delle scelte sulla base della sua fede; avendo una magna charta: il Vangelo.
7. Beato il politico che sa ascoltare.
Che sa ascoltare il popolo, prima, durante e dopo le elezioni; che sa ascoltare la propria coscienza; che sa ascoltare Dio nella preghiera. La sua attività ne trarrà certezze, sicurezza ed efficacia.
8. Beato il politico che non ha paura.
Che non ha paura, prima di tutto, della verità: «La verità» dice Giovanni Paolo II «non ha bisogno di voti!». È di se stesso, piuttosto, che dovrà aver paura. Il ventesimo presidente degli Stati Uniti, James Garfield, usava dire: «Garfield ha paura soltanto di Garfield, perché si conosce». Non tema, il politico, i mass media. Al momento del giudizio finale egli dovrà rispondere a Dio, non ai mass media!
Quello che vi ho appena proposto è un sommario da pastore: io non entro nel campo della politica, posso sbagliare, ma parlo semplicemente da pastore.
E adesso, da vescovo che è stato in prigione, una piccola testimonianza, il racconto di una piccola esperienza. Sono stato in prigione per tredici anni, e nove anni in isolamento senza mai una visita della famiglia – soltanto due lettere della mia mamma – e senza giornali e libri. È una tortura mentale. La prigione era completamente vuota, c’era soltanto un’équipe di cinque giovani poliziotti comunisti che mi sorvegliavano senza rivolgermi mai la parola. Io mi domandavo che cosa potessi aver fatto loro, ma eravamo agli antipodi e loro evitavano di parlarmi, di comunicare. C’era soltanto una cosa: io avevo deciso di amarli. Ma poiché non potevo dare niente – ero così povero –, come mostrare loro che li amavo? Allora cominciai a raccontare loro della vita in Italia, dove avevo studiato, della mia vita prima in Europa, poi in America, in Asia, in Australia e in Nuova Zelanda. E allora pian piano la loro curiosità si eccitava, si avvicinavano e mi domandavano varie cose. Io rispondevo sempre, rispondevo anche alle domande offensive. Pian piano diventarono miei amici, mi chiesero di insegnare loro il francese e l’inglese e mi portarono libri affinché potessi studiare il russo: eravamo, infatti, sotto il comunismo.
Un giorno dovevo tagliare della legna e chiesi ad uno di loro se mi poteva fare il favore di lasciarmi tagliare un pezzo di legno a forma di croce. «È vietato!», rispose. Poi aggiunse: «È vietato, non si può avere nessun segno religioso in prigione, ma lei è mio amico», e mi lasciò fare. «È impossibile», disse ancora, «andrò in prigione per questo», ma chiuse gli occhi e mi lasciò fare. «Sono tuo amico» mi disse; non poté più resistere. Ed andò via.
Così mi lasciò il tempo per tagliare un pezzo di legno in forma di croce, che io nascosi nel sapone per tanti anni, fino alla mia liberazione, per evitare che i capi lo scoprissero durante i controlli. Poi lo incastonai nel metallo e ne feci la mia croce pettorale. Questa croce che oggi porto è fatta con il legno preso dalla prigione ed è stata costruita con la complicità dei poliziotti comunisti.
In un’altra prigione un giorno domandai ad un poliziotto se mi poteva dare un filo elettrico. «Che cosa vuole fare con il filo elettrico?» mi chiese, «vuole suicidarsi?»; «No», risposi. «E allora a cosa le serve il filo elettrico?»; «vorrei fare una catena per portare la mia croce». «Ma come si può fare una catena con il filo elettrico?». In effetti i vescovi hanno almeno delle catene d’argento, ma un filo elettrico... Risposi che lo potevo fare. «Prestami due piccole tenaglie e ti mostrerò». «È contro la sicurezza» mi disse», «non posso». Ma pochi giorni dopo tornò per dirmi: «Lei è un buon amico, non posso rifiutare, domani è il mio turno di guardia ed io verrò con il filo elettrico. Ma in quattro ore bisogna finire il lavoro, dalle sette alle undici, altrimenti, se qualcuno ci vede, può denunciarci». Allora mi aiutò. Con pezzi di fiammiferi misurammo il filo elettrico per tagliarlo, e con le piccole tenaglie facemmo in quattro ore la catena per portare la croce. Anche questo con la complicità di poliziotti comunisti diventati amici di un vescovo.
Ciò di cui avevano paura è l’amore cristiano. Questi poliziotti mi domandavano spesso: «Lei ci ama o no?». «Sì, io vi amo, ho vissuto con voi tanti anni». «È veramente molto bello, ma impossibile. La mettiamo in prigione per più di dieci anni senza giudizio, senza sentenza, e lei ci ama?». «Io vi amo». «Perché?». «Perché Gesù mi ha insegnato ad amarvi e se voi volete uccidermi io continuo ad amarvi»
Loro poi mi raccontarono: «Quando il capo ci ha convocati per mandarci a controllarla, ci ha detto: “Andate a sorvegliare questo pericoloso vescovo. Non parlategli, altrimenti lui vi contaminerà e sarò costretto a cambiarvi dopo due settimane con un altro gruppo”». Il capo però li seguiva per controllare i loro atteggiamenti. Alla fine li riconvocò e disse loro: «Ormai non vi cambierò più, perché se vi cambio ogni due settimane, questo pericoloso vescovo contaminerà tutta la polizia».
Ciò di cui avevano paura è l’amore cristiano. Questi poliziotti mi domandavano spesso: «Lei ci ama o no?». «Sì, io vi amo, ho vissuto con voi tanti anni». «È veramente molto bello, ma impossibile. La mettiamo in prigione per più di dieci anni senza giudizio, senza sentenza, e lei ci ama?». «Io vi amo». «Perché?». «Perché Gesù mi ha insegnato ad amarvi e se voi volete uccidermi io continuo ad amarvi». «Noi abbiamo imparato soltanto l’odio e la vendetta, è impossibile amare i nemici». «Ma siamo insieme, voi siete miei amici». «È vero, ma è incomprensibile».
Io penso, carissimi amici, che ciò che la Chiesa può fare nella giustizia, nel perdono, nella riconciliazione è un contributo molto valido per la giustizia e per la pace nel mondo di oggi. Grazie.


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