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DOSSIER EMERGENZA CARCERI
tratto dal n. 06 - 2000

Se di carcere si muore


La sanità in carcere è uno degli aspetti del sistema penitenziario in cui lo sfacelo è più evidente. Un piccolo malanno è l’inizio di un calvario che può costare la vita al detenuto. E ci sono 163 malati di Aids conclamato che non possono essere assistiti adeguatamente in carcere. Per loro la pena detentiva equivale ad una condanna a morte


di Davide Malacaria


Regina Coeli ospita uno dei più importanti centri clinici a disposizione della sanità penitenziaria. Tre piani di stanze con sbarre alle porte. Il primo piano ospita i detenuti sieropositivi e malati di Aids, gli altri quelli affetti da altre patologie, tra cui un caso di sospetta tubercolosi, una malattia che si sta diffondendo nel circuito carcerario. Se le condizioni igieniche del centro sono buone, è evidente (e quelle sbarre bianche all’ingresso delle celle lo ricordano) che a chi finisce in galera può capitare di molto peggio: può ammalarsi in carcere. È il caso di Roberto Caciotosto, 43 anni, finito a Regina Coeli per aver rubato penne, matite e zainetto per la figlia. Operato per ben due volte, per ernia e cisti toracica, nella struttura penitenziaria, ma non in sala operatoria (chiusa per lavori), accusa forti dolori al collo il 30 gennaio 1999. L’antidolorifico, prontamente somministrato, gli procurava un collasso. Un secondo intervento, a base di cortisone, non era certamente la cura più adeguata: il 31 gennaio viene trovato morto nella sua cella. O il caso di Giovanna Franzò, condannata a 7 mesi per furto, morta il 1 maggio del 2000. Dopo settimane di sofferenze, i medici del penitenziario decidono il ricovero presso l’ospedale di Ragusa dove, tre giorni dopo, muore. La Tac ha rivelato la causa del decesso in una “mediastinite necrotizzante”, in conseguenza di un ascesso ai denti non curato. La ragazza sarebbe uscita dal carcere il 1 luglio. E ancora, l’assurda morte di Marco Ciuffreda, a seguito di una crisi di astinenza, sulla quale ha indagato anche la magistratura che, nell’ambito nella richiesta di archiviazione per omissione in atti d’ufficio, ha rilevato la gestione negligente del caso.
Una serie di tragedie assurde e dolorose, che nel breve spazio di un articolo non si possono tutte elencare, ma che anche solo accennate documentano lo sfacelo di un mondo di emarginati. «Non nego che in carcere, come fuori, siano accaduti casi di malasanità», afferma Francesco Ceraudo, presidente dell’Amapi (Associazione medici dell’amministrazione penitenziaria italiana): «Ma in genere chi lavora nelle carceri ha una vocazione sociale che un medico normale non ha. Il problema vero è insito nel regime carcerario e nelle sue strutture, un luogo in cui la persona perde la sua dignità, si disumanizza, diventa un fascicolo, un protocollo, un numero». Eugenio Iofrate, responsabile del “Progetto carcere” della Fondazione Villa Maraini, che lavora per il recupero dei tossicodipendenti, ed è vicepresidente della Consulta penitenziaria del Comune di Roma, dice: «La verità è che i medici penitenziari dipendono dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap): questa condizione può portare a privilegiare le esigenze di sicurezza rispetto a quelle terapeutiche». Corrado Stillo, dell’Osservatorio dei diritti dei detenuti in carcere, sottolinea un altro aspetto: «I medici penitenziari sono spesso sottopagati, con la possibilità di essere licenziati in ogni momento e questo non fa che accrescere una scarsa motivazione nella loro attività professionale».
Un detenuto malato mostra la sua cartella clinica

