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MAROCCO
tratto dal n. 10 - 1999

ANALISI. Il Paese che Hassan II ha lasciato dopo quarant’anni di Regno

Un ponte sul Mediterraneo


Un Paese aperto verso la modernità ma che cerca di evitare contraccolpi sociali e non vuole rinnegare le antiche tradizioni. Che dialoga con l’Europa ed è importante nel processo di pace. Il vecchio re, amato dal suo popolo, ha lasciato una pesante eredità...


di Giuseppe Panocchia


Hassan II con il figlio che gli è succeduto sul trono con il nome di Maometto VI

Hassan II con il figlio che gli è succeduto sul trono con il nome di Maometto VI

Re Hassan II è uscito dalla scena con discrezione in un pomeriggio di luglio all’ospedale Avicenna di Rabat. Ha portato a compimento la missione che si era prefisso: portare il Marocco nel XX secolo e attrezzarlo a raccogliere e sostenere le sfide dello sviluppo e dell’innovazione in un mondo sempre più interdipendente.
Il Marocco dei nostri giorni ha in comune con quello di cui il sovrano prese la guida nel 1961 la bellezza dei paesaggi, il fascino delle città imperiali, il retaggio di una civiltà che ha lasciato la sua impronta nella storia, la tradizionale ospitalità delle sue genti.Ma non più il tessuto civile ed economico.
I risultati più evidenti sono la riunificazione e stabilizzazione del Paese, la costruzione di uno Stato in senso moderno attraverso la creazione delle basi dello Stato di diritto e l’avvio di un processo di crescita democratica, di un progresso civile ed economico senza precedenti, e attraverso il prestigio e l’autorevolezza acquisiti nell’abito della comunità internazionale. Certo, il processo avviato da re Hassan II ha ancora strada da percorrere. I giovani e l’occupazione, la riduzione degli squilibri sociali e la lotta alla corruzione, l’efficienza dell’amministrazione e la ricerca di forme democratiche più avanzate sono priorità già additate dal sovrano scomparso: suo figlio, il nuovo re, Maometto VI, le ha già fatte proprie.

Re Hassan II: sovrano costituzionale e “commendatore dei credenti”
A spiegare i risultati e la longevità politica di re Hassan II non basta la leggendaria baraka (la parola che in Marocco esprime il favore divino) attribuitagli per essere scampato agli attentati degli anni Settanta, né una gestione “forte” del potere pur talvolta contestatagli. L’autentica emozione popolare che ha accompagnato i suoi funerali – «i marocchini lo collocavano al di sopra di tutto, lo rispettavano e lo amavano», ha scritto Tahar Ben Jelloun – lo testimonia.
Hassan II ha saputo interpretare al meglio il sentire profondo del suo popolo, le sue aspirazioni fondamentali, introducendo con gradualità le riforme necessarie a far crescere il Paese e migliorare le condizioni di vita della popolazione, evitando per quanto possibile traumi o contraccolpi. Nel perseguire il suo disegno modernizzatore si è avvalso degli strumenti che la storia del Marocco gli assegnava, con la lucidità cartesiana dei suoi studi francesi, ma anche con la sensibilità derivante dalla severa educazione all’islam e al culto delle tradizioni storico-culturali del Marocco.
Fondamento e chiave di volta della sua azione è stata l’abilità con cui ha saputo avvalersi di un sistema che vede assommarsi nella persona del re i poteri e i doveri del sovrano costituzionale e del capo religioso dei musulmani marocchini, “commendatore dei credenti”.
In Marocco il capo di Stato affida al governo la gestione del Paese, sulla base delle maggioranze esistenti in Parlamento, ma il “commendatore dei credenti” è legato direttamente al suo popolo da una sorta di contratto, consacrato dal solenne giuramento di fedeltà che ogni anno si ripete. Il re si presenta al suo popolo – simbolicamente rappresentato da un migliaio di persone – schierato in un fronte compatto, su più file. Mano a mano che il sovrano procede, la folla si apre riconoscendo il discendente del Profeta e rinnovandogli la sua fedeltà. Con questo rituale, come accadeva ai tempi dei primi califfi, il popolo affida le proprie sorti al re, discendente del profeta Maometto, riconoscendo in lui le doti di saggezza e di religiosità indispensabili a guidarlo per il meglio. In cambio, il re deve proteggerlo.
Può così accadere – ed è accaduto – che il governo costituzionale di sua maestà sia sconfessato o scavalcato dal “commendatore dei credenti”, perché l’impegno da lui assunto nei confronti del popolo fa premio su tutto, Costituzione compresa.
Il re, insomma, è l’arbitro del gioco politico, ma anche il protagonista.
Questo doppio ruolo è stato utilizzato da Hassan II per spronare la classe politica marocchina, per dare sfogo al disagio popolare a fronte dei sacrifici imposti dal risanamento finanziario del Paese, per tenere viva tra i giovani la prospettiva di una occupazione, per tenere lontano il rischio di contagio dell’integralismo islamico.
È quella “osmosi tra trono e popolo” – così il re la definiva – che ha reso difficile per lo scomparso sovrano comprendere le critiche degli europei, considerate frutto di un eurocentrismo culturale, incapace di riconoscere le peculiarità di altre civiltà.
E quegli aspetti del cerimoniale marocchino, colti dagli occidentali come qualcosa di feudale, erano per lui né più né meno che un rituale, come le riverenze nelle corti d’Europa, con la differenza – in suo favore – che l’atto di deferenza era rivolto non alla persona del re ma al “commendatore dei credenti”.
In jellaba o con un abito di un creatore di moda italiano, Hassan II ha saputo interpretare e utilizzare impeccabilmente il proprio doppio ruolo per modernizzare il Marocco, attento sempre a salvaguardare le tradizioni e il rispetto dell’islam, religione di Stato.
Personaggio complesso e controverso, ha compiuto per il suo Paese scelte importanti. I ripetuti interventi dall’inizio degli anni Novanta a favore di un’alternanza di governo, giudicata necessaria per dare nuovo slancio al Paese, sono culminati di recente nella nomina di un governo a guida socialista. Se è stato suo padre, Maometto V, a porre fine al protettorato francese e a condurre il Marocco all’indipendenza, la costruzione del Marocco come Stato moderno è stata opera di Hassan II.

