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SIERRA LEONE
tratto dal n. 06 - 2000

La crudeltà della guerra, la vita della Chiesa

I fiori di Makeni


Gli appunti, pieni di sorpresa, di un vescovo dal Paese più povero del mondo


di Giorgio Biguzzi


A Roma, ero di passaggio. Cenando con i miei confratelli saveriani, ad un certo punto il superiore generale mi chiede: «Ma la guerra in Sierra Leone è una guerra civile?». «No» faccio io, «è una guerra di banditi». Banditi, il cui unico fine è di accaparrarsi i diamanti, il rutilo e la bauxite, che questa terra dona generosamente. E per questo non temono di arruolare bambini negli squadroni della morte, di usare il machete per mutilare e uccidere, di straziare un popolo – quello del Paese più povero del mondo – che già piange oltre cinquantamila morti. In questa guerra, che dopo un accordo di pace siglato a Lomé nel luglio ’99 ha ripreso vigore a Pasqua – con l’eclatante rapimento di 500 caschi blu dell’Onu ad opera dei ribelli al governo centrale –, talvolta si fatica a distinguere i buoni dai cattivi. E ciò che è doloroso, diabolico nella sua ipocrisia, è che, come sempre quando si parla di Africa, seguendo induttivamente i fili nascosti (ma non troppo) dietro questa ennesima tragedia africana, si arriva al nostro mondo occidentale, precisamente nelle grandi capitali.
E allora, da dove ci verrà l’aiuto? Dal Signore, che ama i poveri.
Queste poche righe, non le dedico all’analisi, al “bilancino” paradossale dei torti e delle ragioni delle fazioni in campo perché potrei anche dire che mi sento deluso di come le stesse Nazioni Unite hanno gestito la loro presenza, tradendo l’attesa di sicurezza e pace del popolo. E potrei dire a chi intende risolvere tutto con la violenza – anche da parte governativa e delle organizzazioni internazionali – che otterrà unicamente il risultato di trasformare la Sierra Leone nel Vietnam dell’Africa nera.
Vorrei invece raccontarvi dei fatti, che hanno rallegrato il deserto umano che questa guerra decennale insiste a produrre. Sono i fiori di Makeni, la mia diocesi in Sierra Leone.

Un piccolo dono molto gradito. 
Nella foto, Giorgio Biguzzi, vescovo 
di Makeni (Sierra Leone), missionario saveriano

Un piccolo dono molto gradito. Nella foto, Giorgio Biguzzi, vescovo di Makeni (Sierra Leone), missionario saveriano

Qualcuno pensa che io sia diventato, bruciate le case e dispersi gli abitanti sopravvissuti, il vescovo di un cimitero; qualcun altro in fondo mi commisera.
Vorrei dire che non è così. L’evangelizzazione nella mia diocesi è cominciata negli anni Cinquanta, con i missionari. Poi, poco alla volta, sono sorti i sacerdoti locali, e puntualmente un laicato locale: all’inizio c’erano solo ragazzini, seguiti però ben presto dalle loro famiglie, poi sono venuti sacerdoti e catechisti locali. E sino agli anni Novanta, quando si è scatenata la guerra, vi è stata per il popolo gioviale della Sierra Leone, e quindi per la Chiesa, una relativa tranquillità, nella povertà. Poi – era il marzo del ’91 – i “ribelli” del Ruf (Revolutionary United Front) iniziano la guerra. Si trattava, come tuttora, di gente con un’ideologia molto confusa nella teoria e molto crudele nella pratica, tanto da oltrepassare ogni tabù, umano e religioso: hanno saccheggiato ostelli dei poveri, chiese, cimiteri, compiuto profanazioni. Non era possibile – ce ne siamo accorti dopo vari sequestri di missionari, qualcuno ucciso – rimanere al nostro posto sperando di dialogare con loro. Così, soprattutto in quest’ultimo anno e mezzo, all’avanzare dei ribelli, sacerdoti locali, missionari, suore e religiosi, tutti ci siamo ritirati seguendo il flusso degli sfollati, per aver salva la vita. Io stesso da Makeni mi sono recato fino in Guinea e poi ho trovato riparo nella capitale della Sierra Leone, Freetown. Tuttora questa è la situazione, mia e della Chiesa. Ogniqualvolta mi è possibile, da Freetown raggiungo il territorio della mia diocesi di Makeni (che è in mano alle bande ribelli), e pure gli altri missionari e i sacerdoti locali ritornano alle loro chiese.

