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CHIESA
tratto dal n. 10 - 2000

La grazia esclude ogni arroganza


«Essere cristiani non è un merito, una questione di rivendicazione, una condizione conquistata e di cui vantarsi, ma è effetto di un’attrattiva di grazia». Il cardinale Godfried Danneels ripercorre i momenti più importanti dell’Anno giubilare che va verso la sua conclusione. Offrendo spunti di giudizio e di conforto. Intervista


Intervista con il cardinale Godfried Danneels di Gianni Valente


Il cardinale Danneels 
nella sua diocesi

Il cardinale Danneels nella sua diocesi

É cominciato il conto alla rovescia. Tra poco più di un mese, quando il 6 gennaio a San Pietro chiuderanno i battenti della Porta Santa, sarà ormai concluso anche questo Giubileo. Rimarranno sul tappeto le tante istantanee carpite da questa stagione ecclesiale concitata: le richieste di perdono, le adunate oceaniche, i documenti dottrinali, le canonizzazioni contestate.
C’è chi, in questa fiera di segni partoriti durante il pellegrinaggio giubilare, non trova il verso. Tutti percepiscono che anche nella Chiesa si sta vivendo un tempo sospeso, di passaggio (ma quale tempo, in fondo, non lo è?).
30Giorni ha parlato di questo con il cardinale Godfried Danneels, arcivescovo di Mechelen-Brussel, Primate della Chiesa belga. Confidando di trovare non chiavi interpretative tanto onnicomprensive quanto astratte, ma spunti di giudizio e di conforto da parte di questo pastore che molti riconoscono dotato di uno sguardo lucido e realista sulla attuale condizione della fede e della Chiesa nel mondo. Lo incontriamo in un momento storico che per tanti e diversi fattori è segnato da un senso di sospensione e di attesa. Mentre anche nella terra di Gesù si è tornati a uccidere e a morire.
L’intervista dà anche modo al cardinale Danneels di chiarire il suo pensiero su quel coup de théâtre che secondo qualcuno potrebbe concludere in modo spettacolare la grande kermesse giubilare: le ventilate “dimissioni” del Papa.

Eminenza, anche lei agli inizi di ottobre ha fatto il suo Giubileo a Roma.
GODFRIED DANNEELS: Per me la visita alla tomba degli apostoli è innanzitutto riprendere contatto con le vicende che sono nel cuore della nostra fede. Con le storie di coloro che sono stati testimoni oculari del Risorto. L’Anno Santo è un’occasione particolare per questo, ma in un certo senso tutti gli anni sono santi. Per un vescovo, che adesso si trova a dover affrontare “per mestiere” tanti problemi nuovi – penso ad esempio alle domande che pone la bioetica, con le nuove possibilità che ha la scienza di manipolare le fonti stesse della vita – l’inginocchiarsi sulle tombe degli apostoli è prima di tutto una preghiera, la preghiera di non rimanere confusi, di essere custoditi dentro la sorgente della nostra speranza cristiana.
La cripta 
di papa Cornelio 
nelle catacombe 
di San Callisto, a Roma

