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DOCUMENTO
tratto dal n. 11 - 1999

Rispetto nella franchezza


Il 16 novembre scorso Abdelaziz Bouteflika ha aderito all’invito degli studenti e del rettore dell’Università La Sapienza di Roma Giuseppe D’Ascenzo, a parlare sul tema: Trialogo e riconciliazione nel Mediterraneo: il contributo alla pace e allo sviluppo economico offerto dagli uomini di buona volontà appartenenti alle tre religioni monoteiste. Pubblichiamo l’intervento del presidente della Repubblica Democratica Popolare d’Algeria


L’intervento del presidente algerino Abdelaziz Bouteflika


Poco fa avete definito un’eccezione alla regola il fatto che un capo di Stato si sia recato in tutta semplicità a visitare un’università. Mi ricordo del mio amico, il presidente Fanfani, al quale auguro una pronta guarigione, con il quale in passato ho condiviso le stesse responsabilità politiche, essendo ambedue ministri degli Esteri. Egli insegnava all’università. Un giorno gli chiesi cosa trovasse di interessante nell’incarico di ministro degli Esteri e di professore universitario. Mi rispose: «Mi trovo in una situazione decisamente ambigua: gli studenti credono di imparare qualcosa da me ma, a livello personale, quello che mi consente una longevità politica è il fatto di essere a contatto con gli studenti. Ciò mi rinnova continuamente e mi fa superare le prove». È stato a Roma che ho ricevuto questa lezione di saggezza. La mia visita vuole essere perciò un omaggio al presidente Fanfani ed è a lui che voglio dedicare questo incontro.
Giulio Andreotti e il presidente algerino Abdelaziz Bouteflika durante la conferenza tenutasi presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università La Sapienza di Roma il 16 novembre scorso

Giulio Andreotti e il presidente algerino Abdelaziz Bouteflika durante la conferenza tenutasi presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università La Sapienza di Roma il 16 novembre scorso

Tra breve parlerò di un argomento che mi sta a cuore o, più precisamente, che a voi sta cuore. Ho l’impressione che, contrariamente a quanto accade in altre università, abbiate cercato di imbrigliarmi, di costringermi a muovermi in un ambito ben circoscritto. Avete definito le premesse di un problema che doveva condurmi inevitabilmente a un corollario. Non sarei un algerino se mi sottomettessi al vostro suggerimento perché, proprio in quanto algerino, sono un contestatore e, essendo un contestatore, voglio dirvi semplicemente ciò che mi passa per la mente.
Signore e signori,
oggi mi tocca il temibile onore di trattare dinanzi a voi un argomento che è stato scelto per me. Questa situazione, di fronte a un tale uditorio, mi riporta alla mente i penosi compiti di quando ero giovane scolaro ed evoca in me il nostalgico ricordo del rispettoso timore per il maestro.
Ma quel tempo è passato per me e credo di essere in questo momento immune dal rischio di venire rimproverato per non aver risposto come avrei dovuto. Mi trovo costretto, temo, a dover ricorrere a questo privilegio, ma spero di non abusarne.
Il dialogo e la riconciliazione nel Mediterraneo sono temi vasti che si snodano lungo l’intero arco della storia. Perché, se ci deve essere riconciliazione, significa che vi sono difficoltà che affondano le loro radici in un lontano passato, ricco e tumultuoso, nel quale è importante distinguere bene tutto ciò che spiega l’oggi e ciò che può favorevolmente preparare il domani.
In questa lunga eredità comune, lo scontro, molto spesso, e la proficua coabitazione, a volte, delle tre religioni monoteiste hanno avuto un ruolo tale che il dialogo interreligioso resta, per molti aspetti, essenziale per la problematica del rinnovamento delle relazioni all’interno dello spazio euromediterraneo, e il suo contributo al futuro può essere determinante a questo proposito.
Il Dio di queste tre religioni è il creatore di un universo unico e di un’umanità che lo rivendica per affermare la sua comune identità, al di là delle differenze razziali e culturali.
La genealogia spirituale che ricollega le nostre religioni monoteiste ad Abramo ha sempre nutrito la grande speranza di vedere l’umanità intera ritrovarsi riunita nella fede in Dio e nella fede nell’unità e nella fratellanza umane. Un solo messaggio per tutti, che afferma la nostra dignità attraverso la volontà del Creatore, che conferma la nostra diversità nella fratellanza.
Da parte sua, il Corano ci insegna che: «Se Dio avesse voluto, avrebbe fatto di voi una nazione unica, ma Egli ha voluto mettervi alla prova nelle cose che vi sono state date. Rivaleggiate nel bene. Ovunque vi troviate Dio vi riunirà tutti in Lui».