Un detenuto malato mostra la sua cartella clinica

Alla drammatica situazione dell’assistenza medica per i detenuti si è tentato di far fronte con il cosiddetto “decreto Bindi” del 21 aprile 2000, assimilando i medici penitenziari, finora dipendenti dell’Amministrazione carceraria, al Sistema sanitario nazionale. Il provvedimento, che ha dato vita ad un acceso dibattito tra favorevoli e contrari, è entrato in vigore, in via sperimentale, già nel mese di giugno, in tre regioni (Lazio, Toscana e Puglia), anche se la sua effettiva applicazione appare ancora incerta. Iofrate si dice soddisfatto e mette l’accento su una novità introdotta dalla riforma: «I medici penitenziari sono privati, quindi non possono emettere ricette. Così le medicine, come anche le analisi, da loro prescritte, non godono dei benefici della mutua». Anche chi, come Ceraudo, si dice contrario alla riforma, concorda su questo punto: «Si arriva all’assurdo che anche alcune analisi imposte dal regime carcerario, come quelle obbligatorie all’ingresso in carcere, siano a carico del paziente». E spiega come in ogni penitenziario esista il cosiddetto “armadio farmaceutico” (che gratuitamente mette a disposizione i medicinali di largo consumo), ma che l’esiguità di fondi origini gravissimi problemi di approvvigionamento, causando anche la mancanza di medicine essenziali.

Attendendo un ricovero
I centri diagnostici terapeutici dell’Amministrazione penitenziaria sono 15, il numero di ricoveri nel 1999 è stato pari a 5.827. Ma i medici dei penitenziari lamentano la cronica carenza di fondi e l’esiguità dei posti-letto (575) a fronte di una popolazione carceraria di oltre 50.000 unità. Alla carenza di spazi e strutture penitenziarie si tenta di sopperire attraverso le strutture pubbliche. Ma per gli ospedali pubblici il ricovero di un detenuto rappresenta un problema: la scorta, la vicinanza con i cittadini comuni… Così capita che le attese per un ricovero siano lunghe, a volte troppo. È il caso, segnalato da Stillo, di un detenuto di Viterbo a cui è stata amputata una gamba a causa di una cancrena, dopo la lunga attesa di un ricovero. Oppure il caso, sempre indicato da Stillo, della detenuta di Rebibbia che, dovendo subire l’asportazione di un tumore alla trachea, attende da luglio scorso l’operazione.
«L’attesa, soprattutto nei grandi centri, dipende anche dalle disponibilità delle strutture pubbliche, ed è un problema anche per i cittadini comuni» spiega Ceraudo: «Ma occorre sicuramente porre un rimedio alle difficoltà che incontra il ricovero ospedaliero di un detenuto non curabile nell’ambito delle strutture sanitarie penitenziarie. Bisogna stabilire delle corsie preferenziali per i ricoveri urgenti e destinare a questo scopo spazi appositi in alcuni ospedali pubblici». Una strada che si tenta di percorrere al “Sandro Pertini” di Roma, rileva Stillo, in favore del quale la Regione Lazio ha deciso un finanziamento, allo scopo di destinare un’ala dell’ospedale alla cura dei detenuti.

