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DOSSIER EMERGENZA CARCERI
tratto dal n. 06 - 2000

Figli di un Dio minore?


Basta guardare le cifre per capire che nei penitenziari ci restano solo i poveracci: extracomunitari, tossici, gente affetta da disturbi psichici. Molti non godono dei più elementari diritti umani. Molti escono ben peggiori di quando sono entrati. Troppi non usciranno più, come testimoniano le decine di suicidi


Gianni Valente


Il carcere di Rebibbia: partita a carte in una cella sovraffollata

Il carcere di Rebibbia: partita a carte in una cella sovraffollata

All’inizio di luglio, nella grotta di Bernadette, a Lourdes, è arrivata una cassetta di cartone. L’ha portata padre Vittorio, il francescano che da più di vent’anni è cappellano del carcere romano di Regina Coeli. Prima di giungere ai piedi della Madonna, in terra di Francia, la cassetta ha girato di cella in cella, in tutti i bracci del carcere romano, tra mucchi di panni sporchi, letti a castello a tre piani, reti arrugginite, calendari porno appesi ai muri scrostati. I carcerati, chi voleva, ci hanno infilato i loro bigliettini, ognuno con una preghiera per la Madonna. Anche Juan, il contadino boliviano, ha affidato alla cassetta la sua supplica. Alla sua bambina avevano trovato un tumore. Per curarla negli ospedali privati del suo Paese, i soli che funzionano, chiedevano troppi soldi. Un trafficante della città lo ha saputo, e gli offerto un bel gruzzolo in cambio di un servizio semplice: portare il “pacco” da La Paz a Roma, una volta soltanto. «Lo so che era una cosa cattiva, ma che devi fare quando la tua bambina sta morendo?». Lo hanno beccato all’aeroporto. E adesso ha scritto a Maria: «Madre mia, lo so che ho sbagliato. Aiuta tu la mia piccola. E, ti prego, fammi uscire presto di qui».
Da settimane, ormai, nei padiglioni delle carceri italiane ogni nuovo giorno si apre con dentro un fremito di attesa. Nelle mille e mille storie, come quella di Juan, la promessa di indulto ventilata sui giornali e nei dibattiti dei politici si è insinuata come un’incerta speranza tra le pieghe dei giorni tutti uguali. Una promessa che potrebbe diventare veleno, mortificazione, sale sulla ferita, se poi alla fine “quelli” ci ripensano, e dicono: abbiamo scherzato, non se ne fa niente.

Una bomba a tempo
Per cogliere l’emergenza esplosiva che incombe sugli istituti di pena italiani, bisogna partire dai numeri. Secondo i dati ufficiali del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, alla data del 31 maggio 2000 erano “ospiti” degli istituti di pena italiani 53.507 detenuti, il picco più alto dal 1946 ad oggi, di cui 51.279 uomini e 2.228 donne, a fronte di una capienza regolamentare di 42.749 posti. Secondo il dossier sulle carceri dell’associazione “Antigone”, Rapporto nazionale sulle condizioni di detenzione, di prossima pubblicazione presso Castelvecchi, negli istituti di pena italiani ci sarebbe una densità globale di 129,6 detenuti ogni 100 posti disponibili: «Dal 1983 (apice della detenzione a cavallo tra gli anni Settanta ed Ottanta) ad oggi la popolazione detenuta in Italia è cresciuta di circa 13mila unità. Il tasso di detenzione è di circa 90 detenuti ogni 100mila abitanti. Era dal 1952 che non si aveva un tasso così elevato. Nel 1990, anno dell’ultimo provvedimento di indulto e di amnistia per i reati minori, era la metà dell’attuale». Se si analizza la posizione giuridica dei detenuti, si coglie anche il principale fattore di sovraffollamento che ha fatto del sistema carcerario una polveriera. Spiega ancora il dossier di “Antigone”: «Al 31 dicembre 1999 i detenuti in attesa di giudizio erano 23.949, il 46,22% del totale, contro i 27.865 condannati definitivi […]. Nell’incremento della popolazione detenuta riscontrato nel corso del 1999 ha inciso notevolmente il ricorso alla custodia cautelare in carcere […]. Il sistema penitenziario deve sostenere dunque il carico di 24mila persone presunte innocenti recluse». Degli oltre ventitremila detenuti in attesa di giudizio al primo gennaio 2000, 1.510 avevano trascorso in carcere oltre 18 mesi di custodia cautelare. Il ricorso distorto alla custodia cautelare è anche all’origine delle forti spese che lo Stato deve pagare nei risarcimenti per ingiusta detenzione. Quasi quattromila persone, tra il 1989 e il 1998, sono state risarcite per aver subito ingiusta detenzione, con oltre 80 miliardi pagati a titolo di indennizzo.
Nella vita reale, questa fredda contabilità penitenziaria si traduce nell’inferno quotidiano. A Poggioreale, carcere napoletano, i detenuti vivono ammassati a dieci e a venti per cella. A San Vittore, a Milano, ci sono più di 1.500 detenuti costretti in una struttura adatta a contenerne settecento. A Regina Coeli, Francesco, da tre mesi in custodia cautelare con accusa di rapina da parte di un “pentito”, ci mostra la sua “reggia”: dieci metri quadrati, tre pile di letti a castello dove dormono in otto. Più uno stanzino stretto e lungo, con il cesso, il lavandino e un tavolino coi fornellini a gas. «Siamo tutti belli grossi. Se ci alziamo tutti dal letto e stiamo in piedi, non riusciamo a girarci...». È la densità abitativa intollerabile che porta al collasso tutti i ritmi della vita carceraria. Le ore d’aria si riducono, perché bisogna fare i turni. Le attività degli educatori e degli assistenti sociali, già di per sé insufficienti, diventano risibili, e finiscono per coinvolgere un numero marginale di detenuti. Ogni educatore (sono 608 in tutto) dovrebbe farsi carico di una media sovrumana di 90 detenuti. I circa 125 magistrati di sorveglianza si trovano a dover seguire le pratiche e le istanze di quasi 30mila condannati. Le esigue attività lavorative finiscono per coinvolgere poco più di diecimila detenuti, una porzione minima della popolazione carceraria. L’inattività fisica e mentale, le ore passate a inebetirsi davanti a televisori perennemente accesi, è l’inevitabile approdo del sovraffollamento e della mancanza di spazi. Quando non accade di peggio.