Eppure, nonostante questa fratellanza riconosciuta congiuntamente dalle tre religioni nel corso dei secoli fino ad oggi nello spazio del Mediterraneo, sanguinosi scontri tra gli uomini hanno messo in primo piano pretesti religiosi. Era la politica ad incoraggiare le lotte e le conquiste, ma era sostanzialmente la religione, strumentalizzata, che incitava al fanatismo. Fin dall’antichità, passando per le crociate e le imprese coloniali, la storia ci ha lasciato ricordi di intolleranze e di atrocità sempre giustificate in nome della religione.
Tuttavia, l’armoniosa coabitazione delle religioni ha potuto dare la misura della ricchezza che la loro diversità poteva generare. Penso in particolare all’Andalusia dove il genio ebraico e quello musulmano, uniti in un clima di grande tolleranza, hanno dato al mondo una delle più splendide civiltà mai conosciute prima.
Eppure, successivamente, ha preso forma un’idea, un concetto, il cui uso oggi sempre più diffuso, al di là degli sviluppi storici, mi suggerisce l’esistenza nel pensiero dominante europeo di un’incomprensione, di un partito preso di ignoranza e, mi sia perdonato, di una svalutazione dell’altro.
Vorrei soffermarmi sul concetto di civiltà ebraico-cristiana che viene utilizzato nella nostra area geografica in contrapposizione a una civiltà musulmana che con quella sarebbe inconciliabile e che la minaccerebbe addirittura secondo quelli, purtroppo numerosi, che sventolano lo spettro del “pericolo verde”.
Questo binomio che unisce – che divide, dovrei dire – nella sua formulazione le tre religioni monoteiste, che ne oppone due a una e che erge un muro tra il Nord e il Sud del Mediterraneo, non riattizza forse le ceneri non ancora spente delle violenze e delle intolleranze di un tempo? Non riflette forse e non alimenta una diffidenza e un’ostilità ancora vive?
Poco fa avete definito un’eccezione alla regola il fatto che un capo di Stato si sia recato in tutta semplicità a visitare un’università. Mi ricordo del mio amico, il presidente Fanfani, al quale auguro una pronta guarigione, con il quale in passato ho condiviso le stesse responsabilità politiche, essendo ambedue ministri degli Esteri. Egli insegnava all’università. Un giorno gli chiesi cosa trovasse di interessante nell’incarico di ministro degli Esteri e di professore universitario. Mi rispose: «Mi trovo in una situazione decisamente ambigua: gli studenti credono di imparare qualcosa da me ma, a livello personale, quello che mi consente una longevità politica è il fatto di essere a contatto con gli studenti. Ciò mi rinnova continuamente e mi fa superare le prove»
Perché in questo modo – e anche solo per il semplice riferimento etimologico – l’islam si troverebbe separato, secondo l’opinione diffusa in Europa, dalle altre due religioni monoteiste; mentre, nonostante le peculiarità di ognuna delle tre fedi, esse attingono tutte alle stesse fonti e procedono fondamentalmente dai medesimi valori. Così infatti è detto nel Corano: «Non discutete con le genti del Libro se non con estrema cortesia, tranne con coloro che, fra di esse, sono ingiusti. Dite: “Crediamo in ciò che ci è stato rivelato e in ciò che vi è stato rivelato. Il nostro Dio è anche il vostro Dio. Egli è unico”».
Così si contrappongono duramente la cultura ebraica e la cultura musulmana, che pure hanno in comune una cospicua eredità culturale ed etnica e un patrimonio ancora vivo. Così il cristianesimo e l’islam si affrontano come acerrimi antagonisti malgrado quest’ultimo, pur non ammettendo la natura divina di Gesù, riconosca che Egli procede dallo spirito di Dio, dal soffio di Dio, riconosca il mistero della sua nascita virginale e conferisca al suo insegnamento tutto il carattere sacro della parola divina.
Così, anche per l’effetto sull’opinione comune della conclamata contrapposizione tra civiltà ebraico-cristiana e civiltà musulmana, la mescolanza etnico-culturale che fin dall’antichità ha contraddistinto il Mediterraneo, viene cancellata dalla memoria collettiva.