Tradizione e modernità: la specificità del Marocco
In ogni campo, la sua ricetta è stata la ricerca di un punto di equilibrio, che permettesse di contemperare e conciliare i diversi aspetti della società marocchina.
Un’immagine può forse sintetizzare più di molte parole le linee ispiratrici dell’azione dello scomparso sovrano in quasi quarant’anni di Regno: un’imponente moschea eretta sulle acque dell’Atlantico con le tecnologie più sofisticate, dove le grandi tradizioni degli artigiani marocchini si sono perpetuate, sul lembo più occidentale della “terra dell’islam”, Casablanca, la città dove il re del Marocco – discendente di Maometto e “commendatore dei credenti” – aveva accolto nell’estate del 1984 Giovanni Paolo II.
L’opera, fortemente voluta da Hassan II, materializza modernità e tradizione, le componenti essenziali di una “specificità” marocchina, in cui dati geografici, etnici, religiosi e culturali si fondono, facendo sì che il Marocco sia Africa ma guardi all’Europa, sia arabo ma berbero, sia musulmano ma non intollerante, rivendichi il suo passato ma sia aperto al nuovo. Di questa specificità il re, che si compiaceva di definire il suo Paese terra di incontro e di tolleranza, raffigurando i marocchini come un albero con le radici in Africa e la testa in Europa, è stato convinto propugnatore in un’epoca in cui la globalizzazione spinge alla regionalizzazione e questa conduce a ricercare tra i Paesi minimi comuni denominatori in cui le diversità storiche o culturali tendono a scomparire.
Consapevolezza e fierezza di questa complessità e quindi specificità albergano invece nell’animo di ogni marocchino. Coesistono in lui con la convinzione di saper coniugare insieme tradizione e modernità come ogni altra apparente contraddizione: è quella che acutamente Tahar Ben Jelloun ha descritto come «un’utopia che i marocchini portano nello spirito».
Che il re del Marocco non solo ne fosse conscio, ma ne facesse un cardine della sua politica estera torna a suo merito, anche se questo è costato passeggere incomprensioni con la Comunità europea.
Ma è proprio questa specificità del Marocco che ha permesso a Hassan II di rendere il Marocco un protagonista della scena internazionale, facendone un punto di riferimento fondamentale ma estremamente riservato in molte delle travagliate vicende africane e, soprattutto, mediorientali.
La diplomazia di Hassan II è stata sempre funzionale alla ricerca del risultato, senza mai indulgere a esigenze di immagine. Il re del Marocco preferiva fare piuttosto che apparire, convinto che solo al riparo dai riflettori si potesse dialogare costruttivamente senza condizionamenti ideologici.