Da Natale a Pasqua io e alcuni dei miei amici siamo riusciti a ritornare in diocesi, e a Pasqua addirittura siamo riusciti a “coprire” il territorio nuovamente, assicurando l’Eucarestia in tutte le parrocchie della diocesi. Io ho celebrato a Makeni – lì abbiamo tre parrocchie riunite in una per mancanza di sacerdoti in città – mentre gli altri sacerdoti sono andati in tutte le altre parrocchie fuori del capoluogo: questo dopo circa un anno (in alcuni posti anche più a lungo) in cui non c’era stata la presenza del sacerdote, missionario o locale. Abbiamo constatato di aver subìto tanti saccheggi (libri liturgici, banchi della messa, tabernacoli aperti e profanati). Però abbiamo scoperto una cosa che… sì, un po’ presentivamo… ma vederla e toccarla con mano è commovente. Che il seme piantato dagli anni Cinquanta in poi, che l’annuncio di Gesù fatto già allora dai miei confratelli, avesse messo radici, questo noi tutti lo avremmo detto e ripetuto, anche meccanicamente, ma ammirare come ha portato frutto nel cuore di tanti nel popolo sierraleonese, è tutt’altro. È aver davanti la Chiesa, viva.

Era un sabato mattina. Mi alzo e con alcuni amici decido di fare un viaggio estemporaneo, all’improvviso, senza avvisare nessuno del mio arrivo. Pensavo tra me, triste: «Non troverai nessuno, cosa vuoi sperare in tanta tragedia?». Così arrivo alla parrocchia di Kamabai, 25 miglia a nord di Makeni… ed erano tutti lì, i capi comunità! Le nostre parrocchie ovviamente sono molto vaste, comprendono tanti villaggi, e dove esiste una piccola comunità cristiana c’è pure chi la dirige, come catechista o come “leader” della preghiera, capo-comunità, insomma. Ed eccoli lì! Stavano facendo il regolare raduno mensile per la pastorale del mese seguente, assieme discutevano di come portare avanti la liturgia, la catechesi, di come assistere le persone più colpite e incoraggiarsi a vicenda. I nostri laici, i nostri catechisti, le nostre famiglie, quel che è bello, non si sono limitati a mantenere le comunità che avevano, ma, con un certo baldanzoso orgoglio, prima mi hanno presentato uno ad uno i vari capi-comunità («Tizio è di quella comunità, Caio di quell’altra») poi a un certo punto hanno detto: «Però ne abbiamo tre in più: tre comunità in più che non esistevano prima, cioè le abbiamo fondate noi!». Sono andati in altri villaggi a evangelizzare, a dire: «Noi siamo cristiani», e son sorte tre comunità in più. Stavolta la Chiesa viva non era solo una bella parola, omiletica e vuota, è la realtà, veduta con questi miei occhi. E mi ricordo con esattezza anche la data: a Kamabai era il 25 marzo 2000, era la festa dell’Annunciazione.

