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VERSO GLI ALTARI
tratto dal n. 02 - 2007

Morire in Africa, per Gesù Cristo


Un profilo di padre Francesco Spoto, della Congregazione dei Missionari Servi dei poveri, in procinto di essere beatificato


di Lorenzo Cappelletti


Nel contesto delle numerose testimonianze e sollecitazioni che giungono a 30Giorni dalle missioni, vogliamo rievocare le circostanze esemplari della vita e della morte di un missionario il cui martirio è stato riconosciuto nel giugno scorso dal Dicastero delle cause dei santi con un decreto che prelude alla prossima beatificazione: padre Francesco Spoto, della Congregazione dei Missionari Servi dei poveri, morto in Congo all’alba di domenica 27 dicembre 1964.
La sua Congregazione aveva da poco (1961) aperto una missione nel nordest dell’ex Congo belga e padre Francesco, all’epoca giovanissimo superiore generale (era stato eletto trentacinquenne nel ’59), si era sentito in dovere di far visita ai suoi confratelli, i primi impegnati nella missione ad gentes, e poi di restare con loro nel momento in cui la situazione in quella zona del Congo si era fatta incandescente per le lotte seguite alla indipendenza di quell’immenso territorio, da sempre cruciale non solo nella geografia dell’Africa, ma anche per le sorti del cristianesimo nel continente africano.
Abbiamo usato non a caso l’espressione “si era sentito in dovere”. In effetti, leggendo l’epistolario e il diario di padre Francesco, colpisce il suo profondo senso del dovere. Un tratto che lo accomuna ad altre nobili figure della metà del secolo scorso, un’epoca vicinissima e che al contempo avvertiamo lontanissima, in cui il cattolicesimo e tanto più lo stile di vita dei consacrati veniva virilmente identificato con la corrispondenza eroica alle esigenze della propria vocazione; con la scrupolosa responsabilità nell’assolvimento dei propri doveri; con la volontaria sottomissione perinde ac cadaver all’autorità; con una preparazione culturale eccelsa in qualcuno, in tutti sufficiente; con l’umiltà e la povertà tanto più necessarie quanto più alta era la statura umana e la condizione da cui si proveniva. Distintivi facilmente riconoscibili di quell’esercito sui generis costituito dai religiosi. Le foto ne rendono conto più e meglio delle parole. Una certa rigidità che si accompagnava a tutto questo era pronta, al momento opportuno, a spezzarsi. Come accadde a padre Spoto, chiamato affettuosamente “il tedesco” nella sua Congregazione, spezzato dalle percosse di alcuni “simba”, i “leoni” di Patrice Lumumba, leader indipendentista del Movimento nazionale congolese assassinato qualche anno prima, ma il cui carisma e la cui memoria spingevano ancora all’azione i suoi seguaci.
Come abbiamo detto, padre Spoto apparteneva alla famiglia religiosa del “Boccone del povero”, fondata nelle sue varie articolazioni fra il 1867 e il 1887 dal beato medico e sacerdote palermitano Giacomo Cusmano (1834-1888), e negli anni Sessanta del secolo successivo composta ancora per la quasi totalità da siciliani, della cui serietà e del cui ardore portava l’impronta.
Era nato nel 1924 nell’Agrigentino, a Raffadali, un piccolo borgo di collina. Lì era stato battezzato e la mamma, a testimonianza che ogni passo della nostra vita affonda nel mistero, lo aveva consacrato a san Francesco Saverio facendogli indossare l’abitino votivo del santo patrono delle missioni. Presagio di quella “camicetta”, rossa del sangue del martirio, che il beato Giacomo Cusmano avrebbe desiderato indossare e che un secolo dopo sarebbe invece toccata al suo settimo successore.
Nel 1936 a Palermo il giovane Spoto entra nel seminario della Congregazione dei Missionari Servi dei poveri per la quale emette i voti, e nel ’51 diventa sacerdote. I superiori lo destinano all’insegnamento, data la sua attitudine di studioso. Ma ben presto, e suo malgrado, come testimonia in numerose lettere alla madre prive certo di infingimento, è nominato superiore generale. Anche per lo scrupolo che gli deriva dalla giovane età, si dedica a questo ufficio con tutto sé stesso. La visita alla missione congolese è frutto e culmine di tale dedizione. Un breve frangente in cui tutta la sua esistenza si palesa.
Padre Francesco Spoto tiene a battesimo la nipotina