Il sovrano del Marocco con il leader palestinese Arafat nel 1997

Il sovrano del Marocco con il leader palestinese Arafat nel 1997

L’uomo del dialogo tra Israele e gli arabi
Nessun intervento, ma solo l’impegno a facilitare le mediazioni possibili: così, pochi giorni prima di morire, re Hassan II definiva in un’intervista quanto aveva fatto per avvicinare gli israeliani ai palestinesi e al mondo arabo.
È noto che i primi contatti tra arabi e israeliani siano avvenuti tramite il Marocco, che re Hassan II sia stato, dopo Sadat, il primo capo di Stato arabo a ricevere un primo ministro israeliano – Shimon Peres ad Ifrane nel 1986 –, che Casablanca sia stata chiamata a ospitare nel 1994 la prima Conferenza sulla cooperazione economica in Medio Oriente, con una partecipazione quasi plebiscitaria dei governanti arabi e israeliani. Restano invece avvolti nel riserbo una miriade di episodi in cui – direttamente o tramite emissari personali – il sovrano ha svolto una paziente e silenziosa opera di convincimento o di ricucitura. I titoli che lo avevano portato alla presidenza del Comitato per Gerusalemme, creato dall’Organizzazione della conferenza islamica, le doti di saggezza, moderazione e realismo e il senso politico erano valsi a Hassan II un prestigio personale e una rete di contatti che si potevano invidiare, e che nei passaggi più delicati potevano rappresentare una risorsa preziosa.
La moderazione e il realismo in politica estera – innanzitutto nel contenzioso arabo-israeliano – erano il corollario di un atteggiamento tollerante e rispettoso nei confronti della piccola comunità ebraica marocchina. Maometto V si era rifiutato di applicare le misure antisemite emanate dal governo di Vichy e l’esodo della maggioranza degli ebrei dal Marocco verso Israele avvenne soprattutto per timori o per scelta, senza essere ostacolato. A Rabat colpisce la contiguità dei luoghi di culto delle tre grandi religioni rivelate – islam, ebraismo e cristianesimo –, la convivenza tra i marocchini musulmani o ebrei che siano. D’altronde, nelle ricorrenze ufficiali, a presentare gli auguri al re insieme alle alte cariche del Paese e al corpo diplomatico, ci sono, fianco a fianco degli ulema, i rabbini, i capi della comunità ebraica e i vescovi cattolici.
E quanto al futuro di Gerusalemme, il re del Marocco si è sempre adoperato per ricercare soluzioni che rispettassero e garantissero la sacralità della Città Santa per i fedeli delle tre religioni rivelate, vedendo in essa un patrimonio di tutta l’umanità, non catalogabile nelle ristrette forme giuridiche della sovranità statuale. E su questo terreno Hassan II e il Vaticano – di cui è stato un interlocutore privilegiato – si sono spesso trovati affiancati. Eppure, si trattava di trovare schierati assieme “il capo dei miscredenti” (per i musulmani, il Papa) e “il capo degli infedeli” (il califfo, “commendatore dei credenti” come Hassan II, per i crociati), come aveva commentato il sovrano del Marocco accogliendo a Casablanca Giovanni Paolo II.

