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LETTERATURA
tratto dal n. 06 - 2000

Il miracolo di vincere


In una squadretta rionale di calcio votata alla sconfitta arriva Zoran, un allenatore-giocatore straniero: è un fuoriclasse che affascina i compagni e incanta il pubblico. Con lui tutto cambia, ma un giovedì santo viene rapito... Il mister, l’ultimo romanzo di Manlio Cancogni, è una metafora della vita di Gesù con i discepoli, raccontata attraverso gli occhi di un bambino


di Paolo Mattei


Pubblico dei tornei di calcio italiani negli anni Trenta

Pubblico dei tornei di calcio italiani negli anni Trenta

«Lui entrò in campo, su quel terreno scivoloso toccò il primo pallone, fece la prima finta, e tutto cambiò». Lui è Zoran, l’allenatore-giocatore del Malafronte, una squadretta rionale di calcio che nella Roma dei primi anni Trenta capovolse tutte le previsioni plausibili sull’andamento del torneo per dilettanti, che in quegli anni, ogni domenica, riempiva di spettatori non paganti i «margini dei brulli campi di gioco della periferia». Lui travolse le vite dei giocatori che se lo ritrovarono compagno di squadra e di osteria in quella Roma periferica e tutto sommato tranquilla, agitata solo quasi impercettibilmente dagli incipienti mutamenti che avrebbero sconvolto, di lì a qualche anno, il destino di milioni di vite in tutto il mondo. Il mondo del piccolo Ugo era, in quegli anni, quella periferia, il rione Savoia, tra via Salaria e via Nomentana, dove ebbe la ventura, in una fuga domenicale assieme alla sorellina malata (la accompagnava spingendola sulla carrozzella) di imbattersi in «una fitta siepe di spalle umane» che «nascondeva la vista di qualcosa di straordinario che stava accadendo nella cavità aperta fra la strada e la collina. […] Poi un pallone s’impennò in aria, sopra le teste, e ricadde pesantemente, scomparendo».
L’ultimo romanzo di Manlio Cancogni racconta la vicenda di un bambino, Ugo, di una squadra di calcio abborracciata all’ultimo minuto e senza speranze d’allori (anche soltanto rionali), e di un allenatore-giocatore straniero, Zoran, che al suo Paese era soprannominato la “gazzella” per l’abilità dei suoi «scarti improvvisi che ingannavano l’avversario e il pubblico» e per la morbidezza con cui i suoi piedi «lunghetti e aperti (“dolci” si dice in romanesco) lavoravano la palla […] mandandola di precisione dove lui voleva». Questo fuoriclasse affascinò squadra e pubblico, e portò entrambi verso un inatteso successo, in una farandola di vittorie. Poi, il giovedì santo del ’33 (era il 4 aprile), fu rapito e sparì dalla circolazione. L’allegoria, è bene dirlo subito, non è oscura. Non ci sono nella prosa piana e sobria del romanzo di Cancogni “velami” criptici. Che tutto faccia pensare a Gesù, ai suoi primi amici, a quello che la sua presenza suscitò in chi si imbatté in Lui, al fascino e ai miracoli che operò e alle mortali inimicizie che si procurò, è evidente. Ma questa perspicuità nulla sottrae alla simpatia dell’intreccio e all’originalità della storia. Nella peculiare ambientazione calcistica dell’avventura degli amici di Zoran – nella Roma del ventennio fascista – molto semplicemente, con tenuità di stile, lo scrittore bolognese racconta quello che accadde, quello che provò chi Lo incontrò veramente, duemila anni fa. E lo fa attraverso gli occhi e la curiosità di un bambino, Ugo (il cui profilo è venato di autobiografismo), che – girovagando «da solo nelle strade del quartiere, dove lo conducevano i passi e la fantasia. Passi e fantasia, e forse il caso» – vede giocare Zoran, appunto, nel Malafronte. E vede vincere quella «squadra messa insieme per miracolo» che prima dell’entrata in campo della “gazzella” le aveva sempre buscate: fino al momento in cui Zoran, a un quarto d’ora dalla fine di una partita, segna il gol decisivo e Ugo se lo trova davanti agli occhi «sollevato in aria, e portato così, fra visi sudati e braccia alzate, verso il centro del campo» dai compagni del Malafronte.
Giocatori dei tornei di calcio italiani negli anni Trenta

