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DOSSIER EMERGENZA CARCERI
tratto dal n. 06 - 2000

Io speriamo che me la cavo


La rieducazione: ci sono solo 608 educatori per oltre cinquantamila detenuti. E in dieci anni la percentuale di quelli che riescono a svolgere o a imparare un lavoro durante il periodo di detenzione è scesa dal 43 al 23 per cento


di Paolo Mattei


Pena e rieducazione: ecco due vocaboli il cui accostamento è sancito dalla Costituzione italiana, nel terzo comma dell’articolo 27 che recita: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Esplicito al riguardo è anche l’Ordinamento penitenziario che ordina che nei confronti dei condannati e degli internati sia «attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi». A ribadire la stretta relazione tra pena e rieducazione viene oggi anche l’articolo 1 del Regolamento di esecuzione recentemente approvato.
Insomma, la legge è chiara. Chi sta in galera deve essere stimolato a reintrodursi nella “vita civile”. Ma tra questi due concetti, pena carceraria e rieducazione, si frappone una realtà che li rende concretamente antitetici, lontani e incompatibili. Una realtà fatta di istituti penitenziari sovraffollati, di organico carente, di fondi economici esigui: tutti fattori che impediscono agli “ospiti” delle patrie galere di seguire un proprio percorso rieducativo attraverso quelle attività culturali e ricreative, formative e lavorative che vengono compendiate nell’espressione “trattamento individualizzato”.

Lezione in aula nel carcere di Regina Coeli

Lezione in aula nel carcere di Regina Coeli

Educatori e volontari
Sono sempre le norme, le leggi, ad individuare negli educatori gli attori principali del processo di sostegno umano, culturale e professionale ai detenuti. Gli educatori si devono occupare, secondo l’Ordinamento penitenziario, del «trattamento rieducativo individuale o di gruppo, coordinando la loro azione con quella di tutto il personale addetto alle attività concernenti la rieducazione» (art. 82). Essi sono parte integrante dell’istituzione penitenziaria e costituiscono le équipe di osservazione che definiscono, valutano e orientano il percorso trattamentale del detenuto. È innanzitutto osservando i numeri che ci si rende conto dell’enorme distanza che separa le normative dalla realtà. La carenza di organico è a dir poco gravissima: per più di 50mila persone detenute nelle carceri italiane si contano in tutto 608 educatori. E se si scende nel particolare, i numeri non cessano di essere eloquenti. Nel carcere milanese di Opera – dove si scontano detenzioni lunghe, quindi un luogo in cui il trattamento dovrebbe essere curato particolarmente – tra gli oltre mille detenuti si trovano a lavorare tre educatori e due assistenti sociali; sempre a Milano, a San Vittore, ci sono 1.100 agenti di polizia penitenziaria e 1.500 detenuti, ma solo sei educatori. Anche se negli istituti più piccoli la situazione tende a migliorare leggermente, i casi in cui il rapporto fra educatori e popolazione detenuta scende al di sotto della media di un operatore ogni 50-60 persone sono estremamente rari.