Mi era sorta in cuore speranza e curiosità. Così quello stesso giorno, facciamo un altro giro segreto nelle altre comunità: via, verso la parrocchia di Bombuna. Era pomeriggio. Ed anche lì gli uomini del “consiglio parrocchiale” erano assieme, cercando di assicurare una qualche liturgia della domenica: chi avrebbe fatto una lettura, chi avrebbe dato degli avvisi. Non ci sono telefoni, né comunicazioni, niente, siamo capitati lì all’improvviso, non è che lo sapessero e volessero un mio plauso, macché… Un po’ più tardi andiamo giù all’altra parrocchia, Magburaka – faceva quasi sera – e lì abbiamo trovato i giovani che stavano facendo il loro raduno, ma un gruppo nutrito di giovani, per parlare delle loro attività, quali portare avanti durante la settimana, come assicurare la liturgia per il giorno dopo, assistiti da quelli più anziani della comunità e da alcuni catechisti. Questa è un’altra dimostrazione chiarissima che la comunità, senza di me, senza preti o missionari, è rimasta viva, più che viva.

Questi poveri non solo si radunano per la preghiera, che è già molto bello, e per sostenersi a vicenda, non solo per evangelizzare o addirittura fondare nuove comunità – e ci vuole coraggio, in una situazione controllata dai ribelli – ma mi hanno insegnato la carità.
A Makeni c’è una casa delle suore di Madre Teresa – che sono dovute partire, io stesso ho chiesto loro che andassero via, purtroppo poi a Freetown quattro sono state uccise –, è un ostello per i poveri, oltre che loro mensa quotidiana. C’era rimasta una dozzina di anziani, uomini e donne, abbandonati, nullatenenti. Avevamo lasciato ad accudirli un gruppo di quattro, cinque giovani – il capo, il più grande aveva forse 23 anni – e loro sono riusciti a salvaguardare e a mantenere questi poveri durante tutto il periodo della nostra assenza. Magari qualche volta hanno patito la fame, tutti assieme giovani e poveri, qualche volta hanno avuto magari solo un po’ di kasava una volta al giorno, un po’ di patate, roba del genere. Mi hanno raccontato che questi ragazzi avevano il coraggio di andare perfino dai ribelli a chiedere: «Voi, che dite di essere per il popolo, con i poveri, per questi anziani adesso come la mettiamo?». Ed hanno steso la mano per chiedere ai ribelli un po’ di kasava e patate, ricevendole.
Dopo Pasqua io ero partito, quando sono riscoppiate le ostilità, e non c’era modo di ritornare: eravamo impreparati e siamo rimasti tagliati fuori – io ero andato a Freetown per un incontro della Conferenza episcopale regionale, gli altri padri erano venuti per cercare riposo in un piccolo break pasquale. E non avevamo neanche provveduto a questo ostello dei poveri, e con paura ci chiedevamo: «Cosa sarà successo?». Poi, alla fine di maggio, a Freetown mi vedo arrivare Norbert, il capo di questi ragazzi (Mohammed è il suo nome musulmano, ma adesso è battezzato, cattolico), che mi fa: «Padre, manca il cibo, ne abbiamo solo per due giorni, non so più come fare. Non sono fuggito, ma devo tornare laggiù a Makeni con qualcosa, perché sicuramente i nostri poveri moriranno». Era venuto a piedi, due giorni di cammino nel bosco e di vie traverse per evitare i posti di blocco. Gli abbiamo dato soldi per mantenere questi poveri per altri due mesi, ed è tornato indietro. Non so ancora se sia arrivato, ma penso che se è stato capace di raggiungerci a Freetown, senz’altro sarà ritornato a Makeni. Norbert ha avuto il battesimo che era già grande, da pochi anni. La sua vocazione nel servire i poveri è una cosa grandissima.

Quando la guerra infuriava, e le bande ribelli letteralmente si scatenavano, tanti dei nostri laici correvano subito per cercare di nascondere i calici e le cose della comunità, della Chiesa. Molte volte hanno salvato l’Eucarestia.

