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TIMOR EST
tratto dal n. 10 - 1999

MISSIONI. La lunga presenza delle suore Canossiane nell’isola

«Loro ci aiuteranno dal paradiso»


La testimonianza di suor Clementina, per sessant’anni missionaria a Dili (è dovuta fuggire nel settembre scorso), aiuta a capire la situazione nel martoriato Paese. Il lavoro delle Canossiane per assistere i più poveri, le loro scuole, l’ insegnamento del Catechismo di San Pio X. La simpatia del popolo verso i missionari in un Paese dove i cattolici sono diventati maggioranza sotto il governo musulmano di Giacarta e non sotto quello del Portogallo. Poi le distruzioni, le stragi, le consorelle uccise… Intervista


di Paolo Mattei


Suor Clementina Vassena vorrebbe tornare a Dili. Probabilmente farebbe fatica a riconoscerla, adesso. Una città devastata, un volto sfigurato. Ma è una città che lei ama e dalla quale è stata costretta a fuggire l’8 settembre scorso. Vorrebbe tornarci, lo dice, e si rimane un po’ sorpresi davanti a questa suora ottantatreenne alla quale, per tutto quello che le è capitato nella vita, se fosse possibile regaleresti anni di ben meritato riposo. Lei li rifiuterebbe, te lo rivelano i suoi occhi vivi che si stringono in un sorriso di bambina, la sua figura esile e gentile ma, t’accorgi, piena di una forza e una fermezza straordinarie. Ora è a Roma, nella curia generalizia delle suore Canossiane, la Congregazione di cui suor Clementina fa parte, fondata nel 1808 da santa Maddalena di Canossa, e presente a Timor con le sue missionarie dal 1879. Suor Clementina, nata nel 1916 a Malgrate, in provincia di Lecco, partì in missione per Timor Est cinquantanove anni fa, nel 1940. E da allora la sua vita ha avuto un percorso per così dire “centripeto”, gravitazionale attorno a Timor, pieno di arrivi e partenze dall’isola. Ma ad ogni partenza lei si è congedata da quella terra con un arrivederci, mai con un addio. Anche due mesi fa è stato così. Quando lei assieme ad altre consorelle è stata costretta a lasciare l’isola. Alcuni giorni dopo, il 26 settembre, era domenica, due canossiane, suor Erminia Cazzaniga e suor Celeste de Carvalho Pinto, là sono state uccise.

La vita delle Canossiane a Timor Est. È riconoscibile suor Erminia Cazzaniga, la suora uccisa il 26 settembre 1999, durante il suo lungo apostolato nell’isola. Nella foto, suor Erminia è seduta tra le due bambine.

La vita delle Canossiane a Timor Est. È riconoscibile suor Erminia Cazzaniga, la suora uccisa il 26 settembre 1999, durante il suo lungo apostolato nell’isola. Nella foto, suor Erminia è seduta tra le due bambine.

A Timor Est per la prima volta
«Andai in missione a Timor Est nel 1940, cinquantanove anni or sono. A Dili non c’erano che poche case. C’era la cattedrale, la casa del governatore… Tutte le altre abitazioni erano capanne. All’epoca la Congregazione non aveva che una casetta a Manatuto, sessanta chilometri a est di Dili, e un’altra a Soibada, nell’interno dell’isola, a sud-est della capitale. Nel dicembre dell’anno successivo c’era già la guerra ed entrarono a Timor gli australiani. Nel 1942 i giapponesi invasero l’isola per combattere gli australiani e i portoghesi. Una mattina presto, alle cinque, era dicembre, il vescovo di Dili mandò il suo segretario a portar via le donne e i bambini. Ci trasferirono dapprima in un ospedale, poi partimmo per l’Australia». Fu la prima partenza di suor Clementina, ed ebbe, da come la racconta, connotati rocamboleschi, drammaticamente comici: «Gli australiani, sollecitati dal vescovo, ci vennero a prelevare con delle grandi navi da guerra. Ricordo che per salire su una di esse, un po’ per la fretta, un po’ per la difficoltà – non era una nave da crociera ed erano le tre di notte –, dovendo procedere aggrappata a un corrimano di corda, persi tutto quel poco che avevo portato con me…». La suora parla poi della permanenza in Australia, di quando lei e le sue dieci consorelle furono portate in un campo di concentramento dove convissero con trecento sfollati timoresi, portoghesi, indiani, dormendo su pagliericci, dentro tende o catapecchie di legno; accenna, ridendo pudicamente, alle scene a dir poco cameratesche di cui fu spettatrice in quei mesi di coabitazione coatta. È però un racconto leggero il suo, dal quale non emergono i tratti più drammatici che pure, si può immaginare, risulterebbero tutt’altro che iperbolici in una esposizione delle vicende che fosse soltanto un po’ più dettagliata. Con la medesima levità descrive tre mesi trascorsi in un bosco, gli agguati tesi dalla malaria, la visita del delegato apostolico, lo spostamento a Sidney con una sistemazione migliore, il ritorno nel campo di concentramento… Tutto questo nell’attesa del rientro a Timor. Tutto questo insegnando il catechismo e facendo scuola ai bambini che erano con lei e le sue consorelle.

