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CINEMA
tratto dal n. 12 - 1999

La pace giovane


Dialogo con Roberto Faenza, regista del film L’amante perduto, tratto dal romanzo di Abraham B. Yehoshua, un viaggio nel processo di pace in Palestina visto con gli occhi di un adolescente. Per Faenza l’unica possibilità di risolvere il conflitto è che arabi ed ebrei imparino a convivere negli stessi territori


Intervista con Roberto Faenza di Antonio Termenini


Nel panorama del cinema italiano Roberto Faenza rappresenta una figura inusuale. Si potrebbe dire anche inattuale, dal momento che non si è mai accodato alle mode del momento, preferendo percorrere un iter personale che lo ha portato negli ultimi quindici anni a lavorare prevalentemente all’estero. Faenza, torinese, di religione ebraica, si è dapprima avvicinato alla contestazione studentesca del ’68, con il film H2S, per approdare, verso la fine degli anni Settanta a un corrosivo film, Forza Italia!, un percorso a ritroso in trent’anni di storia repubblicana, dal viaggio di De Gasperi negli Stati Uniti al congresso della Dc a Roma nel 1976. Poi Copkiller (la storia di un tenente newyorkese) che segna il suo esordio fuori dal nostro Paese. Ma è con Mio caro dottor Grassler che il regista torinese raggiunge il grande pubblico. È proprio in questo film che si coglie la particolare attenzione rivolta da Faenza a personaggi contrassegnati dall’inettitudine, incapaci di imprimere una svolta decisiva alla propria scialba e ripetitiva esistenza. Come Pereira, giornalista portoghese testimone della dittatura salazariana nel Portogallo degli anni Trenta in Sostiene Pereira. Come Marianna Ucrìa, di cui l’omonimo film racconta l’incertezza e la solitudine. La trasposizione di romanzi continua ad affascinare Faenza, che nel 1993 realizza la sua opera migliore: Jona che visse nella balena. Tratto da Anni d’infanzia di Jona Oberski, oggi scienziato ad Amsterdam, è la cronaca – unita ad un flusso di ricordi frutto di una spiccata fantasia infantile – della vicenda di un piccolo ebreo olandese, deportato in un lager assieme alla famiglia. La Shoah è vista attraverso lo sguardo ingenuo e diretto di un bambino.
A sei anni da quel film, il regista torna ad esplorare il mondo ebraico, nel suo aspetto più contraddittorio e drammatico – il confronto e il conflitto con il popolo palestinese – riducendo per il grande schermo L’amante, il capolavoro di uno dei più significativi scrittori israeliani contemporanei, Abraham B. Yehoshua, autore anche di Un divorzio tardivo, Il signor Mani e Viaggio alla fine del millennio. Abbiamo incontrato Faenza alla Jean Vigo International, per parlare del film L’amante perduto.