Se accanto a questi dati si considerano i bilanci finanziari dei singoli penitenziari, ecco che si aggiunge un tassello significativo al puzzle. «All’attività di trattamento» spiega Stefano Anastasia, illustrandoci i risultati di un questionario che l’associazione “Antigone” ha realizzato presso una sessantina di carceri italiane, «mediamente ogni istituto penitenziario destina meno dell’1 per cento delle risorse complessive a sua disposizione. Con questi soldi si organizzano le attività scolastiche, di concerto con il Ministero della Pubblica istruzione, e altre pochissime cose. Gran parte del budget del carcere è finalizzato alle spese per il personale e alla gestione dell’ordinaria amministrazione».
Il volontariato che svolge la sua opera all’interno delle mura carcerarie, interviene, come quasi sempre accade, a limitare, per quanto possibile e lecito, le carenze dell’apparato istituzionale. Gli articoli 17 e 78 dell’Ordinamento penitenziario garantiscono la possibilità d’ingresso nelle prigioni ai volontari, a tutti coloro cioè che abbiano «concreto interesse per l’opera di risocializzazione dei detenuti» e che possano «utilmente promuovere lo sviluppo dei contatti tra la comunità carceraria e la società libera». Attualmente i volontari che prestano assistenza e sostegno individuale ai detenuti sono generalmente di matrice cattolica (o comunque confessionale: sta nascendo una significativa presenza musulmana), mentre le associazioni del volontariato e del “terzo settore” impegnate nella realizzazione di attività di tipo formativo, ricreativo e culturale sono in prevalenza laiche. Gran parte delle attività che vengono svolte effettivamente dentro gli istituti sono realizzate grazie al lavoro del volontariato esterno che in certi casi ha la possibilità di utilizzare finanziamenti provenienti da altri cespiti, per esempio i fondi messi a disposizione dalle Regioni, o dalla Comunità europea. «Il problema del volontariato in carcere» dice Anastasia «è che la sua presenza è molto disomogenea sul territorio nazionale. Ci sono realtà in cui c’è un volontario ogni dieci detenuti (è il caso della Toscana e del Veneto) ed altre in cui c’è un volontario per istituto, o non ce n’è nemmeno uno (come a Brindisi). In generale nel Mezzogiorno ce ne sono pochissimi». In effetti la presenza del volontariato carcerario è legata all’iniziativa dei singoli direttori e anche alla ricchezza del tessuto associativo dei singoli territori. «Comunque» conclude Anastasia «stando ad alcuni dati, le organizzazioni no profit che lavorano nel mondo carcerario sono 473 e i volontari 16.724 [compresi quelli che operano fuori dalle prigioni, presso i Centri di servizio sociale per adulti, cfr. box a p. 77]: numeri che, sebbene non piccoli, vengono resi, a livello nazionale, meno significativi dalla disomogenea diffusione sul territorio di cui s’è parlato».

