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EDITORIALE
tratto dal n. 07/08 - 2000

Osservazioni sull’Europa


Il testo dell’intervento del nostro direttore nell’aula del Senato, a Palazzo Madama, durante il dibattito sugli sviluppi dell’Europa tenutosi il 13 luglio 2000


Giulio Andreotti


Barak, Clinton e Arafat a Camp David, 
nel Maryland, l’11 luglio 2000, all’apertura 
dei negoziati per la pace in Medio Oriente

Barak, Clinton e Arafat a Camp David, nel Maryland, l’11 luglio 2000, all’apertura dei negoziati per la pace in Medio Oriente

Spesso, specialmente in Commissione, ci lamentiamo perché l’Assemblea dedica non molto tempo alla politica esterna (uso questo aggettivo perché la politica comunitaria non è politica estera). Però di fatto molti colleghi, anche fra quelli che si lamentano, quando invece, come oggi, ciò avviene con un’ampia relazione del presidente del Consiglio e del senatore Bedin, a nome della Giunta per gli affari delle Comunità europee e con interventi dei rappresentanti dei vari Gruppi, sono impegnati altrove.
Spero comunque che si possa realizzare quanto è stato chiesto al ministro degli Affari esteri: dedicare, presso il Ministero o in uno dei due rami del Parlamento, un’intera giornata per discutere in profondità, insieme alle due Commissioni affari esteri e ai parlamentari italiani al Parlamento europeo, tutta la tematica oggetto della Conferenza intergovernativa sulla riforma istituzionale.
Questa proposta mi sembra più utile di quanto auspicato poco fa da un collega, che ha suggerito di svolgere un dibattito Ministero per Ministero, invitando, cioè, i singoli ministri a discutere con il Parlamento gli aspetti dell’influenza, sul proprio settore, delle modifiche che la Conferenza intergovernativa può portare; a mio parere si determinerebbe un calendario non concepibile e quindi forse la mia proposta, più pragmatica, può essere utile.
In questi giorni seguiamo con attenzione il nuovo incontro di Camp David, per valutare se si trova una via di uscita dalla stretta del prossimo mese di settembre (data in cui Arafat è impegnato a proclamare la Repubblica palestinese) in merito ai problemi dei palestinesi: ...
Ho sottoscritto la mozione che è stata stilata dal senatore Migone, presidente della III Commissione, che ne è il primo firmatario, e pertanto posso limitarmi a pochissime considerazioni.
Quando discutiamo questi problemi ci muoviamo sempre su una duplice linea: da un lato, dobbiamo prendere atto di tutto quello che vorremmo fosse fatto o fosse stato fatto di più; dall’altro, però, non dobbiamo dimenticare mai – come ha poc’anzi ricordato il presidente Scalfaro – tutto quello che si è realizzato, il cammino compiuto. È vero, alcune volte l’Unione europea, come tutte le strutture, può volare alto, mentre altre volte deve volare basso, ma servono entrambe queste metodologie.
