CHIESA CATTOLICA
tratto dal n. 03 - 2000

O Roma felix


Don Orione e Roma nei ricordi del cardinale Giovanni Canestri. Una storia di fede, povertà, santità


Intervista con il cardinale Giovanni Canestri di Giovanni Cubeddu


Don Orione sulle scale del San Filippo nel 1938. Don Orione è stato beatificato il 26 ottobre 1980

Don Orione sulle scale del San Filippo nel 1938. Don Orione è stato beatificato il 26 ottobre 1980

Il cuore di Luigi Orione era grande quanto i prati che si distendevano a Roma appena superata Porta San Giovanni in Laterano. Vita misera e contadina, larghe aree di agro insalubre. È lì che nel 1908 don Orione, amico di Giuseppe Sarto anche prima che divenisse Pio X, accettò di lavorare su incarico papale. Già sotto Leone XIII don Orione aveva iniziato un’opera di carità a Roma, a Monte Mario, ma ciò che ha fatto don Orione nella zona est di Roma (il quartiere Appio “fuori Porta San Giovanni”), fondando la parrocchia di Ognissanti e la scuola San Filippo, è ancora nel ricordo e nell’anima di molti, visibilmente. Pur nelle innumerevoli “missioni” in Italia e all’estero che egli seguiva, don Orione ebbe grande cura del quartiere Appio, amò e raccolse i bambini poveri o malfamati, li educò, li formò per la vita, dando quello che solo un santo può dare, e che lui aveva avuto quando don Bosco lo accolse a Valdocco. Così, quel tanto o tutto che fece, lo fece grazie alle preghiere e allo speciale aiuto della Provvidenza, a cui sempre tirò il mantello, anche nei modi pù estemporanei. L’incontro di quest’umile e ardente prete con Roma è una delle storie più belle che si possano raccontare: una storia di affetto, povertà, santità. Testimone di questo incontro è stato anche Giovanni Canestri, cardinale, conterraneo di Luigi Orione. L’occasione per chiedergli una testimonianza è data dai sessanta anni dalla morte di don Orione, avvenuta il 12 marzo 1940, ricordata nel quartiere Appio con la traslazione della reliquia del cuore di don Orione alla parrocchia Ognissanti e con manifestazioni durante le quali i testimoni oculari non trattenevano le lacrime.

Come inizia il rapporto, l’amicizia di Giovanni Canestri con Luigi Orione?
GIOVANNI CANESTRI: La mia conoscenza di don Orione e della sua opera viene veramente da lontano. Era piemontese ed alessandrino e ci teneva a sottolineare queste caratteristiche anche se era nato, il 23 giugno 1872, a Pontecurone, l’ultimo paese del Piemonte ai confini dell’Oltrepò Pavese. Anche io sono piemontese di Alessandria, dove da ragazzo sono stato seminarista. Da bambino ne sentivo parlare molto spesso. Non ricordo di avergli parlato, ma in famiglia si ricordavano le famose pentole di rame che i suoi chierici passavano a raccogliere per farle fondere e così erigere la grande statua della Madonna, perché dall’alto del santuario della Guardia vegliasse su Tortona. Quel piccolo, grande e santo prete conosceva bene il valore della religiosità e della pietà popolare per l’evangelizzazione!