L’islam marocchino
A differenza di altri Paesi arabi, la via della modernizzazione non è passata in Marocco per un’emancipazione dello Stato dalla religione. Hassan II ha anzi fatto di una lettura misurata ed in qualche forma evolutiva dell’islam – attento ai valori della persona umana ed aperto al progresso – e del rispetto formale dei suoi precetti, un pilastro della propria azione riformatrice e, indirettamente, un ammortizzatore sociale.
All’emergere allarmante del fenomeno dell’integralismo islamico, violento e intollerante, lo scomparso sovrano ha così contrapposto un islam tollerante e dialogante, che promuove il progresso e ripudia la sopraffazione, rivendicando al tempo stesso orgogliosamente a ogni musulmano, a cominciare da lui stesso, il diritto-dovere d’essere fondamentalista, cioè osservante e praticante.
Quanto all’estremismo religioso, l’importante era non creare martiri e lasciare aperto agli integralisti uno sbocco parlamentare senza che potessero però invocare la rappresentanza esclusiva dell’islam, patrimonio di tutti i marocchini.
Nel delicato campo del diritto di famiglia e della condizione femminile, laddove i vincoli della religione sono più rigidi, questo approccio ha consentito dei passi avanti nella tutela della donna: Hassan II si è spinto il più lontano possibile, ritenendo che solo quanto espressamente proibito dal Corano o dalla sharia è immodificabile. Alla commissione di donne marocchine cui annunciava le riforme introdotte, spiegò significativamente che quanto all’interpretazione della legge coranica le donne potevano stare tranquille perché in Marocco gli ulema rifuggono dagli estremismi. Riferendosi poi alla poligamia, formalmente legittima, commentò che ormai è circondata da tante condizioni «che bisognerebbe essere suicidi per praticarla».
Per lanciare un preciso messaggio sul valore della donna nelle società musulmane, alla solenne inaugurazione della grande moschea di Casablanca, nell’agosto del 1994, una poetessa marocchina lasciò il matroneo e declamò, secondo un’antica tradizione araba, un poema. L’assemblea riuniva rappresentanze di tutti i Paesi musulmani, ed anche rappresentanti autorevoli della Chiesa cattolica, dell’ebraismo mondiale e delle confessioni cristiane. Si temette che la delegazione iraniana si allontanasse. Ma il re ricordò che Maometto nella sua casa di Medina – “la prima moschea dell’islam” – amava ascoltare declamare una poetessa e ogni minaccia di protesta rientrò.
A questi gesti, mai improvvisati e puntigliosamente preparati, Hassan II ricorreva sicuro di interpretare un comune sentire del suo popolo e certo del loro impatto mediatico.
Ma l’inaugurazione della moschea di Casablanca fu anche l’occasione per presentare al mondo il “vero islam” – che nella visione di Hassan II rifuggiva dalla violenza e dall’oscurantismo – da opporre a quello che insanguinava la vicina Algeria e le città europee. Andava – e va – scongiurata la contrapposizione della civiltà europea a quella arabo-musulmana in nome della religione; va fermato il riemergere dello “spirito delle crociate”: per costruire un futuro di collaborazione, indispensabile al progresso ed al benessere delle opposte sponde del Mediterraneo, occorre piuttosto abituarsi a conoscersi e rispettarsi sempre più profondamente. È stato un punto centrale per il re scomparso. Ne ebbi personalmente la riprova in occasione di una sciagura aerea presso Agadir, a metà degli anni Novanta, in cui persero la vita più di cinquanta persone, marocchini ed europei. Fu impossibile distinguere tra loro i poveri resti di musulmani, ebrei e cristiani e fu giocoforza seppellirli insieme. Le resistenze degli ulema marocchini furono superate rapidamente, ci volle di più a convincere i rabbini venuti dall’Olanda. Un’area del cimitero venne scorporata per consentire questa indiscriminata sepoltura ed in un afoso pomeriggio d’agosto i rappresentanti delle tre religioni discese da Abramo si trovarono insieme a recitare le preghiere dell’estremo saluto. Dietro di loro, i familiari delle vittime. Ma quando il feretro venne calato nella tomba i tre gruppi si confusero fra loro e fu toccante vedere tutti affratellati nel dolore. Con una personalità marocchina che mi era vicina commentammo: è possibile dover arrivare alla fine del viaggio per scoprire quanto abbiamo in comune? Oggi, in quel cimitero, un piccolo monumento, realizzato dal governo, con l’elenco delle vittime inciso in caratteri arabi, ebraici e latini, copre quella sepoltura.
Le spoglie di re Hassan II riposano a Rabat accanto a quelle del padre, nel mausoleo da lui dedicato a Maometto V. Gli imam si alternano di fronte ai sacelli leggendo il Corano.
Quest’uomo forse non si scandalizzerebbe se anche un prete ed un rabbino li affiancassero per raccomandarlo con le loro preghiere al comune Dio d’Abramo.


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