La cripta di papa Cornelio nelle catacombe di San Callisto, a Roma

La visita alle tombe degli apostoli sarà anche per lei un’antica consuetudine.
DANNEELS: Le prime visite le compii durante il periodo in cui ero studente a Roma, dal ’54 al ’59. A quel tempo non si poteva passare davanti alla tomba di san Pietro, perché non avevano ancora concluso gli scavi. Adesso, ogni volta che ci torno, mi riviene in mente la scena di più di trentacinque anni fa, quando in compagnia del rettore del Collegio belga tornai a visitare la tomba di Pietro dopo che erano stati conclusi gli scavi. Ricordo l’impressione che mi fecero il “muro rosso”, e il cosiddetto “muro g”, dove i cristiani scrivevano i loro nomi e le loro preghiere al Principe degli apostoli. È la stessa impressione che mi facevano le iscrizioni e i dipinti tracciati sulle pareti delle catacombe. Mi erano care soprattutto le catacombe di Santa Priscilla, più raccolte, meno frequentate, dove ricordo la prima immagine della Madonna con in braccio Gesù bambino, e anche la pittura che ritrae alcuni cristiani intorno alla mensa per la fractio panis, una delle prime immagini della celebrazione eucaristica.
Secondo alcuni l’Anno Santo avrebbe fatto emergere una Chiesa bifronte. La Chiesa umile, dialogante, dei mea culpa e delle aperture ecumeniche. E quella arrogante e arcigna della Dominus Iesus. Cominciamo dai mea culpa.
DANNEELS: Penso che sia stata una cosa buona che il Papa abbia chiesto perdono per i peccati compiuti lungo la storia dagli uomini della Chiesa. Non possiamo non dirci peccatori. Lo ha ripetuto l’ultimo Concilio, che la Chiesa è semper reformanda. E lo affermava, testimone fedele della Tradizione, anche l’antica preghiera liturgica della prima domenica di Quaresima, in cui si parlava di «Chiesa che Dio purifica». Ci sono peccati molto gravi nella storia della Chiesa. Il primo è la divisione dei cristiani, l’aver disubbidito al comando del Signore di rimanere nell’unità. E il secondo è l’aver pensato, a un certo momento, che la verità sia una cosa posseduta, che si deve imporre agli altri con la forza, addirittura con la violenza. Questo è potuto accadere perché è venuta meno la percezione che la Chiesa non trae da se stessa la verità e la salvezza, ma la riceve gratuitamente da Cristo. Detto questo, quando i mea culpa plateali si ripetono con troppa frequenza, finiscono per apparire non sinceri, una messa in scena per compiacere e ricevere applausi.
La richiesta di perdono dei peccati è stata letta come una innovazione nella Chiesa, una delle tante che avrebbe introdotto questo pontificato. Altri l’hanno digerita male, come un disfattismo autolesionista.
DANNEELS: Ma all’inizio di ogni messa lo diciamo sempre ad alta voce che siamo peccatori. E poi, c’era anche lo spunto del periodo liturgico. Il riconoscimento dei peccati della Chiesa è avvenuto in Quaresima, che nella Tradizione della Chiesa è sempre stato il tempo della purificazione dei peccati. Quindi, nelle richieste di perdono papali non c’è niente di nuovo. Semmai, il fatto è che anche nella Chiesa si è persa la percezione di cosa sia la confessione dei peccati e il perdono cristiano. Molti la confondono con l’autoanalisi, una tecnica di autocontrollo che aiuti a eliminare gli errori di comportamento. Oppure l’assimilano all’autocritica che i caduti in disgrazia facevano davanti ai tribunali comunisti. Non è questo il perdono cristiano.
La Madonna con il Bambino e un profeta, catacombe di Santa Priscilla, Roma