Cristiani a Timor Est
«L’8 dicembre del 1945, festa dell’Immacolata Concezione di Maria, tornammo a Timor. Manatuto era stata distrutta dalla guerra. Anche Soibada, che è il centro originario del cristianesimo di Timor Est, era malmessa. Ci stabilimmo là. I giapponesi se n’erano andati. C’erano i soldati portoghesi, stettero là un po’ di tempo. Dovevamo ricominciare tutto, costruire nuove case, riorganizzare la scuola, prendere contatto con i sopravvissuti, con gli sfollati che tornavano… Nel ’46 dovetti ripartire per Hong Kong, dove c’era il nostro Centro missionario, la nostra prima fondazione all’estero risalente al 1860. Là professai i voti perpetui».
Suor Clementina torna a Timor Est nel 1948. «Andai a Ermera, che si trova sulle montagne dell’interno dell’isola, a sud-ovest di Dili. Non possedevamo una nostra casa, eravamo ospiti in case d’altri. Iniziammo la scuola con i bambini delle elementari, ai quali insegnavo nella loro lingua, il tetum, e in portoghese, che avevo imparato anni prima a Lisbona. La nostra Congregazione a quel tempo non possedeva una sua scuola. Noi eravamo in un istituto gestito dai sacerdoti secolari e controllato dal governo coloniale. Nel 1950 mi trasferii a Dili. Là avevano bisogno di noi, ci chiedevano di andare per organizzare la scuola. Ma non riuscivano a darci una sistemazione un po’ più che provvisoria. Allora ci stabilimmo in una casetta e cominciammo da lì».
A questo punto la suora canossiana ferma un momento il ricordo sulla gente che incontrava, indigente per la quasi totalità, e per la quasi totalità non cristiana: «I timoresi erano poveri. I ricchi erano un’esigua minoranza e provenivano quasi tutti dal Portogallo. Possedevano le terre in cui lavorava il popolo. Coltivazioni di caffè, riso, granturco, cacao. Le stesse colture di oggi, del resto. All’epoca, negli anni Cinquanta, i cristiani erano pochi, circa il venti per cento di una popolazione per la maggior parte costituita da animisti. Questa percentuale si è mantenuta grosso modo invariata fino alla seconda metà degli anni Settanta. Basti pensare che negli anni Cinquanta in tutta Timor Est c’era una sola parrocchia, a Dili. La presenza cristiana era affidata in gran parte alle missioni. Solo anni dopo fu costituita un’altra parrocchia, a Baucau». Eppure le purtroppo scarse e raccogliticce conoscenze che di questo Paese circolano in Occidente danno l’idea di un cristianesimo forte, i giornali forniscono percentuali molto diverse, diametralmente opposte… «Certo, oggi la situazione è cambiata, i cattolici sono la maggioranza. Ma le proporzioni si invertirono repentinamente solo all’epoca dell’invasione indonesiana, nella metà degli anni Settanta. Il governo di Giacarta impose anche ai timoresi la legislazione che regolamentava le appartenenze religiose nello Stato indonesiano. Impose la pancasila, un accordo tra cinque filosofie di vita, che sono messe in relazione con cinque religioni specifiche: cattolicesimo, protestantesimo, islamismo, buddismo, induismo. In questo ventaglio di diverse confessioni in cui si era obbligati a operare una scelta, i timoresi optarono in massa per il cattolicesimo. Fu certo una preferenza ispirata dalla simpatia che nutrivano per il cattolicesimo, simpatia suscitata anche dalla presenza missionaria. Ma solo allora si battezzarono in massa, solo dopo l’imposizione della pancasila». Quasi un paradosso, quindi. Si può dire che non c’è la “cattolicissima” colonizzazione portoghese all’origine dell’alto numero dei convertiti timoresi, bensì l’invasione da parte di un popolo, l’indonesiano, non certo riconoscibile come cattolico… «Paradossalmente è così. In effetti a Timor la colonizzazione lusitana, per lo meno negli anni dei quali ho conoscenza diretta, è stata, da questo punto di vista, molto discreta. I portoghesi sono sempre stati molto rispettosi della vita e del lavoro delle missioni ma non hanno speso grandi energie per promuoverle».