Un braccio di Regina Coeli

Un braccio di Regina Coeli

Morire di carcere
Astolfo Mecikian aveva ventitré anni, quando è stato arrestato a Roma il 23 settembre scorso per estorsione. Lo avevano messo nelle “celle belle” di Regina Coeli, quelle ristrutturate della terza sezione, per poi trasferirlo in isolamento, dopo una lite con un altro detenuto, nonostante fosse stato dall’inizio registrato come «affetto da disturbi psichici». È nella solitudine totale dell’isolamento che Astolfo ha ceduto, impiccandosi con un lenzuolo usato come cappio.
Un sintomo certo che nelle carceri italiane si è superato il livello di guardia è l’aumento esponenziale degli episodi di violenza, in ogni direzione: violenza contro di sé, contro gli altri, violenza tra detenuti e agenti carcerari. Nel corso del ’99 i suicidi dietro le sbarre sono stati 59. I tentativi di suicidio 920, 1.800 i ferimenti, 5.500 gli scioperi della fame, ben 6.536 i casi di autolesionismo. Nel ’92, per fare un confronto, i suicidi erano stati 47, i tentativi di suicidio 531, gli atti di autolesionismo 4.365. «Molto spesso» è scritto nel dossier-carceri di “Antigone” «protagonisti degli atti più efferati di autolesionismo sono detenuti extracomunitari, per lo più maghrebini: ricorrono a queste forme estreme di protesta, quasi non riuscissero a trovare altre forme di espressione del proprio disagio». La maggior parte dei detenuti suicidi o degli autori di atti di autolesionismo è in carcere per condanne non gravi, il più delle volte in attesa di giudizio o vicina alla scarcerazione. Ma è soprattutto il capitolo dei maltrattamenti e dei pestaggi da parte del personale di custodia ad aver assunto dimensioni preoccupanti. Lo scandalo di Sassari, che il 2 maggio scorso ha portato – con modalità fin troppo spettacolari – all’arresto di 82 agenti di polizia penitenziaria, non sembra un caso isolato. Secondo dati riservati del Dap, pubblicati senza essere smentiti su Panorama dai ricercatori Cristina Giudici e Maurizio Tortorella, oltre a quelli di Sassari sarebbero quasi cento gli agenti attualmente colpiti da gravi provvedimenti disciplinari per presunti maltrattamenti ai detenuti. Sembra ricominciata, nella penombra degli istituti carcerari, una guerra sorda che fa precipitare carcerieri e carcerati nella spirale del ricatto e dell’intimidazione. Su alcune morti incombono interrogativi inquietanti. Come la vicenda di Francesco Romeo, 23 anni, morto nel settembre ’97 nel carcere di Reggio Calabria per frattura del cranio da colpi di bastone, per cui sono stati rinviati a giudizio 24 agenti, dopo che qualcuno aveva trasportato il corpo sotto un muro per simulare un tentativo di evasione mal riuscito.
Ma al di là dei casi particolari, tutto il rapporto tra guardie e carcerati sembra irrigidirsi nel mero esercizio dei rapporti di forza. Già nel ’96 il Comitato europeo per la prevenzione della tortura, in un corposo rapporto di 125 pagine, aveva segnalato al governo italiano il sistematico ricorso a trattamenti inumani e degradanti riscontrati nelle carceri italiane. E anche l’ultimo rapporto di Amnesty International ha segnato in rosso i maltrattamenti e le condizioni «crudeli, inumane, degradanti» subite dai detenuti del nostro sistema penitenziario. Racconta Sergio D’Elia, segretario dell’associazione “Nessuno tocchi Caino”: «Nel carcere di Poggioreale, siamo entrati in una sezione dove c’era un silenzio irreale. I detenuti ci hanno detto che non possono fare rumore e nemmeno alzare il volume del televisore, e che quando passano per il corridoio non possono guardare in faccia le guardie, altrimenti giù botte. Bisogna scegliere tra l’ora d’aria, la doccia o i colloqui, chi sceglie una cosa non può fare le altre. Sono piccoli indizi di un ordine che, ormai in molte carceri, sembra fondato sul terrore». Una deriva che secondo molti sarebbe stata avallata da recenti disposizioni ministeriali, come quelle che hanno istituito l’Ufficio di garanzia dell’amministrazione penitenziaria, a cui afferiscono i Gruppi operativi mobili (Gom), gruppi scelti di guardie impiegate nelle situazioni di emergenza. «Da quando si è privilegiato l’aspetto “militare” della prigione, gli episodi di violenza sono più numerosi» ha fatto notare Giuliano Pisapia, ex presidente della Commissione giustizia della Camera dei deputati.