Poi lei è venuto a Roma…
CANESTRI: Sì, al Seminario Romano. Frequentavo l’Università Lateranense. Appena ordinato prete, il cardinale vicario Marchetti Selvaggiani, dopo una breve esperienza a Pietralata, mi mandò a fare il viceparroco a San Giovanni Battista de Rossi, all’Alberone. Questa parrocchia da appena un anno s’era staccata da quella di Ognissanti, fondata da don Orione, ed era quindi di tradizione una parrocchia “orionina”. Parlavamo di don Orione, anche perché alcuni dei ragazzi di cui mi occupavo andavano a scuola al San Filippo, l’istituto che don Orione aveva aperto accanto alla parrocchia di Ognissanti. Don Orione aveva intitolato quella scuola a Filippo Neri, l’apostolo di Roma e il santo dei giovani e dell’allegria…
Come ricorda la Roma “fuori Porta San Giovanni”, il quartiere Appio di allora?
CANESTRI: Io mi riferisco al ’41. Vi sono stato poi fino al ’50. Il quartiere Appio e tutto l’ambiente erano poveri, anzi quasi miserabili. Non ricordo famiglie benestanti. Tanti giovani erano in guerra. Ricordo il tram azzurro in mezzo alla via Appia; correva (si fa per dire!) fino ai Castelli romani. Ricordo gli “alveari” oltre Ponte Lungo: le case popolari dei tranvieri dipendenti dell’Atac e della Stefer in circonvallazione Appia e in via Paolo Paruta. Eppure quegli anni ci hanno fatto del bene, e nella vita sono rimasti memorabili. La fame… le tessere annonarie… le mamme sempre più smunte e pallide per non lasciare mancare il minimo ai piccoli… e l’orticello di guerra. E quanta riconoscenza al Circolo San Pietro e al parroco don Marcello Urilli per le ottomila minestre distribuite ogni giorno! E, ancora, la Poa (Pontificia opera di assistenza) con la distribuzione di qualche vestito davvero senza pretese, ma così utile… Poi l’inverno col freddo, senza un minimo di riscaldamento… e in via Cesare Baronio il carbonaro che vendeva soltanto la cosiddetta “carbonella”. C’erano anche le paure: i bombardamenti a piazza Asti, i mitragliamenti alla valle della Caffarella e, a distanza di non più di un chilometro in linea d’aria, le Fosse Ardeatine…
«O Chiesa veramente cattolica Santa Madre Chiesa di Roma…». Dall’America, nel 1937, don Orione scrive  la lettera per la festa degli ottant’anni del papa Pio XI

