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INEDITI
tratto dal n. 12 - 1999

Dante e la lezione del De civitate Dei


Un inedito di Del Noce. Il filosofo, scomparso dieci anni fa, l’aveva intitolato Postilla aggiuntiva sull’interpretazione della Monarchia dantesca – L’Imperium come remedium peccati, secondo Francesco Ercole e Bruno Nardi


di Augusto Del Noce


È a Bruno Nardi che comunemente si attribuisce il merito di aver impresso una svolta decisiva alle interpretazioni generali della Monarchia, impostando le sue indagini su basi prevalentemente filosofiche1. Il terminus a quo relativo sarebbe rappresentato dall’articolo Il concetto dell’Impero nello svolgimento del pensiero dantesco, “Giornale storico della letteratura italiana”, LXXVIII, pp. 1-52 (=Saggi di filosofia dantesca, Firenze 19672, pp. 215-275), in cui il Nardi, precisando e sviluppando, pur nel parziale dissenso, alcune idee di Fr. Ercole2 e di E. G. Parodi3, perveniva a ribadire il carattere patristico della concezione dantesca dell’Impero (remedium peccati) e, nel determinare il fine dell’humana civilitas, quale era inteso da Dante, individuava nel pensiero dello scrittore un filone nettamente averroistico. Più in generale, sottolineava il “pretertomismo” dell’Autore nella concezione dei rapporti tra potere temporale e spirituale. Tuttavia, anche se tali formulazioni del Nardi erano, per così dire, il naturale sbocco di più antiche convinzioni maturate ed elaborate a partire dalla sua tesi di Lovanio su Sigieri di Brabante e Dante (1911), bisogna sottolineare il merito dei due studiosi sopraddetti nel fornire elementi preziosi per l’inquadramento del pensiero politico-filosofico dello scrittore nella Monarchia. Tale merito è ancora più consistente se si considera che l’Ercole è solitamente compreso nella più vetusta schiera degli studiosi (tra i quali Ruffini, Solmi – tra noi – e, fuori d’Italia –, Carlyle, Kern, Kelsen), distintisi specialmente nel privilegiare l’esame del pensiero dantesco da un più generale punto di vista politico-giuridico, al quale del resto l’Ercole stesso aveva dato contributi fondamentali.
Augusto Del Noce, scomparso il 30 dicembre 1989