Vengono cancellati la partecipazione e il contributo dei popoli e degli uomini del Sud del Mediterraneo alla civiltà romana, il cui retaggio comune continua a influire, in un modo o nell’altro, su tutti i Paesi della regione. Per ricordare in questa sede solo i miei compatrioti, farò il nome di Apuleio, autore delle Metamorfosi, quello di sant’Agostino, figlio dell’Algeria e il più notevole dei Padri della Chiesa, militante appassionato dell’unità umana così come è detto nella Città di Dio, santo, tanto per il cristianesimo quanto per l’islam. Per altri aspetti ricorderò Settimio Severo e la dinastia da lui fondata. Ricorderò Massinissa e il nostro eroe della resistenza di quell’epoca, Giugurta, che, per aver combattuto i Romani, appartiene alla storia comune dell’Algeria e dell’ltalia, a questa storia profondamente intricata del Mediterraneo. Citerò quei luoghi in Algeria che serbano la memoria di un lungo periodo in cui il Mediterraneo univa nella diversità invece di dividere, arricchiva invece di contrapporre: Cherchell – l’antica Cesarea –, Timgad, Tipasa, tra gli altri.
E per l’opposizione presente negli animi tra ebrei e cristiani da una parte e musulmani dall’altra, la cultura araba si trova tagliata fuori dal patrimonio della civiltà europea che viene confusa con la civiltà universale. In questo modo si occulta il ruolo dei filosofi e degli scienziati arabi, ignorati o, al massimo, considerati come semplici veicoli di trasmissione della conoscenza greca, quando il loro contributo ha avuto invece una parte determinante nella formazione del pensiero e del sapere che hanno permesso all’Europa di emergere dal Medioevo, dando vita al Rinascimento.
La storia del progresso nell’area euromediterranea, a mio avviso, non è – come viene spesso suggerito – quella di una civiltà ebraico-cristiana che si afferma contro un’altra, non è il trionfo di una civiltà, è un processo continuo, è un patrimonio indivisibile a cui ognuno ha dato il proprio contributo. È Aristotele e Pitagora, Seneca e sant’Agostino, è Averroè, Maimonide e san Tommaso d’Aquino, è al-Khuvarizimi con l’algebra e i logaritmi, Descartes e Galileo, è Newton, Pasteur, Einstein: è questa catena ininterrotta che collega tutti questi uomini tra loro e anche con molti altri. È infine la civiltà dell’uomo costruita pietra dopo pietra, pietra su pietra, e che nessun popolo, nessuna cultura, nessun’etnia, nessuna religione, nessun insieme potrebbe rivendicare per sé.
L’effetto dell’opposizione tra ebreo-cristiani e musulmani, della negazione dell’altro sull’opinione diffusa nell’Europa di oggi è innegabile. Forse non è azzardato affermare che, in una certa misura e al di là delle congiunture economiche, ciò determina le leggi restrittive in materia di circolazione delle persone nel Mediterraneo e le condizioni di accoglienza e di soggiorno; che contribuisce ad alimentare un razzismo persistente; che ha generato degli atteggiamenti parziali ed ingiusti nei riguardi della questione palestinese; che ha pesato su alcune decisioni inerenti alle prospettive di allargamento della costruzione europea.
Tuttavia, è giusto notare che la diffidenza e l’ostilità nei confronti dell’altro, l’affermarsi del carattere di irriducibilità all’interno delle culture e delle religioni, si ritrova espresso anche nel Sud del Mediterraneo, in terra islamica.
Si tratta di correnti estremiste alimentate, per lo più, dalle frustrazioni, dalla sete di giustizia e di dignità in un mondo caratterizzato principalmente da rapporti tra dominanti e dominati e dall’arretratezza tecnologica ed economica in uno spazio sempre più aperto ai contatti universali.
A questo proposito, va sottolineato che il retaggio del periodo coloniale, i cui rapporti di squilibrio da esso generati hanno, in larga misura, semplicemente cambiato forma, continua ad avere un peso considerevole.
Certo, il ritardo del mondo arabo si spiega anche con il ristagno culturale durante il periodo della dominazione ottomana, favorito dalla sclerosi del pensiero a partire dalla fine del XIV secolo. Ma l’impresa coloniale unita alla rivoluzione industriale ha rappresentato una rottura nella storia del mondo. Mai prima di allora le conquiste avevano portato a una perdita culturale, a una menomazione etnica e d’identità così sistematiche, a un’esclusione totale, spietata, di intere comunità nazionali dal mondo del sapere e del progresso. Mai prima di allora erano giunte a riprodurre in maniera incessante, al di là degli sviluppi politici, i rapporti di dominazione economica.
Così infatti è detto nel Corano: «Non discutete con le genti del Libro se non con estrema cortesia, tranne con coloro che, fra di esse, sono ingiusti. Dite: “Crediamo in ciò che ci è stato rivelato e in ciò che vi è stato rivelato. Il nostro Dio è anche il vostro Dio. Egli è unico”». L’islam pur non ammettendo la natura divina di Gesù, riconosce che Egli procede dallo spirito di Dio, dal soffio di Dio, riconosce il mistero della sua nascita virginale e conferisce al suo insegnamento tutto il carattere sacro della parola divina
La natura e le conseguenze dei rapporti non egualitari nel mondo, delle ingiustizie e degli attentati alla dignità individuale e collettiva, sono spesso occultati nella valutazione delle situazioni presenti nei Paesi in via di sviluppo, nel Sud del mondo. Bisogna che delle buone volontà si mobilitino per denunciare le violazioni dei diritti politici e culturali che sembrano ignorare l’entità e l’atrocità delle sofferenze vissute quotidianamente dal continente africano, soprattutto per colpa di interessi egoistici e di uno strangolamento economico provocato, tra l’altro, da un debito schiacciante e da un deterioramento continuo delle condizioni di scambio.