«O Chiesa veramente cattolica Santa Madre Chiesa di Roma…». Dall’America, nel 1937, don Orione scrive la lettera per la festa degli ottant’anni del papa Pio XI

Di quella periferia romana don Orione ricordava i tanti «fanciulli e fanciulle che non uscivano quasi mai di casa per non avere di che vestirsi decentemente».
CANESTRI: La zona era molto povera davvero. Anche di scuole: in tutto il quartiere Appio, quando io l’ho conosciuto, ricordo una sola scuola elementare, molto ma molto numerosa, che era la Garibaldi, vicino al ponte della Ranocchia. Poi c’era l’Augustus, con il liceo classico, e c’era il Regina Margherita, con le magistrali. Queste erano le scuole statali e comunali. Putroppo si rischia di dimenticare le benemerenze delle scuole cattoliche in quegli anni. Erano davvero molte le scuole cattoliche tenute dalle suore. Ricordo le Apostole di via Sommeiller, le Immacolatine di via Taranto, le Figlie di Maria Ausiliatrice in via Appia nuova, le Dorotee di via Matera, i Salesiani di Santa Maria Ausiliatrice, le Suore della carità di Namur, le Missionarie francescane, le Suore del divino zelo e quelle del Preziosissimo sangue. E quando si aprivano le parrocchie – perché da Ognissanti, poi, sono sorte le numerose parrocchie della Roma est – le suore erano già presenti. Qui si vede la lungimiranza del cardinale Marchetti! Il quale accettava che le suore venissero a Roma, anzi le invitava, però le destinava alla periferia, di modo che le parrocchie potessero essere fondate quando già c’erano la cappella delle suore per la messa, il catechismo, le scuole di taglio e cucito. Le suore, vestite in abiti religiosi e vivendo in mezzo alla gente, contattavano le famiglie. Quanta povertà! Ricorderò che quando Madre Teresa ha voluto aprire il suo noviziato a Roma fra i poveri “fuori porta”, è andata a cercare una casetta presso l’Acquedotto Felice, presso l’Appia nuova.
Cosa la colpiva di più della vita degli amici e dei sacerdoti di don Orione?
CANESTRI: A Ognissanti, la presenza degli Orionini in chiesa: tutte le mattine nel confessionale fino a mezzogiorno. Tutto il quartiere sapeva che là ci si poteva confessare, a tutte le ore. Mi commuoveva questa disponibilità, e anche l’attenzione ai poveri e agli sbandati. Ricordo i parroci, amici di don Orione, arrivati all’Appio con lui: ho conosciuto don Risi, don Ferretti… erano sante persone e ho ammirato specialmente la loro vita interiore. E un’altra cosa mi colpiva di Ognissanti…
Prego…
CANESTRI: Don Orione aveva chiesto a Pio X di poter prendere in cura una missione. Il Papa gli aveva detto: «Ti manderò in Patagonia». Don Orione già fantasticava… gli indigeni… (ma replicando anche che laggiù già c’erano i figli di don Bosco). Ma Pio X aggiunse: «Andrai “fuori porta”, a San Giovanni in Laterano, là c’è tutto da fare». E lui, con la fiducia davvero cieca in Dio, edificò Ognissanti, e insieme alla chiesa ha costruito il San Filippo. Ha dato la sua impronta, che io ho toccato con mano. Un’impronta che ha molto, ma molto della grazia soprannaturale. Non ha curato come prima occupazione l’organizzazione, bensì la pastorale, l’iniziazione cristiana, la catechesi dei poveri e degli ignoranti e l’amministrazione dei sacramenti.
E in tutto ciò, i giovani preti di San Giovanni Battista de Rossi…?
CANESTRI: Davamo una mano anche noi: ogni classe del San Filippo doveva fare gli esercizi spirituali durante la Quaresima, e ci invitavano per portare in questi esercizi “voci nuove”. I buoni chierici che insegnavano al San Filippo facevano due o tre anni di probandato e intanto insegnavano alle elementari, e alle medie quando “culturalmente” all’altezza. Finito l’anno scolastico facevano subito gli esercizi e immediatamente dopo cominciavano le ripetizioni: quindi la loro vacanza era una settimana di esercizi spirituali, con quattro prediche al giorno da ascoltare… e con il fresco di luglio a Roma! Era anche un modo per evitare l’ozio: davvero nessuna famiglia del quartiere Appio andava in ferie!
Ricorda un incontro personale con don Orione?
CANESTRI: Alla celebrazione del funerale del papa Pio XI in San Pietro. Ero in seconda fila come alunno del Seminario Maggiore di Roma, e proprio davanti a me era presente don Orione che indossava una cotta candida sulla talare. Ricordo bene: mentre la pesante bara di piombo veniva fatta scendere lentamente nella “confessione” per essere collocata nelle Grotte vaticane, le carrucole, nel silenzio della Basilica carico di suggestione e di storia, cigolavano, cigolavano… Don Orione, compresso e commosso, a ogni cigolio scuoteva la testa candida come la cotta, quasi per assentire a pensieri alti di meditazione e preghiera, come per dire: «Ecco l’umana conclusione di questi episodi della storia della Chiesa» seppure grandi episodi. «Ecco come anche un grande Papa finisce».
Tutti sappiamo quanto don Orione amasse la figura del Papa.
CANESTRI: Sì. Convinto e fervente aveva insegnato: il Papa è il nostro credo. In quell’epoca difficile aveva iniziato contatti personali anche con i modernisti. Il suo cuore era grande come la sua fede nel ministero petrino. Voleva portare i modernisti vicino a Gesù, avvicinandoli al Papa.
Don Orione in una foto di gruppo alla parrocchia di Ognissanti nel giugno 1921; alla destra di Orione c’è don Risi