Il disagio sbattuto in cella
L’identikit sociologico di chi sta dentro ha anche qualcosa della faccia da bambino di Danilo, capelli corti e occhi smarriti gonfi di valium, «qui lo danno quasi a tutti, per farci stare calmi». Ex tossico, 23 anni, disoccupato, separato, papà di una bambina, era scappato dalla caserma dove faceva la naja. Stava al bar sotto casa quando, tre anni dopo, i poliziotti sono venuti a prenderlo. Il carcere militare lo hanno chiuso, e così da due mesi Danilo gira tra la calca variopinta dei corridoi del “penale” di Rebibbia, tra spacciatori albanesi, ergastolani, contrabbandieri napoletani, perso tra “richiestine” al magistrato di sorveglianza che nessuno ascolta e appuntamenti saltati con l’avvocato d’ufficio. E un solo pensiero: che duri meno dei nove mesi che gli hanno dato, in un modo o nell’altro. «La lezione l’ho imparata, e poi era già da un anno che non mi drogavo più. D’ora in poi righerò dritto», ripete a chiunque gli capiti a tiro, quasi che gridare al mondo il suo ravvedimento valga ad abbreviare il tempo.
Il carcere seleziona i suoi utenti. E scrutando il profilo sociologico della popolazione carceraria si coglie la radice profonda dell’emergenza esplosa negli ultimi mesi. Secondo i dati del Dap, al 1 gennaio 2000, dei 52.841 detenuti, 14.841 (il 28,08% del totale) erano nati all’estero, e 24.352 (pari al 46,07%) nelle quattro principali regioni del Sud Italia. Riguardo all’età, la maggioranza assoluta rientrava nella fascia giovanile, con un 52,4% di età compresa tra i 18 e i 35 anni. Per status occupazionale, quasi il 31% risultava disoccupato, mentre per il 42% non era possibile rilevare una condizione lavorativa stabile prima di entrare in carcere. Sul livello di istruzione, i non rilevabili, gli analfabeti, i privi di qualsiasi titolo di studio e quelli con licenza elementare, sommati insieme, superavano il 56% della popolazione detenuta, mentre un 35,64% aveva un livello di licenza media e solo lo 0,84% erano laureati. Giovane, senza lavoro, meridionale o extracomunitario, fuori dai circuiti d’istruzione ordinari, proveniente dalle imbarbarite periferie urbane. Questo è l’ospite-tipo delle carceri italiane. Se a questi dati allineati si aggiunge l’alta percentuale di tossicodipendenti (29,26% del totale) e l’alta presenza di sieropositivi, non ci vuole molto a concludere che le carceri scoppiano perché sono diventate la medicina buona per tutti i mali, la discarica dove far precipitare e nascondere le infinite emergenze del disagio sociale, tante quante sono le storie ignote di tutti gli abitanti di questo pianeta buio. «Sull’onda delle pulsioni demagogiche, che criminalizzano i poveri e gli stranieri prima ancora che diventino delinquenti, il carcere si è tramutato in uno strumento di controllo sociale rivolto contro le fasce marginali, non garantite, quelle più colpite dal malessere», nota Ovidio Bompressi, che dalla sua condizione di condannato nel processo Calabresi ha sostenuto la campagna pubblica a favore dell’indulto.