Ammalarsi di carcere
«Affermare che il carcere sia solo una privazione della libertà è falso. La persona in carcere subisce una serie di afflizioni che magari non appaiono evidenti, ma che non sono meno reali», spiega Ceraudo, che specifica come la lunga reclusione causi traumi alla vista, alla deambulazione, oltre a una serie di traumi psicologici, e attinenti alla sfera sessuale. Continua il presidente dell’Amapi: «Il carcere scatena disturbi mentali latenti quando non li genera, e può comportare anche una deviazione della sessualità, tanto da giungere a casi di abusi sessuali. Anche per questo lo spazio dedicato all’affettività, che doveva entrare in vigore con il nuovo regolamento carcerario e che è stato bocciato dal Consiglio di Stato, ha una sua ragion d’essere. Carceri molto più degradate delle nostre, come quelle albanesi, prevedono spazi per l’affettività, come anche, in Europa, gli istituti penitenziari spagnoli». La presenza di disturbi psichici in ambiente carcerario si concretizza anche nelle cifre dei suicidi, dei tentati suicidi, degli atti di autolesionismo. Anche se spesso, è bene precisare, simili comportamenti, più che casi di disturbi psichici, sono considerati dal detenuto come l’unico modo con il quale tentare di far valere le proprie istanze. Il fatto che le medicine a più largo consumo nelle carceri italiane, anche in percentuali del 70-80% del totale, siano gli psicofarmaci la dice lunga sui disagi psicologici creati dalla reclusione. Anche se resta il dubbio, segnalato dal documento di “Antigone”, che gli psicofarmaci, oltre a essere somministrati come medicine, vengano impiegati anche come un «mezzo di controllo e un modo per mantenere l’ordine interno soprattutto nelle sezioni dei tossicodipendenti».
Infine c’è il capitolo psichiatrico, con i suoi dolori e le sue tragedie, che va dagli ospedali psichiatrici giudiziari alle sezioni di osservazione psichiatrica interne ai penitenziari, che, al 31 dicembre 1999, risultavano trattare 1.207 persone. È difficile immaginare che in queste strutture i detenuti godano una terapia adeguata. A questo proposito lo studio di “Antigone” denuncia che tali ambiti sopravvivono solo «come luoghi di mera custodia della sofferenza mentale». Commenta Ceraudo: «Hanno chiuso i manicomi, ma molti di quei malati ora sono “ospiti” delle patrie galere. Ormai il carcere è diventato una discarica con la quale liberarsi delle persone incontrollabili».
Oltre alle patologie che derivano dalla condizione detentiva, altre attengono alla composizione multietnica della popolazione carceraria. L’ingresso massiccio di extracomunitari ha immesso nel circuito carcerario malattie che erano scomparse dal territorio nazionale, tanto che, come ammette lo stesso Ceraudo, i medici penitenziari a volte si vedono costretti a ricorrere ai libri di medicina per la ricerca di spiegazioni e cure adeguate.
Discorso a parte va fatto per l’igiene e la profilassi: «I controlli sono ad opera del Sistema sanitario nazionale», afferma il presidente dell’Amapi: «A parte le questioni strutturali e la pulizia, come si può parlare di igiene in luoghi dove capita che manchino persino la carta igienica e il detersivo? È il caso del carcere di Pisa dove questi “beni” sono stati acquistati grazie a una colletta nelle parrocchie cittadine…».