L’incomprensione espressa dal mondo evoluto nei riguardi dei meno ricchi non è forse anch’essa il risultato di questa volontà nuovamente affermata di giudicare gli altri secondo le proprie realtà? Quante azioni pazienti e quanti strazi sono stati necessari a queste società evolute per imporre ed affermare lo Stato nazionale! Quanto lavoro ostinato, sostenuto da mezzi materiali e da uno sviluppo imponenti! Quante difficoltà vissute dai popoli colonizzati e imposte a loro, per realizzare l’industrializzazione, per diffondere l’insegnamento e le virtù civiche moderne, per raggiungere il livello e l’equilibrio che hanno raggiunto oggi e per fare sì che, vinte la miseria e l’ignoranza, non vi siano più le urgenze del passato!
Si può dimenticare tutto questo? Si può, a questo punto, giudicare gli altri secondo criteri e valori che solo lo sviluppo ha messo in risalto tra le tante preoccupazioni delle società e le molteplici aspirazioni dell’uomo?
Sia chiaro che, nel far riferimento alla pressione prioritaria e dolorosa nel terzo mondo esercitata dalla necessità di soddisfare i bisogni vitali o essenziali quali l’alimentazione, le cure mediche, l’istruzione, l’alloggio e l’edificazione nazionale, non posso in alcun modo criticare la necessità del rispetto e della promozione di tutti gli altri diritti, di tutte le libertà che conferiscono, che devono conferire, la personalità umana e la cittadinanza. E non posso neppure criticare il diritto di reagire contro l’oppressione.
Ma confesso il mio disagio e la mia preoccupazione di fronte ad alcune teorie che stanno venendo alla luce. Di fronte al diritto d’ingerenza che alcuni si arrogano. Quali abusi potrebbero occultarsi dietro di esso! Non dimentichiamoci che la preoccupazione onesta e ingenua di alcuni di “civilizzare” il buon selvaggio ha aperto la strada a uno schiavismo disumano e vergognoso. Allora, come non chiedersi quali perversità possono nascondersi all’interno di questo moderno cavallo di Troia all’insaputa delle buone volontà.
Motivi umanitari, la parola è presto detta. Diritto di ingerenza significa forse che quando le società dell’opulenza nascondono sacche di povertà che alcuni, secondo il loro criterio, potrebbero giudicare crudelmente ingiuste, un Paese dell’Africa potrebbe legittimamente intervenire a New York, Londra o Parigi, per dare un casa ai senzatetto o imporre un aumento delle indennità di disoccupazione?
Le mie parole fanno sorridere ma, comicità a parte, esse sottolineano un’evidenza: il diritto di ingerenza non sarebbe altro che il diritto riconosciuto al più forte di giudicare senza appello e di imporre la propria verità, la propria unica verità, al più debole. In altri termini ciò significa, in un certo senso, la negazione, nel suo principio, del valore supremo a cui si richiamano le società più sviluppate: la libertà, questa libertà di cui un grande poeta francese ha detto che è nata insieme alla nostra anima il giorno in cui il più giusto ha sfidato il più forte.
Certo, la comunità internazionale deve darsi i mezzi per intervenire nelle situazioni tragiche. Ma lo deve fare nell’ambito di regole collettivamente elaborate e consentite, di decisioni condivise, senza ricorrere al giudizio unilaterale di uno solo o di pochi.
Il mio Paese, che ha conquistato l’indipendenza a prezzo di sofferenze, ha pagato il diritto di rivendicare e di difendere il principio della sovranità dei popoli. Nel dibattito in corso, in ogni circostanza, è favorevole a un diritto internazionale democraticamente consacrato ma si oppone fermamente al diritto del più forte.
Per tornare più precisamente al Sud del Mediterraneo, il sentimento di ingiustizia e di frustrazione generato dall’iniquità dei rapporti internazionali, è stato alimentato, al di là delle conseguenze della colonizzazione e delle sue sopravvivenze economiche, dalla sorte drammatica che i più forti hanno riservato al popolo palestinese, divenuto il capro espiatorio dei peccati provocati dalle intemperanze degli europei e privato, da oltre cinquanta anni, contro ogni giustizia e ogni morale, del diritto a un’esistenza autonoma e a uno Stato nazionale.