In alcuni momenti vorremmo che si riprendesse un volo alto; esemplificando, in questi giorni seguiamo con attenzione il nuovo incontro di Camp David, per valutare se si trova una via di uscita dalla stretta del prossimo mese di settembre (data in cui Arafat è impegnato a proclamare la Repubblica palestinese) in merito ai problemi dei palestinesi: non possiamo, però, evitare di guardare con una certa nostalgia all’intensità con cui una volta l’allora Comunità si occupava di questi problemi.
Nella dichiarazione di Venezia del 1980, proposta dai ministri Genscher e Colombo, la Comunità per prima fissò la necessità di una soluzione, attraverso un negoziato, del problema palestinese: era il periodo in cui Arafat veniva ancora considerato un terrorista, non aveva il visto per recarsi in America, alla sede delle Nazioni Unite, e non vi era neanche una concordia generale tra le forze politiche italiane.
Dopo essere venuto qui a Roma nel 1982, in occasione della Conferenza dell’Unione interparlamentare, finalmente si sbloccò la situazione, e successivamente non solo ha ottenuto il visto, ma gli Stati Uniti, sulla base della preparazione fatta ad Oslo, hanno assunto una parte attiva sulla questione palestinese.
Nessuno nega che questa attività degli Stati Uniti sia indispensabile; credo però che l’Unione europea non debba dimenticare il passato, non per rivendicare primogeniture, ma per rivendicare quello che è un suo ruolo indispensabile, complementare, se si vuole, a quello degli Stati Uniti, per la soluzione di questo problema che certamente non vede, come tale, una soluzione vicina.
Vorrei anche rispondere al senatore Cusimano, che ha parlato dei problemi dell’agricoltura, sottolineando i danni arrecati all’agricoltura italiana dalla politica comunitaria. Dobbiamo riconoscere che senza la politica comunitaria l’agricoltura italiana, in un libero mercato, sarebbe in assoluto in condizioni molto più difficili, e questo credo che nessuno possa obiettivamente contestarlo, anche se qualche volta, certo, ci sono alcuni aspetti che non fanno piacere. Non a caso è rimasto fermo per mesi e mesi, anzi, forse per più di un anno, il provvedimento di ratifica dell’Accordo che l’Unione – perché oggi è l’Unione che stipula gli accordi esterni – aveva concluso con il Marocco.
Ma ciò è un po’ strano rispetto al fatto che in Parlamento la mattina ci commuoviamo tutti per i Paesi che sono indebitati; Paesi che una volta si chiamavano “sottosviluppati”, mentre adesso siamo più gentili e li chiamiamo “in via di sviluppo”. Dobbiamo coerentemente guardare al complesso di questi rapporti.
Un’altra breve osservazione. Dopo una stagione che è stata a lungo caratterizzata da quello che si chiamava “europessimismo”, abbiamo registrato invece la volontà di entrare nell’Unione, e di fatto l’accrescimento da sei a quindici Paesi di questa realtà sta a significare che si tratta di qualcosa di positivo. C’è solo da fare un’osservazione, non per bloccare il processo di allargamento, ma per rendersi bene conto – e prendere quindi le misure necessarie e i controbilanciamenti – di che cosa questo significherà.
Yasser Arafat e Ehud Barak

