Il miracolo di vincere
In una squadretta rionale di calcio votata alla sconfitta arriva Zoran, un allenatore-giocatore straniero: è un fuoriclasse che affascina i compagni e incanta il pubblico. Con lui tutto cambia, ma un giovedì santo viene rapito... Il mister, l’ultimo romanzo di Manlio Cancogni, è una metafora della vita di Gesù con i discepoli, raccontata attraverso gli occhi di un bambino
di Paolo Mattei
Pubblico dei tornei di calcio italiani negli anni Trenta
L’ultimo romanzo di Manlio Cancogni racconta la vicenda di un bambino, Ugo, di una squadra di calcio abborracciata all’ultimo minuto e senza speranze d’allori (anche soltanto rionali), e di un allenatore-giocatore straniero, Zoran, che al suo Paese era soprannominato la “gazzella” per l’abilità dei suoi «scarti improvvisi che ingannavano l’avversario e il pubblico» e per la morbidezza con cui i suoi piedi «lunghetti e aperti (“dolci” si dice in romanesco) lavoravano la palla […] mandandola di precisione dove lui voleva». Questo fuoriclasse affascinò squadra e pubblico, e portò entrambi verso un inatteso successo, in una farandola di vittorie. Poi, il giovedì santo del ’33 (era il 4 aprile), fu rapito e sparì dalla circolazione. L’allegoria, è bene dirlo subito, non è oscura. Non ci sono nella prosa piana e sobria del romanzo di Cancogni “velami” criptici. Che tutto faccia pensare a Gesù, ai suoi primi amici, a quello che la sua presenza suscitò in chi si imbatté in Lui, al fascino e ai miracoli che operò e alle mortali inimicizie che si procurò, è evidente. Ma questa perspicuità nulla sottrae alla simpatia dell’intreccio e all’originalità della storia. Nella peculiare ambientazione calcistica dell’avventura degli amici di Zoran – nella Roma del ventennio fascista – molto semplicemente, con tenuità di stile, lo scrittore bolognese racconta quello che accadde, quello che provò chi Lo incontrò veramente, duemila anni fa. E lo fa attraverso gli occhi e la curiosità di un bambino, Ugo (il cui profilo è venato di autobiografismo), che – girovagando «da solo nelle strade del quartiere, dove lo conducevano i passi e la fantasia. Passi e fantasia, e forse il caso» – vede giocare Zoran, appunto, nel Malafronte. E vede vincere quella «squadra messa insieme per miracolo» che prima dell’entrata in campo della “gazzella” le aveva sempre buscate: fino al momento in cui Zoran, a un quarto d’ora dalla fine di una partita, segna il gol decisivo e Ugo se lo trova davanti agli occhi «sollevato in aria, e portato così, fra visi sudati e braccia alzate, verso il centro del campo» dai compagni del Malafronte.
Giocatori dei tornei di calcio italiani negli anni Trenta
Il romanzo di Cancogni scorre lieve, come una cronaca discreta e puntuale, nella descrizione dell’invidia che cresce nel rione – accanto alla popolarità – nei confronti del Malafronte; si riempie di personaggi come il bullo capopolo fascista, il federale del quartiere, il presidente della squadra rionale avversaria; ribolle nel fermento crescente per le strade, nei bar, nelle case; si affaccia nello squarcio di un resoconto su «fatti singolari» che accadono nel quartiere (una strana visione misticheggiante e le sospette adunanze di una setta religiosa che danno la stura a inchieste giornalistiche e giudiziarie e offrono il destro a chi desidera distruggere quella squadra che vince); e si dipana nel resoconto delle belle vittorie del Malafronte, dell’amicizia che quell’uomo aveva generato tra quegli improvvisati campioni («ognuno di loro aveva ora una faccia, erano amici»), e nella narrazione della persecuzione dello «straniero», da parte di chi, pensò Ugo, «invidia la festa che ha portato nel nostro cuore». Fino al suo rapimento.
È una piccola perla questo romanzo di Manlio Cancogni. Rara, com’è raro trovare chi sappia raccontare una storia “cristiana” così semplicemente. Lui si definisce un outsider della letteratura, pur avendo scritto una trentina di libri (il primo racconto è del 1939 e lui è nato nel ’16), e vinto i più prestigiosi premi letterari italiani (tra gli altri, lo Strega nel ’73 e il Viareggio nell’85). Giornalista per L’Europeo, L’Espresso, La Fiera Letteraria, Il Corriere della Sera, Il Giornale (giornalismo letterario, da “terza pagina”, ma anche grandi inchieste di attualità) Cancogni, raggiunto telefonicamente, ci racconta con autoironia che i giornalisti lo hanno sempre trattato da letterato e i letterati da giornalista. Chissà, forse è proprio questa sua “medietà” la caratteristica che gli ha permesso di scrivere un romanzo che possiede la rapidità della cronaca e l’immediatezza della poesia.
Chissà, forse pure la formazione e la vicenda laiche di questo scrittore, convertitosi al cristianesimo di recente, hanno contribuito all’“invenzione” di questa storia, che si chiude con l’episodio di un miracolo. Il segno più bello e più certo che Lui era ancora con loro e che quella storia non sarebbe più finita.