Come ti sei accostato al romanzo di Yehoshua e perché hai scelto proprio L’amante?
ROBERTO FAENZA: Sin dalla prima lettura ho individuato due elementi che mi hanno affascinato. Il primo è di tipo linguistico-strutturale: c’è una serie di personaggi che raccontano dei frammenti di storie destinate ad intrecciarsi, un’idea che Yehoshua ha mutuato da un romanzo di William Faulkner, Mentre morivo (1930). Il secondo risiede nella relazione tra Dafi, israeliana, e Nahim, un ragazzo palestinese, resa impossibile dal conflitto esistente tra i due popoli.
Sia in Jona che visse nella balena che in quest’ultimo film hai scelto di affidare la prospettiva della narrazione, il punto di vista ad un adolescente, là Jona, qui Dafi. Perché?
FAENZA: Quando giro un film all’estero, per capire la realtà mi piace accostarmi ai giovani, perché loro vivono più rapidamente le mutazioni e soffrono precocemente le contraddizioni. Parlando con loro mi sono fatto un’idea di Israele nettamente dissimile da quella che mi ero creato a priori. L’ho capito in occasione dell’anteprima de L’amante perduto a Gerusalemme: molti adulti si sono sentiti offesi dal film ed in particolare dal finale, in cui si esprime l’auspicio di una pace autentica, verificabile nella vita quotidiana della gente. I ragazzi invece hanno apprezzato proprio il finale.
In una delle scene iniziali del film, un israeliano accoglie Gabriel, un giovane venuto da Parigi per raccogliere l’eredità di una nonna, apostrofandolo come una persona che vive fuori dal mondo. Significa che esiste ancora in Israele una forte identità nazionale che tende ad escludere il diverso, l’altro da sé?
FAENZA: Questo è il grande problema degli israeliani: il vivere assediati nell’ansia di una mancanza di futuro rende le persone estremamente chiuse, refrattarie ad un incontro con l’altro. Solo l’idea, ad esempio, che io abbia girato un film su di loro li infastidisce, perché ritengono che solo loro possono farlo. Tutto ciò si trasforma in una incapacità di aprirsi agli altri, prima agli arabi che abitano in Israele e poi ai palestinesi. La loro incapacità di rapportarsi all’altro, se da una parte è comprensibile, dall’altra è inaccettabile. Sono contrario all’atteggiamento degli israeliani secondo cui prima di convivere occorre rafforzare la propria identità. La loro identità è già talmente forte che continuando su questo percorso non si arriverà mai ad una vera pace.
In una scena una donna dice: «Ebrei e palestinesi discendono tutti da Abramo: è assurdo dividersi». Anche alla luce del recente vertice di Oslo tra Barak e Arafat ritieni che la soluzione politica con la creazione di uno Stato palestinese sia il preludio ad una futura convivenza e a un avvicinamento tra i due popoli?
FAENZA: La creazione di uno Stato palestinese non è sufficiente. La soluzione di questo conflitto secolare passa attraverso l’accettazione della convivenza, il che non significa perdere la propria identità. Convivere non è un’utopia; l’utopia è di coloro che pensano ancora a una netta separazione. È un’idea che geograficamente e culturalmente parlando non sta in piedi, chi la professa non conosce i territori di cui sta parlando. L’economia dei due popoli non regge autonomamente: un quinto della popolazione che vive in Israele è di origine palestinese ed è una percentuale in aumento. I palestinesi diventeranno un terzo della popolazione. L’economia israeliana collasserebbe immediatamente senza il sostegno di quel milione e ottocentomila arabi che lavorano ogni giorno nel Paese. L’unica via è la convivenza sullo stesso territorio. Altrimenti il conflitto continuerà e se ne apriranno di nuovi. Prendiamo la città di Nazareth, ad esempio, dove la popolazione è quasi interamente composta da arabi. Lì potrebbe crearsi una situazione analoga a quella del Kosovo, perché gli arabi-israeliani potrebbero cominciare a chiedere l’autonomia e poi l’indipendenza da Israele. Il conflitto potrebbe allargarsi in altre parti del Paese. E allora cosa accadrebbe?
L’unica via d’uscita risiede nella pacifica convivenza. Io l’ho sperimentata nel periodo di lavorazione de L’amante perduto, unendo nella troupe arabi, israeliani, italiani, che hanno lavorato assieme senza problemi. Ma sul concetto di convivenza c’è un ritardo anche negli intellettuali. Ci vorrebbe un altro David Grossman che scrivesse un nuovo Vento giallo.
La scena finale del film sintetizza il problema. Adam, l’ebreo, accortosi della relazione tra la figlia Dafi e il palestinese Nahim, porta quest’ultimo nel deserto per abbandonarlo. Ma il motore dell’auto va in panne e Adam è costretto a chiedere aiuto a Nahim. Una metafora della necessità di un incontro e di una collaborazione tra i due popoli.
FAENZA: Il finale è semplice e lineare. La macchina da sola non può proseguire. La persona che più ha valorizzato il finale e l’intero film è stato Shimon Peres, soprattutto quando ha affermato che L’amante perduto contiene quella dose di cecità che nella pace e nell’amore è strumento necessario per raggiungere ciò che appare inafferrabile.
Quali sono stati secondo te i politici europei che più hanno contribuito al processo di pace in Medio Oriente?
FAENZA: I politici italiani hanno avuto una grande capacità di mediazione e sicuramente hanno contribuito in modo decisivo al processo di pace in Medio Oriente. Non solo la sinistra, ma anche i governi della prima Repubblica hanno sempre offerto delle prospettive di solidificazione della pace. La classe dirigente italiana, a differenza di quella francese e inglese, ha dimostrato una maggiore capacità di incontro.


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