Il lavoro in carcere
Scuola, formazione professionale, lavoro. Soprattutto di queste tre cose, s’è detto, è costituito il trattamento in carcere dei detenuti. E nell’intento pedagogico della legge, il lavoro dovrebbe rappresentare un passaggio fondamentale nel percorso di rieducazione e di risocializzazione. Ma alle carenze che abbiamo indicato va aggiunto un ulteriore fattore negativo – direttamente correlato alle insufficienze del sistema penitenziario – che contribuisce alla composizione di un quadro in cui, complessivamente, sono le tonalità scialbe a campeggiare. Si tratta della difficoltà, per la maggior parte dei reclusi, ad accedere alle attività trattamentali. E per quanto riguarda il lavoro, attualmente solo un quarto della popolazione carceraria ne risulta coinvolto.
I numeri sono ancora lì a riferire la grande distanza che separa i regolamenti dalla realtà della vita in carcere. Secondo le statistiche fornite dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, aggiornate al 31 dicembre 1999, su una popolazione carceraria composta da circa 51mila detenuti, quelli che lavoravano erano 11.903 (il 23,07%), dei quali l’85,66% era alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria. Di questi ultimi reclusi, quasi tutti erano impiegati nei cosiddetti “servizi interni”, le mansioni di basso livello (scopino, portavitto, bibliotecario, barbiere, giardiniere), utili, evidentemente, alla gestione logistica del penitenziario piuttosto che alla riqualificazione professionale delle persone. D’altro canto nel “lavoro esterno”, a cui allude l’articolo 21 dell’Ordinamento penitenziario (e a cui si accede previa autorizzazione della direzione dell’istituto e approvazione della Magistratura di sorveglianza), erano impegnati, al 31 dicembre del 1999, appena 223 detenuti. Così come pure nel cosiddetto “lavoro interno in attività produttive” (industrie e aziende agricole), che in passato ebbe una diffusione significativa, alla stessa data erano coinvolte solo 800 persone; di queste, 533 lavoravano nelle officine penitenziarie, e rappresentavano il 4,48% dei detenuti lavoranti, l’1,03% del totale dei detenuti. Va considerato pure il fatto che gran parte dei detenuti impegnati nelle officine penitenziarie si concentra in soli tre istituti: Noto, Porto Azzurro, Favignana.
La cosiddetta “legge Smuraglia”, recentemente approvata dal Parlamento, prevede la defiscalizzazione per le imprese, private e pubbliche, che scelgono di “assumere” detenuti, affidando lavori in appalto a gente che sta in galera. «È una cosa buona» commenta Anastasia: «Speriamo porti in breve tempo i suoi frutti».
I “grandi numeri” del lavoro in carcere, quindi, sono relativi ai servizi interni che, come s’è accennato, se da una parte sono utili per intascare la mercede dell’Amministrazione penitenziaria, dall’altra non hanno alcun significato nell’ambito di un’auspicata riqualificazione professionale del detenuto. Bisogna tener presente inoltre che l’impiego in questa tipologia lavorativa è soggetto al sistema di rotazione, cioè ad una divisione in turni brevi (della durata di una, due o tre ore), perché, ovviamente, è necessario che ci sia spazio per tutti, dal momento che molti dei reclusi hanno il problema di sostenere economicamente le proprie famiglie. In sostanza, attualmente tre detenuti su quattro non hanno la possibilità di lavorare, e viene considerato lavorante anche chi è impegnato una o due ore al giorno nei servizi interni.
Dando una scorsa alle statistiche risulta che solo dieci anni fa la percentuale dei detenuti impegnati in attività lavorative era molto più alta, circa il 43%, quasi un detenuto su due. Che cosa è cambiato in questi ultimi dieci anni? È successo, molto semplicemente, che da una parte c’è stato un aumento massiccio della popolazione penitenziaria – nel ’90 i detenuti erano circa 29.000, oggi sono circa 54.000 –, e dall’altra non si è registrata una crescita equivalente del numero dei posti di lavoro disponibili, che erano allora e rimangono tutt’oggi più o meno 12.000. Tenendo conto che queste cifre si riferiscono a mansioni lavorative che, come si è detto, non si traducono quasi mai in una reale possibilità di riqualificazione professionale, risulta evidente che il sistema lavorativo del carcere è tutto ripiegato su se stesso. Inoltre, l’accesso al lavoro dei detenuti è legato a logiche “premiali”, si organizza in base a graduatorie i cui elementi di valutazione (molti dei quali previsti dalla legge: condizione economica, anzianità detentiva, familiari a carico, pena da scontare) sono stabiliti dalle direzioni dei singoli istituti che usano criteri diversi; «e le modalità di selezione» dice Anastasia «sono molto spesso abbandonate a una informalità che diventa cattiva consuetudine».