Signore e signori,
incomprensione, iniquità, squilibrio nei rapporti e ingiustizia, ecco ciò che alimenta le tensioni nel Mediterraneo, ecco i temi su cui, fondamentalmente, deve vertere il dialogo, ecco gli ostacoli da eliminare lungo il cammino della riconciliazione e della pace duratura.
Ma confesso il mio disagio e la mia preoccupazione di fronte ad alcune teorie che stanno venendo alla luce. Di fronte al diritto d’ingerenza che alcuni si arrogano. Quali abusi potrebbero occultarsi dietro di esso! Non dimentichiamoci che la preoccupazione onesta e ingenua di alcuni di “civilizzare” il buon selvaggio ha aperto la strada a uno schiavismo disumano e vergognoso. Allora, come non chiedersi quali perversità possono nascondersi all’interno di questo moderno cavallo di Troia all’insaputa delle buone volontà
Per gli uomini di buona volontà, mi sembra, innanzitutto, che sia indispensabile attivare una pedagogia più serena e più obiettiva sul nostro passato comune, in modo da convincere che differenza culturale o religiosa non significa ostilità o minaccia, in modo da rendere o da rendere di nuovo coscienti della multiforme comprenetazione, storica e attuale, dei Paesi della regione, dell’identità dei valori fondamentali e, in fondo, di un’unità specifica del mondo mediterraneo che rende inscindibili al suo interno la stabilità e la sicurezza.
È doveroso adoperarsi per cancellare le conseguenze psicologiche della dominazione coloniale adottando comportamenti e giudizi che si traducano nel rispetto dell’altro nella sua diversità e non atteggiarsi a censori per imporre la propria verità, una verità di cui la storia ci insegna il carattere spesso effimero, a volte illusorio, e sempre relativo.
Al Sud dobbiamo prendere coscienza che le vicende della storia non spiegano tutto, che lo sviluppo non può essere dato, e neanche comprato, ma che dipende dal lavoro applicato, dall’adesione partecipativa della maggioranza, dal rigore nell’organizzazione, da un’integrità intransigente nella gestione degli affari pubblici, nonché dall’apertura e dall’adattamento intelligente ai contributi inseparabili delle tecniche, da una parte, e delle idee, dall’altra.
Il mio Paese, che emerge da un periodo doloroso della sua storia, valuta con particolare attenzione la posta in gioco che tale evoluzione comporta. Una recessione economica aggravata dall’imprevidenza, l’avventata gestione degli affari pubblici, il deterioramento dei valori civili avevano provocato una crisi morale e sociale che ha aperto la strada a tutti gli estremismi, a tutte le violenze e che ha rischiato di far soccombere lo Stato nazionale.
Con la massiccia adesione al piano di concordia civile, il popolo algerino il 16 settembre scorso ha affermato con determinazione la propria volontà di eliminare con la comprensione e il perdono le tracce dello strazio nazionale, per essere di nuovo unito nelle speranze comuni e negli sforzi per realizarle. Ha affermato con forza la propria volontà di costruire una società aperta, partecipativa, ricca della diversità nella promozione del suo genio e rispettosa delle differenze.
Sul piano economico si tratterà di impegnarsi risolutamente nella valorizzazione delle risorse insite nel suo vasto territorio e nel dinamismo della sua gioventù. Le carte buone da giocare sono molte, ma si tratterà di eliminare gli intralci e i freni ancora presenti per consentire la piena espressione dell’iniziativa e la più grande trasparenza.
Sul piano internazionale siamo decisi a operare senza restrizioni e senza secondi fini per lo sviluppo dei nostri rapporti di solidarietà, in primo luogo nel Maghreb e, naturalmente, anche nel mondo arabo e in Africa. Con l’Unione europea, nostro principale partner economico, siamo disposti a sviluppare un partenariato che si inserisca nel quadro più generale della Dichiarazione di Barcellona. Perché ritengo che in questo spazio euromediterraneo bisogna mostrarsi audaci nella definizione di un partenariato economico equilibrato che permetta di sfruttare le immense potenzialità di complementarità presenti nella regione. Un partenariato in grado di correggere, in una visione ampia degli interessi condivisi, il gioco disumano dei mercati che diventano sempre più potenti. Un partenariato che potrebbe permettere allo spazio euromediterraneo, rafforzato dalla sua articolazione naturale e culturale in Medio-Oriente e in Africa, di avere più peso sulla scena mondiale nel senso di un migliore equilibrio della potenza e dell’influenza.