La Madonna con il Bambino e un profeta, catacombe di Santa Priscilla, Roma

Ratzinger, presentando il documento sulle colpe del passato, ha detto che solo il fatto del perdono permette il riconoscimento del peccato.
DANNEELS: Non ci giustifichiamo da soli, ma siamo giustificati da un Altro. L’accusa e la confessione dei peccati non è una questione di catarsi individuale, automatica, come nelle tragedie greche. Solo se siamo toccati dalla misericordia di Dio, che ci perdona e ci libera, possiamo riconoscere e confessare i peccati, sentirne dolore. Prima viene sempre la bontà di Dio, e dopo il riconoscimento umile del nostro essere peccatori. Altrimenti non ci sarebbe vero dolore, ma solo rimorso, rimpianto, senso di colpa. Magari da rimuovere con qualche tecnica di autopurificazione.
Procediamo oltre. In mezzo all’estate c’è stato a Roma il Giubileo dei giovani.
DANNEELS: Sono rimasto colpito da come molti giovani del Belgio hanno vissuto quelle giornate. Apparivano diversi. La loro è la prima generazione, dopo tanto tempo, che può toccare con mano il fatto che l’uomo non può rendersi felice da se stesso. Hanno tante cose, hanno tutto, ma proprio per questo si accorgono di non poter più sperare la felicità da questo “tutto”. Alcuni di loro, tornando da Roma, hanno fatto testimonianze toccanti. Mi dicevano: lì non dovevamo chiedere permesso o domandare scusa per parlare di ciò che ci sta a cuore. Mentre nella condizione normale, a scuola, in famiglia, accade questo. Tutto sembra essere inghiottito in una superficialità intorpidita, narcotizzata. E se uno chiede e attende qualcosa di più, viene preso come un maleducato.
Colpisce che lei ripeta così spesso la parola felicità. Non è usuale, questa parola, nel linguaggio ecclesiale corrente.
DANNEELS: Ma tutto parte da lì. La prima quaestio che san Tommaso affronta nella Summa theologica è sulla felicità. Se noi crediamo, perché crediamo? Per essere felici. Ogni uomo – ateo, religioso, agnostico – viene al mondo con un cuore che attende di essere felice per sempre.
Riguardo a questa attesa di felicità iscritta nel cuore di ognuno, sant’Agostino scrive: «Grande è ciò che ci è stato promesso, ma più grande è ciò che è accaduto».
DANNEELS: Il cuore dell’uomo è fatto così. Nessun ideale umano può offrire quella «plena et perpetua felicitas» che esso attende, per dirla con le parole della liturgia. È la differenza che passa in francese tra le parole besoin e désir. Il bisogno decade, quando uno trova ciò che lo sazia. Il desiderio, quando trova ciò che sembra soddisfarlo, invece, si riaccende ancora più forte. Chiede qualcosa di più grande di sé. Di non immaginabile. La vita per sempre, la felicità piena presentita già nel presente.
Continuiamo la carrellata sull’anno giubilare. Dopo l’estate, su alcuni episodi ecclesiali si sono sollevate polemiche. Sono stati letti come manifestazioni di arroganza, di imperialismo religioso...
DANNEELS: Due cose sono state prese male: la beatificazione di Pio IX e la dichiarazione Dominus Iesus sull’unicità e l’universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa. Riguardo a Pio IX, c’è da dire che la beatificazione riconosce la santità personale di qualcuno, ma non comporta per questo la santificazione delle sue scelte storiche contingenti, che magari sono state prese in situazioni di pressione e di emergenza. Uno si può sbagliare nel prendere una decisione sul piano storico, e allo stesso tempo essere un uomo santo. Pio IX ha fatto quello che ha fatto con retta coscienza e con amore verso la Chiesa e verso il mondo. È stato uno dei papi più amati dal popolo. È ovvio che, più di un secolo dopo, su molte delle sue scelte si possono avere giudizi differenti.
Particolare dei graffiti rinvenuti nelle catacombe di San Sebastiano, a Roma. Vi si legge: «Pietro e Paolo pregate per Vittore»

Particolare dei graffiti rinvenuti nelle catacombe di San Sebastiano, a Roma. Vi si legge: «Pietro e Paolo pregate per Vittore»