Tossicodipendenti e sieropositivi in carcere
Forse il problema più grave che la sanità penitenziaria si trova ad affrontare, non fosse altro che per le dimensioni, è quello dei detenuti tossicodipendenti. Al 31 dicembre 1999 erano 15.097, circa il 29,6% della popolazione carceraria. Di questi, metà erano in carcere per detenzione e piccolo spaccio di sostanze stupefacenti; gli altri, in genere, per reati contro il patrimonio commessi per l’acquisto della “dose”. Don Mario Picchi, presidente del Cis (Centro italiano di solidarietà), che da anni si occupa del recupero dei tossicodipendenti, dice: «Le cause che concorrono all’uso, e quindi alla dipendenza, di stupefacenti sono generalmente legate all’ambiente sociale, alla famiglia. Non è impedendo l’assunzione di queste sostanze che si risolve il problema, perché usciti dal carcere si ricade. Anzi, normalmente la galera rende più cattivi. Inoltre la droga circola liberamente nei penitenziari, e quando anche non si riesce ad accedere alle sostanze tradizionali si ricorre ad altre, come i farmaci o l’alcool». Non esistono dati sulla circolazione della droga nelle carceri, ma che questo traffico esista lo segnalano anche le cronache giudiziarie: le inchieste per “spaccio”, oppure le morti per overdose in carcere (clamoroso il caso del carcere di Torino dove, nell’ottobre dello scorso anno, a distanza di pochi giorni l’una dall’altra, tre persone sono morte per questo motivo).
Per tentare di far fronte al massiccio aumento di detenuti tossicodipendenti, nei penitenziari è stata adottata la terapia del metadone (da alcuni anni in vari istituti, e dal 1 gennaio 2000, per legge, in tutti), cui ricorre la sanità pubblica. Ma con scarsi risultati. I Sert (Servizio tossicodipendenze) interni, deputati allo scopo, risultavano avere, al 31 dicembre 1999, solo 939 “pazienti”, una esigua percentuale del totale. Commenta Eugenio Iofrate: «L’Amministrazione penitenziaria fa poco o nulla per i tossicodipendenti, qualche iniziativa sporadica, qualche terapia… D’altronde come potrebbe? Anche la detenzione domiciliare, che in teoria potrebbe permettere una terapia più efficace, comporta vincoli, burocratici e non, che impediscono interventi adeguati. Per il momento la strada per avere un trattamento terapeutico minimamente efficace è quella dell’affidamento in prova al servizio sociale, un beneficio di legge che permette al detenuto di accedere a un servizio o a una comunità terapeutica». Ma anche qui c’è un ostacolo. A godere di questo beneficio può essere solo un detenuto che debba scontare tre anni di pena o abbia un residuo di pena analogo. Inoltre l’affidamento in prova può essere concesso solo ai condannati definitivi, restando esclusi i detenuti in attesa di giudizio. Don Picchi segnala una ulteriore difficoltà: «Il recupero dei tossicodipendenti che hanno conosciuto l’esperienza del carcere è più difficile di quelli che vengono in terapia da liberi: in carcere acquisiscono una mentalità diversa, un modo di vivere che crea non pochi problemi».
Qualcosa di diverso è stato tentato: negli anni Novanta si è provato a realizzare un regime carcerario apposito per i tossicodipendenti: la custodia attenuata. Ma con scarso successo. A spiegare le cause di questo fallimento è Diego Chialant, del Cis, responsabile del “Programma Piranesi”, pensato per il recupero dei tossicodipendenti detenuti: «La custodia attenuata è stata realizzata in alcuni istituti e in certe sezioni di alcune carceri italiane. In queste strutture i tossicodipendenti sono seguiti da una équipe medica e da personale di sorveglianza specializzato. Ma il tentativo si può dire fallito, sia per l’esigua percentuale dei tossicodipendenti trattati, sia per i risultati ottenuti. La custodia attenuata, a mio parere, paga un handicap di fondo: il fatto che non si tratta altro che di un regime carcerario diverso, in cui sopravvivono sbarre e chiavi, oltre al rapporto carcerato-carceriere. Infine è possibile, anzi probabile, che piuttosto che vedere queste strutture come possibilità terapeutica e di reinserimento sociale, molti detenuti scelgano questa via solo per accedere ad un ambiente carcerario più “libero”, un modo per passare meglio il periodo di detenzione».
Dice don Picchi: «Sui tossicodipendenti occorre aprire una seria riflessione tra istituzioni e operatori, per tentare vie nuove e diverse. Ad esempio, i soldi necessari al mantenimento e alla custodia di un tossicodipendente in carcere potrebbero essere usati più proficuamente destinandoli a strutture e servizi assistenziali, siano essi pubblici o privati, che abbiano possibilità di successo nel recupero di queste persone».
Altro capitolo tragico della sanità penitenziaria riguarda i detenuti sieropositivi e malati di Aids. Le persone risultate positive al test dell’Hiv, al 31 dicembre 1999, erano 1.638, pari al 3,17% del totale. Il dato, peraltro molto preoccupante, non è che indicativo, in quanto si riferisce solo al 34,48% del totale della popolazione carceraria, cioè a quelli che si sono sottoposti al test al momento dell’ingresso in carcere.
Ma il carcere non ospita solo i sieropositivi: nei penitenziari italiani risultano 163 malati di Aids conclamato. Ha suscitato scandalo il caso dei 32 detenuti reclusi nel centro clinico del carcere di Marassi, a Genova, che, al momento di una visita parlamentare avvenuta nel novembre del 1999, apparivano privi di protesi dentarie, alimentati con latte e biscotti, in ambienti infestati dagli scarafaggi. «Per queste persone la pena detentiva equivale a una pena di morte» commenta Francesco Ceraudo: «Le norme attualmente in vigore sono ossessivamente restrittive. Occorre una revisione che sancisca finalmente l’incompatibilità tra regime carcerario e alcune malattie particolarmente gravi, in particolare l’Aids e la tubercolosi».
Siamo agli inizi dell’estate. Il caldo e il sovraffollamento rappresentano una miscela esplosiva per alcune malattie. Conclude Ceraudo: «Speriamo che un provvedimento di clemenza giunga presto».


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