Signore e signori,
in questo mondo, che la globalizzazione abbandonerà sempre più al materialismo, al gioco crudele e insensibile delle forze di mercato, si impone l’esigenza di un rinnovamento spirituale per dare spazio ai valori di fratellanza e di giustizia che consentiranno all’umanità di evitare un ciclo di catastrofi umane e di conflitti che ritarderebbe l’avvento di quel mondo di pace al quale aspiriamo tutti.
Perché l’immagine del mondo in questa fine di secolo è fatta di un crudele paradosso che mi sembra portatore di gravi minacce per il futuro. Mentre gli scambi e il progresso tecnologico tendono ad abolire le frontiere fisiche, mai si era registrata una distanza così grande tra gli uomini, tra Nord e Sud, tra ricchi e poveri. E quando nelle vostre città del Nord uomini politici, uomini d’affari, sindacalisti parlano, spesso con disappunto, di un tasso di crescita del 2,5 per cento, io calcolo che il solo incremento del reddito pro capite causato da questa crescita supera il reddito totale annuo di oltre la metà degli abitanti del pianeta e misuro l’ampiezza del divario spaventoso che cresce senza sosta.
In altri termini ciò significa, in un certo senso, la negazione, nel suo principio, del valore supremo a cui si richiamano le società più sviluppate: la libertà, questa libertà di cui un grande poeta francese ha detto che è nata insieme alla nostra anima il giorno in cui il più giusto ha sfidato il più forte. Certo, la comunità internazionale deve darsi i mezzi per intervenire nelle situazioni tragiche. Ma lo deve fare nell’ambito di regole collettivamente elaborate e consentite, di decisioni condivise, senza ricorrere al giudizio unilaterale di uno solo o di pochi
Inoltre, ci sono buone ragioni per temere che la mondializzazione organizzata, manovrata al di fuori di noi, che questo processo dalla logica e dai meccanismi spietati finiscano coll’aggravare nei nostri Paesi del Sud la polarizzazione tra un’élite che lavora, che vive, che si sviluppa secondo il ritmo e gli standard più avanzati, e una maggioranza che invece resta condannata alla precarietà e al sottosviluppo. Proclamando l’onnipotenza dei mercati finanziari, rifiutando la correzione degli effetti negativi del loro gioco implacabile, esaltando la sparizione degli Stati, non si rischia forse di aggravare il deterioramento delle condizioni di scambio che andrebbe ad aggiungersi alla scomparsa, traumatica per i Paesi più poveri tra quelli meno sviluppati, dell’aiuto pubblico allo sviluppo? Non si rischia forse di provocare una contrazione dei programmi sociali diretti ai più deboli, programmi già crudelmente insufficienti?
Di questo passo andiamo verso l’aggravarsi dell’ingiustizia in un mondo in cui già un miliardo di esseri umani soffre per la fame o per la malnutrizione, nonostante ci siano mezzi per nutrire l’intero pianeta. Dov’è nel mondo in cui viviamo la fratellanza postulata dalle tre religioni? Dov’è il futuro della pace, quando ci si può solo chiedere quanto tempo, quanto tempo ancora, la prosperità e la sicurezza degli uni potranno adattarsi impunemente alla miseria e alle frustrazioni degli altri? Benché i Paesi del Sud de Mediterraneo non siano i più poveri tra i poveri, questi pericoli sommati al rischio del diffondersi delle loro conseguenze al Nord, non sono forse particolarmente imminenti nel nostro spazio a causa della prossimità geografica e delle realtà migratorie e demografiche generate dall’intreccio delle storie?
Tutte queste considerazioni dovrebbero trovare posto nella definizione di nuove relazioni tra il Sud e il Nord del Mediterraneo, la cui visione resta troppo spesso dominata da un economicismo tecnocratico disumanizzato e da interessi ristretti che conducono a un isolamento soddisfatto e geloso in un’oasi di prosperità, le cui frontiere umane, tuttavia, si restringono e si restringeranno per molto tempo ancora.
Parlando di ridefinizione dei rapporti, non intendo ovviamente una ridistribuzione unilaterale, discrezionale e caritatevole delle ricchezze; una beneficenza che sarebbe contraria ai valori che hanno sempre animato le nostre società, per le quali è sempre meglio morire conservando la dignità piuttosto che vivere in ginocchio. Intendo un partenariato che, considerando le potenzialità dell’altro e il beneficio che ne potrà trarre in futuro, partecipi alla loro realizzazione; un partenariato che abbracci in futuro tutti gli interessi comuni in una visione ampia, che si preoccupi di capire meglio le esigenze particolari nonché la dimensione e l’impatto umano delle poste in gioco e si sforzi realmente di integrarli in un processo che non sacrifichi gli interessi di nessuno. Un partenariato che cerchi di sviluppare per cooperare di più e meglio, e non di dominare per continuare a dominare.