A Makeni avevamo anche un centro di riabilitazione dei bambini-soldato, che funzionava bene grazie agli assistenti sociali della Caritas locale. Rimasti tagliati fuori io e gli altri religiosi nel periodo pasquale, il nostro primo pensiero è stato il timore che i ribelli se li riprendessero tutti. Infatti, un capo-banda s’è presentato alla porta e ne ha portati via un certo numero. Non hanno potuto resistere: a Makeni già i ribelli posseggono un controllo pressoché totale, e con il riaprirsi delle ostilità non c’era proprio nessuno che potesse contrastarli. Allora, ad alcuni degli assistenti della Caritas, che erano a Freetown con me, ho chiesto di ritornare indietro. Sono partiti in due, e come sempre hanno dovuto fare due giornate a piedi attraverso il bosco. E quando sono arrivati – sorpresa! – hanno trovato ancora un numero abbastanza grande di questi bambini-soldato: non tutti erano stati rapiti o erano fuggiti o peggio avevano ripreso la via delle armi. Ma ora il centro di riabilitazione era sotto il controllo dei ribelli… Così quelli della Caritas studiano un po’ la situazione e un piano di fuga: in genere i ribelli si scatenano durante il giorno, la sera fino alle due di notte si ubriacano e diventano pericolosi, dopodiché, sbronzi, incominciano ad addormentarsi. Ecco il piano: gli assistenti non hanno detto niente ai bambini, perché la notizia non trapelasse per caso; dopo mezzanotte sono andati da loro e hanno detto: «Venite via con noi, siete d’accordo?». «Sì, tutti d’accordo», nessuno è voluto rimanere indietro; hanno aspettato fino alle due di notte, quando i ribelli erano fuori combattimento, e attraverso il bosco sono fuggiti, con grande pericolo di essere visti o incontrati da qualche banda. Cosa che però è successa il giorno dopo. A un certo punto in un villaggio sono incappati in alcuni ribelli, che per fortuna erano pochi e hanno chiesto solo di avere un po’ di questi bambini come portatori. Quelli della Caritas hanno rifiutato, insistito: alla fine i ribelli ne hanno portato via uno solo, il più grosso e robusto, per caricarlo dei loro pesi, e gli altri hanno potuto continuare la fuga. Ma questo ragazzo era un tipo sveglio, e dopo due giorni è riuscito a scappare e ha raggiunto il gruppo. Aveva avuto una vita nuova nel centro Caritas con gli altri bambini, e non la voleva più perdere.

L’avventura non era finita. Passando dalla zona controllata dai ribelli alla zona della milizia civile era facile che il gruppo – ottantasette bambini, più gli assistenti sociali adulti nel mezzo – venisse sospettato di essere una squadra di ribelli, col pericolo di farsi sparare addosso. Allora il capo di questi assistenti della Caritas ha formato tre gruppi, marciando lui e un altro assistente per primi con i più piccolini, quelli dai sei ai dieci anni, di modo che evidentemente nessuno li scambiasse per ribelli. Un chilometro dopo seguivano i ragazzotti più grandi, dai dieci ai quindici anni; infine il gruppo con le bambine e le donne. Attraversando i villaggi il capo assistente poteva spiegare che stava solo riportando dei bambini alla Caritas e che anche i gruppi che sarebbero arrivati di lì a poco stavano con lui. Così sono giunti fino alle postazioni dei caschi blu. Ma qui hanno avuto un altro piccolo incidente, perché da un villaggio li hanno visti da lontano, e prima ancora di chiedere chi fossero sono corsi ad avvisare la milizia civile, che gli è saltata addosso pensando che fossero ribelli. Per pura fortuna non hanno sparato, ma hanno ingiunto di sedersi a terra, li hanno minacciati e interrogati, e sono riusciti a convincersi solo quando quelli della Caritas hanno chiesto di verificare con i caschi blu lì vicino la loro identità. Il capo degli assistenti si è fatto accompagnare alla postazione, i caschi blu sono venuti e hanno garantito per la loro salvezza.
La Chiesa viva in Sierra Leone: i laici, che avrebbero dato tutto per salvare questi bambini e la loro speranza. I bambini, che mai vorrebbero perdere un’infanzia appena ritrovata. E tanti sacerdoti, cacciati o rimasti, che ho visto amare con tutta l’anima questo popolo di poveri. Quello è il loro tesoro, lì è il loro cuore.


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