«I bambini ci guidavano»
Comunque andassero le cose, le missioni c’erano e portavano avanti la loro opera. Suor Clementina ricorda la sua vita con la gente di Timor Est, il suo lavoro di insegnante con i ragazzini poveri, il catechismo, gli incontri con le famiglie, molte delle quali vivevano tra le montagne dove era difficile raggiungerle: «La vita quotidiana era molto semplice. Noi eravamo nella scuola con i bambini e a loro insegnavamo il catechismo usando il libretto di San Pio X. E l’insegnamento del catechismo era l’occasione più bella di ogni giornata. Anche perché erano proprio i bambini il tramite più immediato che avevamo con la realtà circostante. Erano loro che ci tenevano al corrente delle cose più significative che succedevano tra la gente, erano loro a dirci se c’era qualcuno in difficoltà, qualcuno che aveva bisogno d’aiuto. Attraverso di loro eravamo presenti là dove eravamo necessarie… I bambini ci guidavano nella vita di tutti i giorni».
Un gruppo di rifugiati presso le suore Canossiane a Baucau in una foto del 5 settembre 1999

Un gruppo di rifugiati presso le suore Canossiane a Baucau in una foto del 5 settembre 1999

Per suor Clementina non si profilò nemmeno allora, negli anni Cinquanta, un destino stanziale. Si trovò di nuovo in corsa, dapprima dentro Timor, ad Ainaro, sulle montagne a sud-ovest di Dili, dove si fermò dal 1954 al 1960; poi, cambiando emisfero, ancora verso l’Italia, a Vimercate, dove risiedette per nove anni lavorando come madre maestra delle novizie che si preparavano ad andare in missione nel mondo. Successivamente fu di nuovo in viaggio, lontano, in Argentina. Ma nel cuore di questa piccola suora viveva sempre il desiderio di tornare a casa, a Timor Est. «Ci tornai nel 1973, tre anni prima dell’indipendenza dell’isola dal Portogallo. Mi ricordo che si formarono tre partiti – latori di diverse ipotesi di soluzione istituzionale per l’imminente trapasso all’indipendenza – che litigavano in continuazione fra di loro. Il partito più moderato, il Fretilin, si trasformò, dopo l’occupazione indonesiana, in un’organizzazione armata per l’indipendenza. Successivamente, dal ’75 al ’77, risiedetti ancora per due anni fuori Timor Est. Vi ritornai stabilmente il 17 febbraio 1977. Mi fermai a Dili». La memoria vivida di suor Clementina sembra incapace di rimuovere anche i particolari più sottili, quelli che un “pressappoco” potrebbe agilmente compendiare. Ricorda i giorni, i nomi delle consorelle, i luoghi, e tutte le circostanze che nel suo caso, c’è da giurarci, sono tantissime e disseminate per l’intero pianeta.