Rebibbia, nella sezione femminile di massima sicurezza  una bambina di 17 mesi gioca al “passeggio” con la mamma condannata 
a otto anni di reclusione

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La scuola e la formazione
«A Regina Coeli quest’anno siamo in sei insegnanti elementari, ognuno con dodici alunni i quali, anche riuniti nella stessa sezione, non appartengono alla stessa classe: quindi, per tre ore al giorno io mi trovo ad insegnare a diversi livelli, dividendo i dodici frequentanti in gruppi a seconda della classe elementare di riferimento. Lavorando in un carcere giudiziario, con frequenti trasferimenti, non arrivo mai alla fine dell’anno con gli stessi alunni dell’inizio e sono quasi continuamente costretta a congedare quelli che se ne vanno e a ricominciare con i nuovi che li sostituiscono. Mi è capitato spesso di partire in autunno con dodici persone e arrivare in primavera con dodici altre… Quasi sempre perdo le tracce dei detenuti con cui ho lavorato…»: così Rosa Trotta, educatrice, dipendente dal Ministero della Pubblica istruzione, che da dieci anni fa l’insegnante elementare in carcere, parla di uno dei tanti problemi che caratterizzano la scuola nelle carceri, nella fattispecie quelle giudiziarie e le case circondariali, dove la brevità della sosta dei detenuti impedisce di garantire alla maggior parte di loro di terminare il corso di studi.
Ma i problemi della scuola e della formazione negli istituti penitenziari sono molteplici. Anastasia ci spiega che «c’è una confusione innanzitutto nel monitoraggio a livello nazionale delle attività svolte nelle carceri. La scuola e la formazione sono attività che pur se svolte negli istituti penitenziari restano competenza, per la loro organizzazione, gestione e programmazione, di istituzioni esterne, del Ministero della Pubblica istruzione o di altri enti. Le risposte ai nostri questionari risultano confuse perché gli stessi direttori d’istituto spesso non sanno dirci qual è l’ente gestore dei corsi, se i finanziamenti provengano dall’Amministrazione penitenziaria o dalla Pubblica istruzione, dalla Comunità europea o da altro». I dati del questionario di “Antigone” ci informano che nell’anno scolastico 1998-99 in 84 istituti penitenziari non erano presenti corsi di scuola dell’obbligo (in Sardegna 8 istituti su un totale di 12 ne erano privi), che i corsi di scuola media attivati erano 150, e che quelli di scuola secondaria superiore erano 43 attivati in 34 istituti penitenziari (19 professionali, 23 tra tecnici commerciali e per geometri, 1 liceo). A questi corsi vanno aggiunti altri 11 attivati da iniziative volontarie private. In Basilicata non era attivo nessun corso di scuola secondaria superiore. Nel Lazio, su 9 corsi di scuola secondaria superiore, 7 risultavano concentrati a Rebibbia. Presso l’istituto Le Vallette di Torino è presente un polo universitario attivato dalla locale Università.
Il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria fornisce invece dati relativi all’anno scolastico 1996-97, che registrano l’attivazione di 145 scuole elementari (con 3.391 iscritti e 1.029 promossi); 3.216 iscritti alle scuole medie (963 promossi); 654 iscritti alle scuole secondarie superiori (225 promossi); 39 iscritti a corsi universitari.
Per quanto riguarda i dati sulla formazione professionale i numeri sono elevati: 256 corsi di formazione professionale attivati nel secondo semestre del ’99, 3.018 i detenuti iscritti, 144 i corsi terminati, 1.192 i detenuti promossi. «Ma a questi numeri non sempre corrisponde la qualità dei corsi e l’efficacia al fine della formazione professionale in vista di una collocazione lavorativa postcarceraria», nota Anastasia. E spiega: «Sulla scuola ci sono soprattutto problemi di programmazione territoriale. L’istruzione in carcere non può essere affidata solo al volontarismo dei singoli direttori, che in alcuni casi si attivano per istituire dei corsi nei propri istituti. C’è bisogno di un piano organico di istruzione sul territorio, per evitare la disomogeneità che è il grande dato risultante da questa serie di numeri: l’esempio della Basilicata, dove non è attivato nessun corso di scuola secondaria superiore, è emblematico. Per non parlare di Toscana, Veneto, Friuli, Trentino e Sicilia orientale dove la situazione, da questo punto di vista, migliora di poco. Bisognerebbe definire, ad esempio, poli d’istruzione e formazione professionale su base regionale. Ma queste iniziative si possono realizzare solo a partire da una più stretta collaborazione tra l’Amministrazione penitenziaria e il Ministero della Pubblica istruzione. Gli anni di carcere rischiano di essere anni buttati per una popolazione la cui età media è di 30-32 anni, formata per più del 50% da persone che non hanno assolto l’obbligo scolastico».


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