La correzione dei gravi squilibri e, quindi, la promozione di una giustizia maggiore sono le chiavi di una pace duratura nel mondo e nel Mediterraneo. L’affermazione dell’unità del genere umano professata dalle tre religioni monoteiste rimarrebbe sterile se non desse un senso alla fratellanza degli uomini con l’instaurarsi della giustizia tra di loro.
È quindi nella lotta per la giustizia in tutte le sue forme, in tutti gli aspetti della vita dei popoli e delle loro relazioni, è in questa lotta pienamente conforme agli insegnamenti e alle esigenze della fede che possono, che devono ritrovarsi gli uomini di buona volontà delle tre religioni. Ve ne sono stati di illustri in ogni epoca, nel nostro spazio mediterraneo, ma più numerosi, molto più numerosi, sono stati quelli anonimi che si sono impegnati e a volte sacrificati in questo sacerdozio.
Vorrei ricordare alcuni di questi uomini, che sceglierò per quello che mi suggeriscono la diversità dei piani d’azione e dei campi che promuovono e difendono la giustizia tra gli uomini – avendo ognuno di loro agito nelle circostanze particolari volute dal destino. Questa scelta è personale, cioè legata al mio percorso di vita e, in un modo o nell’altro, alle lotte che ho dovuto portare avanti.
La prima delle figure che ricorderò è, mi sia perdonato, un compatriota, Abdelkader che suscitò, animò e diresse la resistenza contro l’occupazione coloniale con un coraggio e una lealtà nel combattimento di cui testimoniarono perfino i suoi avversari. Vinto, esiliato in seguito in Siria dall’occupante, mise a repentaglio la sua vita, quella dei suoi familiari e tutti i suoi beni per salvare i cristiani maroniti durante le sanguinose sommosse del 1860. Questa preoccupazione di giustizia che non ammetteva l’oppressione né l’asservimento di uomini da parte di altri uomini e che non cedette al risentimento e alla solidarietà religiosa mi è sempre parsa degna di ammirazione.
Potrei ricordare, trattandosi di compatrioti, anche monsignor Duval che diede sempre prova di profonda compassione umana e di intransigente rigore riguardo ai princìpi dettati dalla sua fede e dalle sue convinzioni. Ne ho lungamente parlato in un’altra occasione non molto tempo fa e continuerò a rendergli l’omaggio che merita ogni qualvolta avrò l’opportunità di farlo. Per quanto mi è possibile, pregherò insieme a tutti quelli che vorranno farlo con me per la sua canonizzazione
Potrei ricordare, trattandosi di compatrioti, anche monsignor Duval che diede sempre prova di profonda compassione umana e di intransigente rigore riguardo ai princìpi dettati dalla sua fede e dalle sue convinzioni. Ne ho lungamente parlato in un’altra occasione non molto tempo fa e continuerò a rendergli l’omaggio che merita ogni qualvolta avrò l’opportunità di farlo. Per quanto mi è possibile, pregherò insieme a tutti quelli che vorranno farlo con me per la sua canonizzazione.
Potrei, trattandosi della giusta lotta anti coloniale, parlare anche di Omar El Mokhtar che lottò contro il fascismo e l’invasione mussoliniana. Ciò mi consentirebbe di salutare con rispetto e ammirazione la grandezza del gesto del governo italiano che ha presentato le sue scuse al popolo libico per i torti causati dall’occupazione mussoliniana. In questo gesto ho visto una volontà sincera e reale di cancellare le tracce di un periodo nero della storia dell’umanità e di avviare risolutamente e senza secondi fini un nuovo tipo di relazioni con i Paesi dominati in passato. Che lo spirito che ha animato questo gesto possa generalizzarsi e possa soprattutto ispirare un atteggiamento più dignitoso, più solidale nei riguardi delle indicibili sofferenze del continente africano, che l’ignobile tratta dei neri e lo sfruttamento vergognoso hanno straziato, lacerato, umiliato e mutilato.
La seconda figura su cui vorrei soffermarmi ora è quella di Enrico Mattei, uomo politico e industriale italiano, che aiutò noi algerini durante la nostra guerra di liberazione nazionale, in un’epoca in cui pochissimi cittadini di Paesi amici della Francia, nelle cerchie dirigenti, avevano creduto di doverlo o osarlo fare. Se evoco la sua memoria oggi è soprattutto per la sua attività come presidente dell’Eni che lo vide impegnato in una lotta contro il “cartello” delle grandi compagnie petrolifere per un trattamento più dignitoso dei Paesi produttori e per il loro giusto coinvolgimento nella produzione e nella spartizione degli utili. Enrico Mattei pagò con la vita il suo impegno per queste giuste cause.