Augusto Del Noce, scomparso il 30 dicembre 1989

In realtà, quando egli4 rimproverava al Grauert5 di basare la datazione del trattato – da questi ascritto a una data non oltrepassante il 1301 – sull’affermazione di Dante che la «temporalis Monarchiae notitia» era «ab omnibus intemptata» (Mn. I, 1, 5-6) e che quindi l’opera avrebbe preceduto l’analoga tematica dei regalisti Giovanni da Parigi (De potestate regia et papali) e Pietro Dubois (Supplication du peuple de France au roi contre Boniface), ribadiva che bisognava sgombrare il campo da due equivoci. Sul primo non ci soffermiamo, perché concerne il contenuto dei due trattati dei precitati teorici, in cui, come osserva l’Ercole, l’idea della Monarchia universale non è centrale. Il secondo equivoco concerne invece l’originalità dantesca della Monarchia, che non consiste, come rileva l’Ercole (Introd. a Il trattato…, cit., p. XXIII), «nella pura e semplice notitia come tale dell’Impero universale», e nella «teoria della separazione e relativa interdipendenza fra il compito della Chiesa e quello dell’Impero e della coordinazione fra le due supreme autorità della Società cristiana» (ib., pp. XXIII-XXIV). Tutto ciò non aveva carattere di novità e contava su di una tradizione ormai consolidata di “questiones” e relative proposte di soluzione, che avevano avuto la punta di diamante nei più insigni giuristi, teorici ierocratici e antiierocratici. La originalità di Dante consiste invece, secondo l’Ercole (p. XXV), nel metodo di deduzione filosofica con il quale lo scrittore tenta «la dimostrazione di quella necessità e realtà dell’Impero universale e di quella autonomia e indipendenza di esso di fronte alla Chiesa, che la tradizione giuridica erasi limitata ad affermare e a constatare di sul testo delle fonti» (ib.). Come si vede, dunque, l’Ercole costituisce il trait d’union indispensabile tra le indagini del trattato basate su presupposti storico-giuridici e l’ermeneutica del testo perseguita con metodo più appropriato.
Ma, come già detto, gli scritti dell’Ercole interessano qui soprattutto perché hanno offerto lo spunto per lo sviluppo della tesi dell’Impero come remedium contra infirmitatem peccati (cfr. Mn. III, 3, 14). Per comodità seguo il ragionamento dell’autore, quale si sviluppa nell’Introd. cit., al trattato. Egli (pp. LX-LXVIII) – innanzi tutto – sottolinea l’originalità del pensiero dantesco nel superare la contraddizione tra le concezioni aristotelico-tomistiche sulla pluralità di nationes o regna, o comunque di più communitates perfectae et per se sufficientes e il concetto dell’unità del Populus Christianus ordinato ad unum e quindi necessitante di uno Stato universale unico. Anziché postulare astrattamente un regnum perfectum, vertice di una serie di comunità autonome e avente aristotelicamente lo stesso fine etico-eudemonistico di quelle, Dante (Mn. I, 3) parte dal noto principio che «omne quod est in potentia intendit exire in actum». Da qui deriva che l’intelletto umano ha come fine quello di venire in atto. E, mentre S. Tommaso nega che ciò possa accadere in questa vita, o, per lo meno, ammette che solo «qualcuno» possa vix intelligere omnia intellecta materialia (Summa Theol. I, q. 88, art. 1), Dante afferma che almeno in ordine agli intelligibili cui siamo in potenza secondo la nostra natura terrena ci è data la sopraddetta facoltà. Ora, questa è negata al singolo, ma non al genus humanum simul sumptum nel cui intelletto, in quanto specie – questo è concetto di Averroè (De anima III, 1) – gli universali sono sempre tutti in atto. Perché ciò si realizzi, è necessaria una guida unica. «Questa guida», dice l’Ercole (p. LXVI) «la teoria pontificia avrebbe voluto fosse il pontefice, in quanto, non ammettendo quella teoria altro vero fine che quello celeste, l’unico fine celeste presuppone l’unicità di indirizzo. Ma Dante riconosce una autarchia vera e propria, se così possa dirsi, anche al fine terreno. Perciò afferma il parallelismo dei due regimina». Affermata per questa via la necessità dell’Impero universale e del Monarca, l’Ercole (p. LXVIII-LXXXIV) passa a sviluppare la tesi della Monarchia quale remedium peccati.
Il punto di partenza è costituito dalle parole dello stesso Dante (Mn. III, 4, 14): … cum ista regimina (scil. temporale et spirituale) sint hominum directiva in quosdam fines… si homo stetisset in statu innocentie in quo a Deus factus est, talibus directivis non indiguisset: sunt ergo huiusmodi regimina remedia contra infirmitatem peccati. Questo passo, d’importanza capitale per l’ermeneutica del trattato, è stato posto a riscontro (già dal Carlyle) con le concezioni che muovono il De civitate Dei agostiniano; valga ad esempio il confronto (propriamente istituito dal Nardi, Saggi di filosofia dant. cit., p. 223) con il brano: Nullus… natura in qua prius Deus hominem condidit, servus est hominis aut peccati. Verum et poenalis servitus ea lege ordinatur, quae naturalem ordinem conservari iubet, perturbari vetat (Augusti., Civ. XIX, 15). Tuttavia, il merito di aver correttamente impostato e sviluppato la tesi in questione è, come ho detto, precipuamente dell’Ercole (Per la genesi del pensiero politico… cit. e poi in Introduz. al trattato, cit., a cui mi riferisco).