E sulla Dominus Iesus, cosa si può dire?
DANNEELS: Nella dichiarazione Dominus Iesus non c’è niente di nuovo. Si riprendono asserzioni dogmatiche che erano già presenti, ad esempio, nell’enciclica di Giovanni Paolo II sulle missioni, la Redemptoris missio. Non c’è niente di nuovo, e proprio per questo mi sembra un documento importantissimo, perché è doveroso riaffermare l’unicità e l’universalità della salvezza promessa e offerta da Cristo, in un tempo in cui anche nella mentalità comune il cristianesimo viene considerato equivalente alle religioni.
È una questione che lei, eminenza, tiene d’occhio da tempo. Molti anni fa, lei fu il primo vescovo a dedicare una lettera pastorale al fenomeno della New Age.
DANNEELS: Il documento vaticano si riferisce a quelle tendenze teologiche del dialogo interreligioso, coltivate soprattutto in Asia, che mettono Gesù sullo stesso piano di Buddha e di altri fondatori di religioni. Ma questo atteggiamento, in altre forme, è ben più diffuso, anche da noi in Occidente. Gesù è magari apprezzato, ma come un salvatore nella galleria dei grandi. Come Maometto e gli altri, la sua missione sarebbe stata quella di risvegliare l’istanza religiosa degli uomini, per farli ascendere a una sfera divina che sta sopra di tutti e non si identifica con nessuno dei maestri religiosi.
Lei già da molto tempo suggeriva che l’insidia per il cristianesimo, ai nostri giorni, non è tanto il materialismo, ma uno snaturamento religioso.
DANNEELS: La religiosità selvaggia che segna i nostri tempi fa leva sulla diffusa sete di interiorità e di meditazione, ma poi trasforma anche culti e pratiche religiose in auto-culto. Si dice di cercare Dio, in realtà si trova solo la proiezione di sé. In questa esplorazione del mondo interiore, questo Dio invisibile che si cerca “dentro”, alla fine sono io. Non si esce dal soggetto. In questa prospettiva i maestri religiosi, tra i quali si accetta anche Gesù, sarebbero dei mediatori che ispirano e alimentano questa riflessione su di sé da cui verrebbe la salvezza.
Eppure la Dominus Iesus ha suscitato un’alzata di scudi.
DANNEELS: Forse, a riassumere in tre o quattro frasi un documento denso e concettoso come questo, si rischia di offrire pretesti a chi lo vuole etichettare come un manifesto del colonialismo religioso cattolico. Ma credo che sui contenuti non ci sia nulla da ridire. Chi accusa la Chiesa di essere arrogante perché ripete che solo in Gesù Cristo c’è la salvezza e la felicità, dovrebbe rivolgere il suo scandalo verso Gesù stesso. Lui stesso ha detto: «Io sono la via, la verità, la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» e «nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare». La Chiesa cattolica si sente solo responsabile di non modificare questa pretesa di Gesù alla salvezza donata solo dalla sua vita, morte e resurrezione. Non c’è piena e durevole felicità, come pegno e caparra già sulla terra, se il Mistero non si rende familiare attraverso la realtà vivente di Gesù, l’umanità di Gesù. Sempre Tommaso d’Aquino, all’inizio della terza parte della Summa, afferma che «al loro destino di felicità gli uomini sono condotti attraverso l’umanità di Cristo».
Un momento del Giubileo 
dei vescovi celebrato in Vaticano l’8 ottobre