Yasser Arafat e Ehud Barak

Con una certa abilità è stato, direi, scavalcato lo schema esistente prima dell’arrivo di Prodi, secondo cui c’erano Paesi in anticamera ma vicini, Paesi in anticamera un poco più lontani e Paesi ancora fuori dell’anticamera: adesso si sono messi tutti sullo stesso piano. Questo ha consentito, anche grazie all’adesione della Grecia, di inserire tra questi Paesi aspiranti anche la Turchia, con tutti i problemi che ciò comporta. Ipotizziamo che si arrivi davvero a questa forte aggiunta numerica, territoriale e qualitativa di Paesi: che succederà degli altri?
Noi ci siamo preoccupati in passato che la Comunità non apparisse un qualcosa di chiuso, tant’è vero che ci sono molti documenti della stessa Comunità con cui si reagiva a chi la considerava una fortezza: ma per reagire, significa che c’era qualcuno che di fatto la pensava così. Sotto questo aspetto anche quell’aggettivo, che è orrendo, e che noi usiamo, di “extracomunitari”, ha qualcosa di spocchioso, di disumano, e veramente vorrei che fosse cancellato dal nostro vocabolario corrente. Ma tra quegli altri Paesi ci sono quelli dei Balcani, i quali difficilmente raggiungeranno le condizioni obiettive per essere considerati tali da poter aspirare ad un ingresso nella Comunità. E sono proprio quei Paesi dove, in particolare, l’esistenza di etnie plurime ha creato e sta creando i problemi che tutti conosciamo.
Ma c’è di più. Qual è la posizione, direi filosofica, che si assume nei confronti della Russia? La questione non è di oggi, e ciò vale anche per l’allargamento della Nato. Non entro nel merito del problema, ma quando si parla, in connessione con i problemi del rafforzamento dell’Unione, del capitolo della difesa e della sicurezza, esso andrebbe discusso a fondo. Tra l’altro, per progettare bene un programma di sicurezza devo sapere da chi prevedo che tale sicurezza possa essere posta in discussione.
Sono state prese delle decisioni (il G7 è diventato G8, c’è il partenariato per la pace e così via), ma questo problema sorge, e, visto che non è un problema da risolvere domani mattina, nel momento in cui si pensa veramente a questa dilatazione della Comunità non possiamo non porcelo. Non è un paradosso: o si ritiene che anche la Russia (mi riferisco a quella europea) possa far parte di una Unione, certamente nell’ambito di una revisione anche delle regole di carattere generale, oppure dobbiamo non abbandonare il timore che possa esserci da parte di una Russia che consideri negativamente questo processo di vario allargamento un tentativo, per esempio nei confronti di alcuni Paesi (non la Svizzera, che non vuole entrare nell’Unione europea, ma di quelli che volendo entrare non possono farlo), di creare una specie di gruppo di “Paesi non allineati” (come si chiamavano una volta, che poi erano non allineati solo parzialmente).
La terz’ultima osservazione riguarda la questione delle due velocità. Non è un fatto nuovo. Già dai tempi del “rapporto Tindemans” si discuteva delle due velocità. Guardiamo al problema, distinguendo le condizioni di fatto da quella che invece deve essere un’enunciazione di politica di carattere generale. In effetti, esistono già due velocità: ci sono Paesi che sono nella moneta unica, altri che rientrano nel Trattato di Schengen. Ciò già esiste e non è di per sé un fatto nuovo. Però, stiamo attenti. Vi è un articolo della nostra Costituzione che non dobbiamo mai dimenticare. L’articolo 11 recita: «L’Italia [...] consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni», per cui sarebbe inaccettabile l’esistenza di un duopolio di guida.
Prima il collega Jacchia ha ricordato una frase, che certamente è piuttosto inquietante, anche presa alla lettera, del discorso al Bundestag del presidente Chirac, che diceva: noi soli, noi Francia, noi Germania, ecc.
Vladimir Putin e Bill Clinton durante il recente G8 svoltosi 
a Okinawa, in Giappone, dal 21 al 23 luglio

Vladimir Putin e Bill Clinton durante il recente G8 svoltosi a Okinawa, in Giappone, dal 21 al 23 luglio