Salvi dopo la tempesta
«Nel ’77 a Dili eravamo cinque, io e quattro consorelle. Fino a maggio fummo ospitate in casa del vescovo. La gente ci accolse calorosamente. Eravamo come amici ritrovati salvi dopo una tempesta. Allora tutti si misero ad aiutarci a ricominciare di nuovo, un’altra volta. Ricevemmo settecento richieste di iscrizione alla scuola che, tra l’altro, non c’era più. Tutti volevano la scuola delle madri Canossiane. Alla difficoltà rappresentata dalla folla di bambini che voleva fare la scuola da noi, si aggiungeva quella della lingua: mutato governo, mutato idioma. Dovevamo insegnare in indonesiano. Dovetti imparare quella lingua, assolutamente diversa dal tetum timorese. Poi c’erano i molti orfani e le vedove che ogni guerra non manca di abbandonare nella disperazione. Racimolammo dei soldi per costruire casette di legno in cui potessero abitare». Viene naturale domandarsi se i cristiani, i missionari abbiano subito persecuzioni dai nuovi occupanti indonesiani. «Noi, in questi venticinque anni, non abbiamo subito nessuna persecuzione religiosa. Ora qualcuno, anche in Europa, dice che noi abbiamo appoggiato attivamente la causa dell’indipendenza dall’Indonesia. In realtà noi non abbiamo mai parlato di politica. Devo dire che quando avevamo problemi per la scuola, i governanti indonesiani ci hanno sempre aiutato. È chiaro che non possiamo condividere la loro filosofia di vita. Però, per quello che ho vissuto in questi anni, posso dire che la Chiesa è stata libera. Basti pensare che a Dili ci sono quattro parrocchie in cui le messe domenicali sono gremitissime… Nel ’75 a Timor Est eravamo cinque suore della Congregazione. Ora, tra novizie e professe, siamo novanta di cui solo sei italiane». Novanta religiose che si sono trovate coinvolte in un disastro terribile… «Non ci aspettavamo una cosa così, non ce la saremmo mai immaginata. Certo, tensioni ce n’erano… I giovani andavano a votare per il referendum con lo zaino in spalla, con l’intenzione di fuggire subito dopo… Ma che si sarebbe arrivati a tanto sangue e a tante distruzioni…». Sono le ultime ore della permanenza di suor Clementina a Timor Est, con la guerra che incombe sulle case, con i massacri che insanguinano la terra.

Le ultime ore a Timor Est
«Le ultime notti non si poteva dormire, si sentiva che le milizie si avvicinavano, che stavano arrivando. Al mattino di lunedì 6 settembre, alle sei, siamo andate a messa dal vescovo Belo. Il giorno prima, domenica 5, alla messa del vescovo c’era molta meno gente del solito. Normalmente ci sono migliaia di fedeli, quel giorno no. Quel lunedì, durante la messa, ci accorgemmo che stavano arrivando. Il vescovo ospitava mille rifugiati; noi ne accoglievamo circa cinquecento tra donne e bambini. Allora ci siamo nascoste. Io dentro lo sgabuzzino delle scope. Abbiamo sentito dei rumori assordanti. Era il fragore dei vetri frantumati dai sassi. I miliziani sono entrati anche nella casa del vescovo. Mi hanno detto che Belo voleva presentarsi a loro ma i giovani della diocesi glielo hanno impedito… I miliziani hanno dato fuoco alla cappella. A un certo punto è apparsa la polizia che ha portato via Belo. Noi siamo fuggite. I miliziani sono entrati nella nostra casa e ci hanno cacciato. Ho visto un fiume di gente che andava con le mani alzate verso il mare… E anche noi con loro… Poi l’autista del vescovo di Baucau ci ha condotto con un furgoncino al commissariato centrale di polizia di Dili. Là ci siamo trovate assieme ad altri sacerdoti. Ci aspettavamo di trovare anche Belo ma non c’era. Quella notte dormimmo in terra o sulle sedie. Eravamo convinte che sarebbe finito tutto in fretta, che saremmo tornate a casa. E invece, dopo un’altra giornata di attesa, l’8 settembre un elicottero ci ha portato via da Timor Est». Suor Clementina ferma qui il suo racconto e, dopo un momento di silenzio, con poche parole ricorda suor Erminia, con cui visse quattro anni a Dili, parla della sua generosità instancabile con la gente di Timor Est. E ripensa alla riservatezza e alla gentilezza d’animo di suor Celeste, con la quale ha condiviso quotidianamente quindici anni della sua vita. «Ci aiuteranno dal paradiso» sussurra. Che farà ora, suor Clementina? «La volontà di Dio» risponde. Saluta e si allontana, questa suora di ottantatré anni. Gli occhi si stringono in un sorriso, ed è il sorriso di una bambina.


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