Giocatori dei tornei di calcio italiani negli anni Trenta

In effetti, l’arrivo di quello speciale allenatore-giocatore «aveva segnato una svolta» e i giornali che riportavano le notizie sportive dei tornei minori di Roma dicevano che egli «aveva operato una vera rivoluzione nell’animo dei giocatori». Certo, era una cosa piccola. Si trattava di squadrette. «Il pubblico, ridotto (poche centinaia di spettatori a partita, a volte meno), era composto di sfaccendati, poveracci, ragazzi, quando non erano familiari o amici dei giocatori stessi. Fatterelli insomma». Però, per chi era là, «qualcosa di significativo era avvenuto», e quelli che stavano «in riga sui bordi del campo, o aggruppati dietro le porte, seduti con un foglio di giornale sotto il sedere […] o in piedi, sparsi come capre sulla scarpata di via Crati, qua e là come sui gradini di una rudimentale tribuna, tutti i presenti al fatto (che fossero poche centinaia non ha importanza) l’avevano, quel fatto fuori dell’ordinario, registrato, vissuto». Al bambino era rimasta «un’allegrezza, diciamo un’ilarità del cuore, che nel corso della giornata sarebbe più volte riemersa, affiorando al viso e agli occhi in un sorriso». Cresceva e si diffondeva l’ammirazione e l’affetto per quei dodici amici, calciatori dilettanti, che giocavano con incantevole stile, vincevano con facilità: «Il Malafronte era entrato nel cuore della gente minuta del quartiere, quella folla di impiegatucci, artigiani, commessi». Quel pubblico di «poveracci» che fino ad allora «non mostrava di avere preferenze», che «applaudiva e fischiava indifferentemente», che «rideva ai “lisci” dei giocatori, qualunque fosse la loro maglia, tutti “scamorze”, “peracottari”», incominciava ad amare quella squadra, quell’allenatore che era anche uno straordinario goleador. «Forse nascosto nel cuore di ciascuno di loro c’era un desiderio, un bisogno, che andava oltre la soddisfazione offerta da un semplice episodio sportivo. Zoran l’aveva acceso».
Il romanzo di Cancogni scorre lieve, come una cronaca discreta e puntuale, nella descrizione dell’invidia che cresce nel rione – accanto alla popolarità – nei confronti del Malafronte; si riempie di personaggi come il bullo capopolo fascista, il federale del quartiere, il presidente della squadra rionale avversaria; ribolle nel fermento crescente per le strade, nei bar, nelle case; si affaccia nello squarcio di un resoconto su «fatti singolari» che accadono nel quartiere (una strana visione misticheggiante e le sospette adunanze di una setta religiosa che danno la stura a inchieste giornalistiche e giudiziarie e offrono il destro a chi desidera distruggere quella squadra che vince); e si dipana nel resoconto delle belle vittorie del Malafronte, dell’amicizia che quell’uomo aveva generato tra quegli improvvisati campioni («ognuno di loro aveva ora una faccia, erano amici»), e nella narrazione della persecuzione dello «straniero», da parte di chi, pensò Ugo, «invidia la festa che ha portato nel nostro cuore». Fino al suo rapimento.

Quella storia, così bella e inaspettata per tutti quelli che l’avevano intravista («era stata una sorpresa»), quell’avventura che gli aveva cambiato la vita («C’era altro. O meglio c’erano le stesse cose, però con un aspetto nuovo») finiva con la fine di quell’uomo. E non bastava il ricordo che tentava invano di ricrearla, di riproporsela come ancora reale e certa. «La gioia però non durava; anzi a quella certezza, che per pochi istanti gli procurava tanta esaltazione, seguiva un raffreddarsi del cuore che gliela faceva apparire simile a un pensiero astratto […]. Sta bene… è una cosa grande; ma dopo?»: ognuno di quelli che si erano imbattuti in quella vicenda provava questo dolore. Una storia così, quando finisce, lascia nella disperazione.
È una piccola perla questo romanzo di Manlio Cancogni. Rara, com’è raro trovare chi sappia raccontare una storia “cristiana” così semplicemente. Lui si definisce un outsider della letteratura, pur avendo scritto una trentina di libri (il primo racconto è del 1939 e lui è nato nel ’16), e vinto i più prestigiosi premi letterari italiani (tra gli altri, lo Strega nel ’73 e il Viareggio nell’85). Giornalista per L’Europeo, L’Espresso, La Fiera Letteraria, Il Corriere della Sera, Il Giornale (giornalismo letterario, da “terza pagina”, ma anche grandi inchieste di attualità) Cancogni, raggiunto telefonicamente, ci racconta con autoironia che i giornalisti lo hanno sempre trattato da letterato e i letterati da giornalista. Chissà, forse è proprio questa sua “medietà” la caratteristica che gli ha permesso di scrivere un romanzo che possiede la rapidità della cronaca e l’immediatezza della poesia.
Chissà, forse pure la formazione e la vicenda laiche di questo scrittore, convertitosi al cristianesimo di recente, hanno contribuito all’“invenzione” di questa storia, che si chiude con l’episodio di un miracolo. Il segno più bello e più certo che Lui era ancora con loro e che quella storia non sarebbe più finita.


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