Un momento del Giubileo dei vescovi celebrato in Vaticano l’8 ottobre

Non c’è proprio nessun appunto da fare al documento vaticano?
DANNEELS: Forse si sarebbe potuto esprimere tutto questo in una forma più semplice e benevola, con una teologia meno deduttiva e più storico-salvifica. Si è fatto ricorso alle formule più teoriche del Magistero, trascurando quelle espressioni che più accennano a come e perché si diventa gratuitamente cristiani. L’unico chiaro accenno esistenziale nel documento si ha quando si cita la definizione del Concilio Vaticano I, dove si parla della dolcezza che la grazia dona nel credere. La cosa che non si è capita, e che si sarebbe dovuta esprimere più apertamente, è che essere cristiani non è un merito, una questione di rivendicazione, una condizione conquistata e di cui vantarsi, ma è effetto di un’attrattiva di grazia. Bisognava insistere: non abbiamo acquistato tutto questo col nostro impegno religioso, non siamo i maestri di tutto questo: lo abbiamo ricevuto, storicamente, senza merito. Ci è accaduto così. Questo punto di vista avrebbe potuto dare una testimonianza di bellezza e umiltà.
Forse ciò avrebbe risparmiato anche equivoci e reazioni risentite.
DANNEELS: La salvezza cristiana è un accadere di grazia, che nessuno possiede mai come proprietà privata. Per questo nel cristiano fiorisce una certezza grata e umile, che si può solo testimoniare. Ancora Tommaso d’Aquino, in un passo della Summa citato anche nell’Allegato alla Dichiarazione comune tra cattolici e luterani sulla dottrina della giustificazione, scrive: «La grazia crea la fede non soltanto quando la fede nasce in una persona, ma per tutto il tempo che la fede dura». Nessuno può vantarsi con gli altri dicendo «io ho la verità e tu no».
A proposito della Dominus Iesus il Papa ha detto: «La nostra confessione di Cristo come unico Figlio, mediante il quale noi stessi vediamo il volto del Padre, non è arroganza che disprezza le altre religioni, ma gioiosa riconoscenza perché Cristo si è mostrato a noi senza alcun merito da parte nostra».
DANNEELS: Se la salvezza cristiana è un’azione storica della grazia, si evita anche di entrare in competizione con le religioni. Perché si tratta di qualcosa di diverso dalle credenze e dai riti in cui si esprime l’impegno religioso dell’uomo. Qualcosa che si muove su un altro registro. Questo lo sottolinea anche la Dominus Iesus, quando riconosce che la grazia della fede è diversa da ogni credenza religiosa.
Alcuni hanno connesso alla Dominus Iesus interventi di leader cattolici, come quelli del cardinale Biffi sugli immigrati e sui rapporti con l’islam. Questi, insomma, sarebbero tempi di “orgoglio cattolico”.
DANNEELS: Sono rimasto colpito da questa uscita del cardinale Biffi. Non conosco le ragioni che lo portano a sostenere questo, né conosco dall’interno la situazione italiana. Ma, visto da lontano, mi sembra un po’ bizzarro dire «facciamo entrare in Europa prima i nostri e poi gli altri». Certo, l’immigrazione pone dei problemi: il numero degli immigrati non può aumentare indefinitamente. Anche l’aumento degli islamici in Europa apre questioni delicate. Ma penso che la strada sia quella di affrontare i problemi rimanendo in un atteggiamento di ospitalità. Solo così si può chiedere che lo stesso spirito di ospitalità venga praticato nei Paesi islamici nei confronti dei cristiani.
Secondo alcuni, questo fibrillare di porpore significa che sono in corso le grandi manovre. I diversi partiti all’interno del collegio cardinalizio da qualche tempo si starebbero schierando, in vista del conclave...
DANNEELS: Mah, io ho molto lavoro da fare nella mia diocesi, non è che segua molto queste altre cose. Eppoi, chi lo ha detto che il conclave è così imminente?
Eppure proprio di recente i giornali hanno riportato sue dichiarazioni sull’ipotesi che il Papa si dimetta, contenute in un libro recentemente pubblicato in Belgio. Cosa ha da dire in merito?
DANNEELS: Il passo del libro riguardante il Papa era stato registrato a febbraio, molto prima delle ultime voci sulle dimissioni del Pontefice. Se n’era parlato per transennam in una conversazione con il ministro Jean-Luc Dehaene e senza alcuna intenzione di influenzare una possibile decisione del Papa. È la stampa che ha estrapolato tale passo dal suo contesto per farne uno scoop. Io non ho mai inteso esprimere un auspicio riguardo al modo in cui Giovanni Paolo II esercita la sua funzione. Al contrario, nutro verso di lui una grande ammirazione. Ancor meno ho inteso dire che lui sia divenuto incapace di garantire il governo della Chiesa o che farebbe bene ad andarsene. Ho soltanto voluto dire che in futuro, visto l’aumento crescente della longevità, un papa potrebbe arrivare a dimettersi, cosa che fino ad oggi è accaduta solo molto raramente. Negli anni a venire l’opinione pubblica non dovrebbe meravigliarsi del fatto che un papa si ritiri. D’altronde, anche adesso è giuridicamente possibile che un papa si dimetta. In questo senso, dunque, il Papa attuale potrà dimettersi, se lo vuole. Occorrerà in ogni caso che le dimissioni di un qualsiasi papa in futuro non siano il frutto di pressioni ma solo della sua piena e libera volontà. Inoltre bisognerebbe analizzare se tali dimissioni non mettano indebitamente in difficoltà il successore, che dall’opinione pubblica si sentirebbe quasi obbligato a tempo debito a fare lo stesso. Il papa dovrà comunque restare interamente libero.


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