Egli innanzi tutto stabilisce una netta differenziazione tra la civitas, il regnum, in altre parole le comunità autarchiche di ascendenza aristotelico-tomistica, e l’Impero universale. Le prime si fondano su un ius humanum e naturale, che era integro ante peccatum (è in fondo un portato della «iustitia originalis», cioè di un dono «gratuito», come dice S. Tommaso); il secondo, invece, è stato imposto dalla necessità di riportare in pristino quella condizione ideale turbata da Adamo stesso. Dante – e questa è una novità importante del pensiero dell’Ercole – tuttavia fa propria l’interpretazione tomistica e non agostiniana del peccato d’origine: secondo la prima, l’umanità, dopo la caduta del progenitore è, sì, «vulnerata in naturalibus» e «spoliata gratuitis», ma non «organicamente corrotta», come vorrebbe la corrente patristica. E l’umana civiltà, a differenza di quanto sostiene S. Agostino, «è un portato di natura: non della natura corrotta dal peccato, ma della natura quale è uscita dalle mani di Dio» (Introd. cit., p. LXXI). Costituiscono l’umana civiltà le «communitates» autarchicamente sufficienti, composte di individui di «naturale socievolezza», «naturalmente» dissimili tra loro e riguardo alle attitudini e riguardo alla condizione sociale; «ordinati» alcuni al comando, altri all’ubbedienza. Proprio questa dissimiglianza è la ragion d’essere e la condizione dell’umana civiltà. «Corre… tra gli uomini un rapporto, una relazione – ciò che Dante, nella sua definizione del diritto, chiama la “personalis et realis hominis ad hominem proportio” (Mn. II, 5, 3 sgg.) –, che è voluto dalla natura, cioè da Dio, e che gli uomini non possono alterare, senza offendere la Natura, cioè Dio, o senza infirmare quella umana civiltà, alla quale soltanto essi debbano la possibilità di raggiungere il proprio fine, e, ch’è lo stesso, la possibilità di diventare tutti egualmente capaci di raggiungere il proprio fine». Cioè, «ove quella proportio fosse sempre e da tutti rispettata, tutti gli uomini potrebbero, attraverso la città e il regno, ossia attraverso l’organizzazione politica autarchica, vivere felici in terra, malgrado qualsiasi proprio difetto naturale. Civitas e regnum sono, insomma, anch’essi remedia: ma non rimedii sovrannaturalmente dati da Dio contro un difetto innaturale qual è il peccato: bensì rimedi naturali a difetti non meno naturali» (Introd., pp. LXXII-LXXIII).
Ma questa sarebbe appunto stata la condizione ideale dell’umanità, quella condizione che avrebbe espresso la communitas articolata secondo una ratio perfettamente naturale, in cui avrebbero regnato perpetue giustizia e pace. Essa sarebbe esistita anche se Adamo non avesse peccato. Senonché l’attuale umanità ha sostituito all’inclinatio alle virtù intellettuali e morali l’inclinatio ai vizi opposti. Visto in quest’ottica l’Impero universale si rende necessario, affinché sedate ingiustizie e guerre, possa consentire al singolo «in pacis tranquillitate» di esercitare le proprie virtù e al «genus humanum simul sumptum» di attuare il proprio fine complessivo. In questo modo, dice l’Ercole (p. LXXIV), «è evidente in che senso possa scorgersi, nel pensiero dantesco, superata – anche se Dante non ne abbia coscienza – l’apparentemente insanabilie contradizione fra l’idea aristotelica di una pluralità di Stati autarchici e per se sufficientes e l’idea medioevale e romana di una Monarchia universale».
Il Nardi farà propria questa teoria nel lavoro cit. (anche sulla scorta dell’art. cit. del Parodi, Del concetto dell’Impero in Dante…), modificandola però nel senso di un più radicale “agostinismo”. Rifiutando cioè, innanzi tutto, l’immagine di una umanità strutturata ante peccatum, quale la rappresenta S. Tommaso (Aristotele), e insistendo sulle condizioni di libertà, eguaglianza e felicità originarie. Non solo quindi dopo la caduta, secondo Nardi, si è reso necessario l’Impero universale, ma lo Stato tout-court, dalle più semplici alle più complesse comunità, dalla civitas al regnum, insomma (e questa sostanzialmente era anche idea del Parodi, Del concetto dell’Impero in Dantecit.). Senonché per Dante, l’uomo, che pure fa parte della città terrena vulnerata dal peccato, è pur sempre «un animale naturalmente socievole, e che abbisogna dell’organizzazione statale per raggiungere il fine a cui la natura lo destina. Ma è evidente che, pur accogliendo il procedimento dimostrativo della politica aristotelica, egli ha sempre dinanzi agli occhi della mente il concetto di una natura umana intrinsecamente viziata e diminuita, e il dramma della prima catastrofe dell’umanità. Necessario, e quindi naturale, è all’uomo che “fosse cive”, e “rege avere”; ma tale necessità è conseguente, è una dolorosa necessità risultante dall’intrinseca corruzione attuale della natura umana, un triste retaggio del peccato… Nella dottrina di S. Agostino intorno alla civitas terrena vanno distinti due momenti logici: nel primo, lo Stato terreno è concepito come una conseguenza del peccato che ha destato nell’animo umano la libidine del dominare; nell’altro, la civitas diventa un mezzo per raggiungere la pace nella giustizia, e la stessa soggezione dell’uomo all’uomo, la servitus, è considerata in certo modo come un rimedio naturale contro il peccato stesso da cui trae origine, naturale in quanto “ea lege ordinatur, quae naturalem ordinem conservari iubet, perturbari vetat”. In questo senso va intesa appunto la naturalità dello Stato secondo Dante, e non nel senso aristotelico-tomistico. Per lui, il “regimen temporale” in genere, cioè qualunque forma di Stato, e non il solo Impero, è reso necessario dall’imperfezione della natura umana, ed è un rimedio “contra infirmitatem peccati”» (Saggi, cit., pp. 227-228).


Note

1) Cfr. ad es., G. Vinay, Introduzione a D. Alighieri, Monarchia, Firenze 1950, p. XXIV e O. Capitani, Monarchia. Il pensiero politico, “Cultura e scuola” 13-14, 1965, pp. 722 sgg.
2) L’unità politica della nazione italiana e l’Impero nel pensiero di Dante, “Archivio storico italiano”, LXXV (1917), pp. 79-144; Id., Per la genesi del pensiero politico di Dante: la base aristotelico-tomistica, “Giornale storico della letteratura italiana”, LXXII (1918), pp. 1-41; 245-287 (=Il pensiero politico di Dante, Milano 1927-28, I, pp. 11-77; II, pp. 39-131).
3) Del concetto dell’Impero in Dante e del suo averroismo, “Bullettino della Società Dantesca Italiana”, N. S. XXVI (1919), pp. 105-148.
4) Introduzione a Il trattato della Monarchia di Dante, nuov. trad. e annot. da B. Siragusa, Milano/Firenze 1923, pp. XXII sgg.
5) Dante und die Idee des Weltfriedens, München 1909, pp. 5-42.


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