Ricordo che, in una di quelle sere in cui si tenevano qui in Senato riunioni con ospiti stranieri, intervenne il governatore della Banca tedesca Tietmeyer per parlare della non ancora sicura all’epoca, ma quasi imminente, decisione sulla moneta unica. Alla domanda di un collega, il senatore Caputo, che gli chiese quanti Paesi fossero necessari perché la moneta unica potesse decollare, egli rispose: «Due certamente: il mio e la Francia». Per ospitalità, avrebbe anche potuto aggiungere un terzo Paese. Ora, però, queste concezioni dobbiamo respingerle. D’altra parte, in un momento in cui la Francia indebolì la sua presenza comunitaria e rimase fuori dal tavolo, noi avemmo tutti pazienza e aspettammo che si ricredesse. La Francia poi ritornò al tavolo comune. Quindi, non dobbiamo preoccuparci troppo di questioni che, qualche volta, possono avere anche un senso di politica interna oltre che di carattere più generale.
Sotto questo aspetto, e ho pressoché finito, deve essere impostata bene – e nella mozione del collega Migone che, come ho detto, anch’io ho firmato, ciò viene fatto – la questione che è sul tappeto, ossia quella dell’unanimità, del diritto di veto. Stiamo attenti, perché finora, tutto sommato, ciò non ha mai portato a grandi difficoltà. C’è stato, sì, qualche momento in cui non si è potuto camminare insieme. L’esempio più tipico è quello della Carta sociale, che non si poté adottare come documento della Comunità, perché il governo inglese riteneva che i problemi sociali fossero problemi nazionali e non comunitari, anche se poi nel merito probabilmente la loro legislazione era già abbastanza avanzata. Non abbiamo avuto altri momenti di difficoltà, quindi – ripeto – bisogna meditare bene sull’argomento, vedere cosa questo significhi e come possa essere strutturato, in modo che non rappresenti poi una mina che potrebbe avere gravissime conseguenze.
La penultima osservazione riguarda le conferenze intergovernative in corso, le cui conclusioni, naturalmente, necessitano delle ratifiche di tutti i Paesi. Sotto questo aspetto, bisogna stare molto attenti a non creare motivi di reazione popolare in alcuni Paesi. Non ho difficoltà a dire che mi sembra, per esempio, che l’atteggiamento del nostro governo sia stato molto più prudente di quello di altri Paesi nei confronti di una situazione difficile che c’è in Austria, situazione che va ben analizzata. Questo perché in fondo era stato chiesto ad un partito di appoggiare un governo dall’esterno, ma poi non lo ha fatto. Io non discuto, tuttavia mi sembra un problema molto delicato. In proposito, ricordo l’amarezza e la reazione che noi avemmo quando nel 1976, non in sede comunitaria, ma in sede più ampia, ricevemmo una diffida, oratore il cancelliere Schmidt, da parte di quattro governi, quello americano, quello inglese, quello tedesco e quello francese, a non cambiare politica e a non accettare quel che ormai era deciso ed inevitabile, per evitare un tracollo generale della nostra nazione – diciamolo in termini propri – cioè il voto dei comunisti. Di questo si trattava. Dopo alcuni mesi, lo stesso cancelliere Schmidt fece una dichiarazione in cui ricordò quel momento che diede una grande amarezza al nostro governo e dette atto che avevamo agito bene.
Non vorrei che si creassero degli equivoci; la caratteristica della Comunità, e oggi dell’Unione, è quella di un’assoluta integrità nei confronti delle regole democratiche degli ordinamenti (nessuno pensò che potesse entrare la Spagna di Franco nell’Unione europea); questo è assoluto, bisogna però stare molto attenti circa eventuali interferenze nelle vicende di un Paese.
Ultima osservazione. Ricordiamoci che non esiste solo l’Unione europea; esiste anche una struttura molto importante, l’Organizzazione per lo sviluppo e la cooperazione in Europa (Osce), che non ha molta vivacità, che è rimasta sempre in un binario in un certo senso di serie minore; che nacque, però, dall’Atto di Helsinki nel 1975 e che anche adesso rappresenta una struttura nella quale sono presenti tutti i Paesi dell’Europa. E anche l’anno scorso, nella riunione dei capi di Stato e di governo a Istanbul, si parlò anche della creazione di una polizia europea, che se tra l’altro ci fosse stata, avrebbe evitato il coinvolgimento, anche giuridicamente un po’ equivoco, della Nato in problemi come quelli che sono stati poi affrontati.
Il presidente Scalfaro prima ha ricordato le origini di questa realtà europea. Oggi possiamo avere una grande soddisfazione, lasciatemelo dire. Ogni tanto si parla del passato come qualcosa che deve essere dimenticato. C’è invece qualcosa di solido, e sono le cose più importanti di questo passato che dobbiamo rivendicare. Dobbiamo riconoscere positivamente che man mano si è accresciuto il consenso nei confronti di quello che all’inizio fu un grave punto di contraddizione: la Comunità sembrava un elemento di ostilità rispetto ad una determinata concezione non solo internazionale ma anche di carattere interno. Il fatto che oggi tutti domandino, anzi, di fare di più, rappresenta non un’effimera soddisfazione, ma la constatazione che sulle cose essenziali la nostra nazione sa al momento giusto – magari qualche volta con due o tre velocità – trovare una concordia, e questo non può che essere di grande soddisfazione.


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