Il vitto nelle sezioni

Il vitto nelle sezioni

Il mondo è globale. Anche a Rebibbia
Scrive M. Pavarini nel suo volume La criminalità punita: «Il gergo dei detenuti nella storia secolare del carcere italiano è sempre stato prevalentemente costituito dai dialetti meridionali, solo di recente arricchito dagli idiomi del nord e del centro Africa... Il carcere rimane così comunque “meridionale”, solo che il sud del mondo sostituisce quello nazionale». Parlano comunque un italiano impeccabile e forbito l’ucraino Anatole e molti dei suoi amici, i detenuti extracomunitari – iugoslavi, albanesi, marocchini, filippini – che a Rebibbia passano buona parte del loro tempo intorno ai tre computer e alla stampante dell’ufficietto del Centro informazioni detenuti stranieri in Italia. Il piglio con cui questo gruppetto prende di petto la propria condizione di paria del sistema carcerario fa contrasto con la generale abulia che contagia gli altri detenuti, nel caldo romano d’inizio estate. È diventata quasi una passione, una militanza sui generis la battaglia per eliminare le tante strane discriminazioni che aggravano la pena dei detenuti stranieri.
La comunità straniera nelle carceri, quasi 15.000 persone, si è triplicata negli ultimi dodici anni. I più numerosi sono gli albanesi, più di 2.300, seguiti dagli algerini, oltre 1.200, e dagli iugoslavi, circa 1.000. I dati Censis del 1999 evidenziano che i reati commessi dagli stranieri riguardano i livelli più bassi della catena criminale: spaccio e traffico di droga (39%) e reati di strada contro il patrimonio (19%). Sono per lo più corrieri e gregari di reti criminali, controllate da quelli che in galera ci finiscono di rado. Tutte le ricerche concordano sul dato che a parità di reato gli stranieri vanno più in carcere degli italiani, essendo più controllati e denunciati dalle forze dell’ordine. Quando si va dentro, poi, la discriminazione continua. Se Anatole comincia a parlare, la sua lista di doléances è infinita: «Abbiamo fatto un piccolo sondaggio sulla comunità straniera di Rebibbia, ritenuto un istituto all’avanguardia, perciò i risultati danno solo una pallida idea dei problemi che incontrano gli stranieri in carcere. Solo il 5% è stato assistito da un interprete nella fase dell’arresto, e la maggioranza non ha nemmeno capito le accuse che gli venivano mosse. Durante l’interrogatorio, la possibilità di fruire dell’interprete si è “alzata” al 15%. Buona parte è stata condannata in contumacia. Quasi la metà non ha mai avuto un colloquio con un avvocato, e più del 90% non è riuscita ad accedere al “patrocinio gratuito”, per difficoltà burocratiche a reperire la documentazione richiesta. La stragrande maggioranza di noi, in alcuni casi più dell’80%, è in regola per godere di misure alternative, come permessi-premio, semilibertà, sospensione condizionale della pena. Ma solo il 23% riesce ad accedere a qualcuna di queste misure». Nel ’98, la legge numero 40 ha eliminato la misura che stabiliva la possibilità di espulsione per gli stranieri quando il residuo di pena era inferiore a tre anni. «È stato il colpo finale. Quella regola in parte tamponava la discriminazione dei detenuti stranieri, e adesso il divario di trattamento è aumentato». Anatole e i suoi amici, comunque, non sembrano voler perdere tempo. Hanno progetti concreti, corsi di fotocomposizione, stanno per far pubblicare una guida, una sorta di vademecum per detenuti stranieri nella giungla legislativa della vita carceraria. Mostrano un’energia buona, venata di ironia: «Da quando siamo qui dentro» dice Anatole «ognuno di noi ha fatto tanti corsi da pizzaiolo, elettricista, falegname. E mai nessuno che ci ordini una pizza!». E a chi fa i complimenti per un caffè niente male, Adrian, dal Montenegro, ammicca sornione: «Qual è il segreto? No, non è la miscela, è la mano del carcerato...».


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