La terza figura è quella di un ebreo americano, il professor Lilenthal, giurista e scrittore che ricoprì cariche ufficiali. Le sue prese di posizione riguardo al conflitto israelo-palestinese, espresse pubblicamente, gli valsero molteplici offese, un attentato in cui rischiò la vita e l’esclusione dalla comunità ebraica, pronunciata da un collegio di rabbini. Ha creato una fondazione dedicata ai bambini palestinesi diseredati.
Non è per le sue posizioni, ormai superate, sulla creazione dello Stato d’lsraele che ho ricordato il professor Lilenthal. Si tratta di una realtà inevitabile, irreversibile, e io appoggio il processo di pace in Medio Oriente a patto che si avvii, senza secondi fini e rapidamente, verso l’istaurazione di uno Stato nazionale palestinese e la cessazione dell’occupazione del Golan e del Libano meridionale, in conformità con le risoluzioni della comunità internazionale. Ma questa figura mi ha colpito, in un periodo della mia vita in cui lottavo per l’indipendenza del mio Paese, in rapporto, in opposizione a un filosofo francese nativo dell’Algeria, Albert Camus. Costui era perfettamente consapevole dell’ingiustizia e degli orrori del regime coloniale, ma rifiutò di appoggiare le nostre rivendicazioni, dichiarando: «Tra la giustizia e mia madre, scelgo mia madre».
Tra ciò che considerava, in coscienza, essere la giustizia e sua madre, ossia la sua comunità in un’epoca di accanita intolleranza, il professor Lilenthal ebbe il raro coraggio di fare la scelta contraria. È per me un esempio particolarmente forte e simbolico del giusto. Lui e altri ancora mi incoraggiano a non disperare in un futuro comune. Perché di uomini giusti, di uomini di buona volontà, ce ne sono tanti oggi in seno a ogni credo presente nella nostra area mediterranea. Essi si sforzano di trovare le migliori vie per la concertazione e l’unione degli sforzi.
L’invito che mi e stato rivolto e l’argomento scelto lo attestano, credo. Il numero dei presenti e la loro giovane età mi rincuorano molto.
Perché è la gioventù, maggiormente interessata dal futuro, meno prigioniera dei fantasmi del passato, conscia dei pericoli degli estremismi che può, che deve pesare in modo decisivo sugli sviluppi necessari per assicurare ovunque la salvaguardia della dignità dell’uomo, per sviluppare le convergenze e le complementarità in un mondo che finirà con l’unirsi. Per promuovere l’avvento di un’umanità riconciliata con gli ideali più alti dell’uomo, con i valori che uomini di buona volontà hanno sempre predicato nel corso dei secoli.
E per concludere il mio discorso a Roma, la città eterna, simbolo e faro del cristianesimo, non posso fare a meno di dire: «Pace in terra agli uomini di buona volontà». Che a tutti sia concesso di esserlo! Vi ringrazio
Signore e signori,
senza falsa modestia, ma con l’umiltà che è d’obbligo in questi luoghi del sapere e della conoscenza e di fronte a un consesso di eminenti personalità, vorrei dirvi che mi fate l’onore di un riconoscimento e di un merito senza pari. I casi misteriosi del destino mi hanno portato dalla rivoluzione alla diplomazia ed ora, alla politica. Un destino ben tre volte contrastato che rimane, per l’uomo di fede che sono, da qualche parte incompiuto...
Quindi posso accettare questo riconoscimento e questo onore solo se mi permettete, in segno di fedeltà ai miei, di offrirli a tutti i martiri del mio Paese, quelli di ieri e di oggi, e di condividerli con tutte le vittime che hanno conosciuto la paura, il terrore, la sofferenza, l’angoscia, la fame, la mancanza dei bisogni più essenziali e la morte.
Allora e solo allora, dopo essere tornato a me stesso e ai miei veri limiti, alla mia schiacciante responsabilità e al mio dovere nei confronti del popolo algerino che attende giorni più sereni, notti più quiete e un avvenire più promettente, trovo la forza di aggiungere a tutti i miei debiti, il riconoscimento della vostra venerabile istituzione universitaria, verso la quale mi sentirò onorato di essere debitore per il futuro.
In segno di fedeltà, faccio dinanzi a voi il giuramento solenne di servire con dedizione la pace e di dedicare la mia vita a questo servizio, e di tentare di mantenere con tutte le mie forze la promessa dell’amore del prossimo che faccio ogni giorno a me stesso.
E per concludere il mio discorso a Roma, la città eterna, simbolo e faro del cristianesimo, non posso fare a meno di dire: «Pace in terra agli uomini di buona volontà». Che a tutti sia concesso di esserlo!
Vi ringrazio.


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