Don Orione in una foto di gruppo alla parrocchia di Ognissanti nel giugno 1921; alla destra di Orione c’è don Risi

Trascorsi gli anni come viceparroco all’Appio, e dopo altri impegni, da vescovo ausiliare di Roma lei fu mandato a fare il vescovo a Tortona, la diocesi di don Orione.
CANESTRI: Penso che anche per questo, oltre che per un amore entusiasta per Roma cristiana (e classica), gli Orionini mi considerino un po’ un “loro” vescovo, sebbene io sia stato a Tortona quattro anni soltanto. Ma là mi sono imbattuto in tanti ricordi di don Orione ancora vivi nel popolo. Uno degli episodi me lo narrò un parroco dell’Oltrepò Pavese in diocesi di Tortona. La sua chiesetta era in cima a un’alta collina, con le case attorno. Il parroco aveva invitato don Orione a predicare per le Quarantore. Ed aveva detto alla gente: «Venite, venite tutti, che ci sarà don Orione, quel santo di cui avete sentito parlare»; «ma no, non è possibile!» obiettavano. «Ma sì che viene…». Dunque, quel pomeriggio la chiesa era strapiena, ma don Orione non si vedeva. I fedeli cantano i vespri, ripetono le litanie, e lui ancora non arriva. Il parroco perde un po’ la pazienza, esce dalla chiesa per andare a sbirciare dall’alto se mai don Orione giungesse: non c’erano le strade, c’erano piccoli sentieri… E finalmente, mentre pure la gente usciva borbottando con il parroco, si vede qualcuno muoversi laggiù in fondo. Il parroco batte le mani: «Andiamo, è quello là!». La gente fa: «Mah! Prima sì, poi no, poi sì…», però rientra. Il parroco non fa passare don Orione dalla chiesa, ma attraverso la canonica. Don Orione va in sacrestia, si mette la cotta e poi entra in chiesa. E quando è sul pulpito – allora c’erano i pulpiti – lancia un «Sia lodato Gesù Cristo!» con una passione così intensa… E i fedeli, mi diceva il parroco ancora sorridendo, invece di rispondere «Sempre sia lodato!», si dicevano l’un l’altro, meravigliati: «L’è lu!», «È lui!».
Da Tortona lei tornò a Roma nel ’75 come vicegerente, poi a Cagliari, quindi a Genova nell’87. E anche Genova è città di don Orione.
CANESTRI: Lui ci andava tutte le settimane, per ricevere la gente; alcuni si confessavano, altri chiedevano preghiere e tutti lo aiutavano! Tanto che don Orione lasciò scritto che avrebbe voluto essere sepolto a Genova. E scrisse pure una lettera molto bella ai genovesi nella quale li ringraziava delle offerte fatte per le sue opere e per l’ospedale Paverano, rifugio dei poveri e dei sofferenti. Sul Paverano vi è un episodio struggente. Un pomeriggio don Orione era andato pellegrino alla Guardia, il famoso santuario mariano di Genova sul monte Figogna, e vi aveva passato tutto il pomeriggio in preghiera. Il rettore del santuario, che lo conosceva bene, lo vede, abbozza un saluto, ma non lo disturba. Arrivata la sera, chiude il santuario e lo chiama: «Don Orione, adesso andiamo a cena, che è l’ora…». Don Orione accetta, cenano, e poi l’altro lo invita a restare: «Guarda, abbiamo una camera». «No, no, devo andar via», «ma no…», «ma sì, devo proprio andare…»; «non ci sono i mezzi di trasporto!»; «non importa, m’arrangerò». Così don Orione saluta e parte. Di mattina presto, il rettore del santuario, dovendo andare a Genova, percorre il sentiero accanto alla cappella dove era avvenuta l’apparizione della Madonna a un contadino pastore. Passa e vede in ginocchio per terra don Orione. Stupore e ammirazione. Don Orione era rimasto al buio, nell’umidità – si è circa a mille metri d’altitudine –, in una preghiera lunga tutta la notte, di contemplazione e di implorazione di fronte alla Madonna. E quella stessa mattina don Orione scese a Genova e iniziò la costruzione del Paverano. Per il quale cercò, s’indebitò e impiegò, al cambio attuale, non so quanti miliardi di lire…
Cos’altro di Genova?
CANESTRI: Il cardinale Siri, il grande arcivescovo di Genova, raccontava che era andato anche lui, in gioventù, un giorno a incontrare don Orione a Genova, e c’era tutta la strada colma di gente per vederlo passare, sentire una parola e dare un’offerta. A un certo momento, in fondo si scorge un taxi: «È don Orione», e tutti si mettono in ginocchio, sulla strada (che era oltretutto in salita) che conduceva alla casa dove don Orione riceveva. Siri, genovese di nascita, si trovò in mezzo alla gente inginocchiata. Così commentava: «Non è una cosa che si verifica facilmente a Genova». E ripeteva: «Don Orione ha avuto l’ardire di forzare le leggi della prudenza, perché per fare del bene è vissuto assediato dai debiti e sorprendentemente fiducioso negli interventi spesso prodigiosi della divina Provvidenza».
Don Orione legge le preghiere per l’acquisto delle indulgenze sotto la mano protettrice di san Pietro, nella Basilica di San Paolo fuori le Mura

Don Orione legge le preghiere per l’acquisto delle indulgenze sotto la mano protettrice di san Pietro, nella Basilica di San Paolo fuori le Mura