Padre Francesco Spoto tiene a battesimo la nipotina

Padre Spoto parte per l’Africa all’inizio di agosto del 1964. È consapevole del rischio della vita, tanto che prima di partire fa testamento e mette ordine nei beni di famiglia. Eppure, nonostante la preparazione prossima e remota, quel che lo attendeva lo avrebbe sorpreso. Lo si capisce dai suoi scritti. Quanto ci accade sta a quanto ci prepariamo come Dio sta alla creatura. All’inizio, come si legge in due reportage da lui composti per La Carità, la rivista del “Boccone del povero”, tutto è entusiasmante, anche i disagi: dal viaggio all’accoglienza che trova; finanche «la salute è ottima», come scrive alla madre il 26 agosto. C’è anche lo spazio mentale per concepire strategie missionarie più adeguate.
Ma a partire dall’autunno tutto si fa tenebroso, a cominciare dal cielo. Leggendo il diario si capisce che un grande smarrimento ha preso padre Spoto; la cui figura ora ci prende di più. Cominciano giorni di fuga e di angoscia per sé e per gli altri tre confratelli che sono con lui. Sono costretti infatti ad abbandonare la missione di Biringi e a spostarsi continuamente nella foresta per sottrarsi ai simba che si stanno dirigendo verso quella zona. A brevissime pause di rinnovata speranza e di ristoro, seguono da novembre, per oltre un mese, notti insonni, privazioni di ogni genere, improvvise paure: «A noi son rimasti praticamente gli occhi per piangere e il corpo per soffrire. Che dura prova, mio Dio! Perseguitati come tanti malfattori, braccati come bestie feroci di savana in savana, laceri, affamati e pieni di ferite, costretti a dormire sulla terra umida e dura e sotto le stelle. Padre Sanfilippo ammalato e solo, la missione completamente saccheggiata, il pericolo della morte sopra di noi! Il mio cuore è al colmo dell’amarezza e scoppio in un pianto dirotto e inconsolabile. A sera cerco di mangiare un tozzo di pane duro bagnato di lacrime». Sembra di rileggere l’incalzante lista delle fatiche e dei pericoli del capitolo 11 della Seconda Lettera ai Corinzi: vanto di Paolo.
A un certo punto sembra che la via di fuga verso l’Uganda, che significherebbe la salvezza e la possibilità del rientro in Italia, si stia per aprire, ma proprio allora il gruppetto dei missionari e dei loro amici congolesi si imbatte in alcuni “leoni” e “cani” (come sono detti i ribelli più giovani). «… Spalancano contro di me la loro bocca come leone che sbrana e ruggisce… un branco di cani mi circonda, mi assedia una banda di malvagi…», recitano i versetti del Salmo 21 del Venerdì Santo, che padre Spoto sperimenta alla lettera. Anche se non viene ucciso, i colpi che riceve lo porteranno alla morte. È l’11 dicembre.
In realtà i “leoni” e i “cani” congolesi sono anch’essi dei fuggiaschi in ritirata verso il loro territorio d’origine. Non sono i vincenti, agiscono con la forza della disperazione. Tanto che gli stessi colpevoli dell’aggressione a padre Spoto finiranno per essere uccisi subito dopo dagli uomini che stavano a fianco del missionario, raddoppiando il suo dolore: «Dove sono i simba? Se qualcuno vi fa del male bisogna perdonargli», sono le sue parole riportate da Adeodato, un cristiano congolese datogli da Dio come compagno di fuga, che qualche giorno appresso avrebbe compiuto una maratona di 40 chilometri a rischio della vita per portare a padre Spoto gli oli santi.
Le condizioni di padre Spoto si aggravano. Ma non ci si può fermare. Nessun luogo è sicuro. Viene approntata una lettiga per trasportarlo qua e là nella foresta cambiando ogni giorno nascondiglio. «Perché piangi?» dice padre Spoto al confratello Benito Ruggiero, che ha raccolto nel suo diario questi ultimi giorni di fuga. «Perché non ti vuoi rassegnare alla volontà di Dio? Quante volte te l’ho detto che il Signore mi vuole, mi chiama; quella camicetta rossa che il padre Giacomo Cusmano ha desiderato, il Signore l’ha conservata per me».
Finché a un certo punto il gruppetto è costretto a fermarsi. A rischio della sua stessa vita Agatone, un altro cristiano congolese buono come il nome che portava (di un santo papa siciliano del lontano VII secolo), nella notte di Natale gli dà ospitalità nella sua capanna, dove padre Spoto morirà la mattina di domenica 27 dicembre. D’altronde, anche per Gesù, la povera capanna del Natale non fu che la prefigurazione della croce.
Subito e di nascosto, per non dare nell’occhio dei simba, Agatone gli dà sepoltura nella nuda terra a pochi metri dalla sua capanna.
A distanza di millenni si ripetono i nomi e le vicende degli inizi, che rivivono e testimoniano della loro autenticità, altrimenti incredibile, proprio nelle vicende di un presente che è sempre sul punto di essere passato se non riaccade.
«È difficile per coloro che non hanno mai conosciuto persecuzione, e che non hanno mai conosciuto un cristiano, credere a questi racconti di persecuzione cristiana» (Thomas Stearns Eliot, VI coro di The Rock).


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