«Per fare del bene» don Orione è accorso nella Marsica nel 1915, quando il terremoto fece 30mila vittime, lasciando migliaia di orfani, alcuni condotti a Roma e ospitati dalle sue opere.
CANESTRI: A Messina ed Avezzano colpite dal terremoto, don Orione ha vissuto l’epopea della carità. Ha convinto – e l’ho constatato – i suoi figlie e le sue figlie che non si ama Gesù se non si è «dinamitardi» nella e della carità! Degli orfanelli mi piace ricordarne due. Il primo è Ignazio Silone, che don Orione andò a cercare ad Avezzano in occasione del terremoto. In seguito al sisma Silone si fece espellere per insubordinazione da un collegio orionino di Roma. «Non resta che don Orione, se ti vuol prendere lui», gli dissero allora. E fu don Orione a riaccoglierlo personalmente e personalmente Silone lo ha ringraziato in Uscita di sicurezza, forse il capolavoro del narratore abbruzzese che i critici di letteratura hanno definito: «Il minore fra i maggiori o il maggiore fra i minori», come si diceva di Giovanni Pascoli. Insieme a Silone c’era Gaetano Piccinini, che è diventato sacerdote orionino. Mentre io ero lì prete all’Alberone, fungeva da preside del San Filippo e s’era laureato in lettere, mostrando un’intelligenza di eccezione. A San Giovanni Battista de Rossi ricordo una volta che “mancava” una messa. Io ero incaricato di tenere il conto delle messe e procurare il sacerdote se ne avevamo da celebrare una in più. In questi casi ci rivolgevamo al San Filippo, a Piccinini. Allora gli telefono, per questa funzione da celebrare tre o quattro giorni dopo: lo chiamo un lunedì per celebrare il giovedì o venerdì. E – mi fece un’impressione immensa – lui disse di no: «Eh no, giovedì e venerdì devo andare a celebrare a Chicago». Erano i primi viaggi con l’aereo, e mi stupii tanto, perché allora pensavamo che i viaggi aerei fossero soltanto per i militari…
Se si pensa anche alla Chiesa, i tempi sono molto cambiati…
CANESTRI: Sì e no! Sì, sotto tanti aspetti è vero: la storia ha cambiato corso. E non sempre in senso positivo. Per le nuove generazioni i ricordi di lunghi anni di guerra, di pericoli, di bombardamenti, di paure, di fame, di eccidi e di orrori sono sempre più sbiaditi. Sbandamenti ideologici, benessere frivolo, cultura impregnata di laicismo e di effimero, morale sempre più autonoma e soggettiva, la caduta del “muro”, ma anche di tante dighe di contenimento… Eppure con il Vangelo sul cuore, come don Orione, non ci si può rassegnare ad essere pessimisti. Pessimisti? E Paolo VI, e Madre Teresa, e Giovanni Paolo II con il loro profetismo umano, sociale, cristiano ed ecumenico? E i santi moderni? Ho incontrato a Roma non meno di venti persone che oggi hanno la causa di beatificazione. Proprio dei nostri tempi. Sì, i tempi cambiano, ma la roccia su cui Gesù ha edificato la Chiesa continua oggi e in tutti i secoli futuri a restare salda e umile, umile e salda, per la salvezza dell’umanità.
Di questi suoi altri incontri romani, ce ne racconti qualcuno.
CANESTRI: Accanto alla Fatme, che ai tempi dava da lavorare a tanti padri di famiglia, c’era un’altra ditta, la Sielte. Direttore alla Sielte era uno degli amici di Piergiorgio Frassati, Giuseppe Grimaldi, compagno di Piergiorgio nella attività di caritativa alla San Vincenzo de Paoli. E più di una volta, non una volta sola, l’ho invitato a parlare ai giovani. Era molto bello ascoltare da lui chi era Piergiorgio. Per un po’, di Frassati non si è più parlato, poi finalmente è giunta la beatificazione.
Continui.
CANESTRI: Vicino a Ognissanti in quei tempi abitava Enrico Medi, e anche lui ho invitato a parlare ai giovani di queste sue grandi competenze in campo fisico: spiegando, incantava. Poi, diventato io vescovo, mi ha invitato lui un giorno feriale a dire messa a casa sua: aveva una cappellina privata sulla via Casilina, in fondo alla Casilina; aveva il permesso di tenerla. Quando ero ancora parroco a Roma nel quartiere di Casalbertone, lo incontravo perché mi avevano “costretto” ad insegnare religione al liceo Albertelli che è il liceo accanto a Santa Maria Maggiore. Quando avevo l’“ora buca” e la segretaria non ne approfittava per cacciarmi in qualche classe a fare supplenza, scendevo in Santa Maria Maggiore e, sempre alla stessa ora, incontravo Medi che prendeva la comunione e poi faceva un ringraziamento da creare gelosia, invidia, per come si raccoglieva.
Lei narra di cose familiari che allo stesso tempo sembrano lontane…
CANESTRI: Questa è un po’ di storia di Roma che i nostri giovani preti, detto sottovoce, non conoscono. Anche molte tradizioni romane sono scomparse, perché non sempre i rettori dei seminari sono stati romani. Io non sono romano, ma ho fatto il seminario a Roma, e poi ho fatto il viceparroco lì con un parroco che era di Fontana di Trevi, e che tutte le storielle romane le conosceva, sapeva a memoria La scoperta dell’America di Cesare Pascarella, e poi Trilussa. Ne venivano fuori quelle cose autenticamente romane. Ricordo un poeta francese: dice che chi è nato a Roma la ama, ma chi non ci è nato e l’ha incontrata, a volte, come nel mio caso, la ama ancor di più.


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