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ITALIA
tratto dal n. 09 - 1999

POLITICA. Alcune riflessioni a margine della polemica sulla par condicio

Lasciate che i “tele-elettori” vengano a me


Il disegno di legge contro gli spot è un provvedimento tagliato su misura. Una legge ad personam che ha riaperto il dibattito sull’influenza del piccolo schermo nelle scelte degli elettori e nella politica degli eletti


di Mauro Mazza


Domandina facile facile. Qual è il primo e più famoso duello televisivo tra candidati che la storia ricordi? Risposta. Il duello Nixon-Kennedy nella campagna presidenziale 1960. Seconda domanda, un pochino più difficile. Quale fu il primo spot elettorale nella storia della tv e della politica? Risposta. Lo spot che Eisenhower (1952) confezionò per la sua fortunata corsa alla Casa Bianca. Un tale gli diceva: «I democratici sostengono che gli americani non sono mai stati così bene». E il candidato presidente, prontissimo: «Ma come può essere vero, se l’America ha un debito per miliardi di dollari, i prezzi sono raddoppiati, le tasse ci divorano e stiamo combattendo in Corea? Non è vero che stiamo bene ed è ora di cambiare!».
Dalla storia della tv americana alla cronaca politica di casa nostra. Il governo D’Alema ha varato un disegno di legge cosiddetto antispot, col divieto ai partiti di farsi pubblicità televisiva durante la campagna elettorale. Perché lo ha fatto e perché lo ha fatto in fretta e furia, come fosse un’assoluta priorità, tra le elezioni europee di giugno e le ferie d’agosto? Risposta. Lo ha fatto perché è convinto che Berlusconi ha vinto le elezioni grazie alla pioggia di spot che inondarono i canali Mediaset fino alla vigilia del voto. Lo ha fatto nella speranza di impedire, così, che Berlusconi vinca anche la prossima volta. Insomma, trattasi di un provvedimento tagliato su misura, di una legge ad personam.
Silvio Berlusconi e Massimo D’Alema ospiti di Porta a porta

Silvio Berlusconi e Massimo D’Alema ospiti di Porta a porta

Strano Paese, il nostro. Dove un autorevole esponente del centrosinistra, l’ex capo dello Stato Francesco Cossiga, chiama il leader dell’opposizione “l’Anticristo” e, il giorno dopo, lo definisce “il Puffo cattivo”. Da Soloviev a Gargamella. Soltanto in uno strano Paese il leader dell’opposizione, padrone delle tv commerciali e anche editore, in quest’ultima veste pubblica e diffonde sia Il libro nero del comunismo sia Kosovo, ultima opera del capo del governo Massimo D’Alema. Il quale, per chiudere il cerchio delle stranezze (altro che Paese normale), se da premier considera immorale e impensabile che gli altri partiti diano i loro soldi alle tv berlusconiane per far passare i loro spot, da scrittore non sembra affatto preoccupato che proprio in quelle tasche finisca la cospicua quota del prezzo di copertina spettante all’editore.
In un simile contesto, articolare un qualche ragionamento non è facile. Ma proviamo lo stesso. Ormai è inimmaginabile una comunicazione politica che non passi attraverso la televisione e che non occupi spazi sempre maggiori, anche oltre gli angusti minutaggi dei telegiornali. La realtà è questa. E non è detto che si tratti di una realtà negativa. Proprio grazie alla trasformazione della tv nella principale piazza della politica, per i partiti si è moltiplicata la possibilità di comunicazione. Ora, infatti, i candidati, gli slogan e i programmi riescono a raggiungere fette di cittadini-elettori che a lungo erano rimaste escluse dal circuito dell’informazione. Ecco perché la sfida antispot, motivata dalla paura, acquisisce fatalmente un retrogusto passatista, un agro sapore di nostalgia dei tempi andati.
Ma la politica è ormai cambiata, irreversibilmente. Perché, prima ancora, è cambiato il mondo. Idee forti, scomparse. Masse e popolo non ci sono più. Al loro posto, il pubblico e la ...ggente. La politica ha scelto la televisione (o dalla televisione si è lasciata prendere) perché non esiste più altro modo per raggiungere tutti. Gli altri passaggi sono ostruiti, interrotti, inagibili. I messaggi della politica si somigliano tutti. Perché a confezionarli sono i professionisti del marketing, mica gli intellettuali organici o i direttivi di partito riuniti nottetempo in salette fumose dai velluti consunti.
Del resto, anche i protagonisti del teledibattito, prima di salutare gli spettatori e rispondere alle domande del bravo presentatore, passano dalla stessa truccatrice, che spennella sulle loro facce la stessa cipria colorata. Inevitabilmente, poco dopo, si ritrovano lì, sotto i riflettori, a usare le stesse parole e a fare gli stessi gesti, come ha loro insegnato il consulente per l’immagine. Accade così perché da tempo tutti bevono la stessa acqua, dallo stesso stagno.

La progressiva scomparsa dei partiti dalle piazze, la loro ritirata dalle pieghe della società, ha esaltato il momento elettorale. Prima ogni cosa si muoveva lentamente, impercettibilmente. Il voto era il prodotto di un sentimento di appartenenza, di adesione a un ideale. La preferenza era data per convinzione o per amicizia, per abitudine o per bisogno di aiuto. Ora è cambiato tutto. Un partito con una lunga storia e un numero consistente di iscritti, rischia in poche settimane di essere surclassato da un partito leggero, quasi virtuale, ma capace di conquistare molti consensi grazie a una comunicazione efficace, capillare e soprattutto televisiva. È stato così nel 1994 con Forza Italia. E nel 1999 con la Lista Bonino.

Siamo nel mezzo di un processo inarrestabile. Si può anche chiamare laicizzazione della politica, questa metamorfosi che si è palesata da dieci anni (dopo il crollo del Muro) dopo aver eroso come un fiume carsico le fondamenta delle società occidentali; svuotato i partiti di massa; trasformato l’atteggiamento e i comportamenti dei cittadini-elettori. Il peso specifico delle ideologie è diminuito ed infine è scomparso. Le appartenenze culturali – vecchie linee di demarcazione tra i contrapposti versanti della politica – sono state abbattute o dimenticate. Non perché sia venuta meno la volontà di difendere quei confini, ma piuttosto perché sono scomparsi i nemici. È un bene? È un male? Laicamente si può rispondere che è così, e basta. Chi cerca delle visioni del mondo, vada pure al cinema.

La politica s’è ormai rintanata in un ambito più ristretto. Dopo un secolo smodato di illusioni e di follia, ha infine rinunciato alla pretesa assurda di costruire mondi perfetti e paradisi in terra; di regalare agli uomini la felicità; di stabilirne perfino i sogni e i bisogni. Anche per questo, sia benvenuta l’era di nostra signora la televisione. Un elettrodomestico che s’è messo a far da supplente, occupando spazi e ricoprendo ruoli lasciati liberi da altri. La tv s’è fatta, ad esempio, veicolo commerciale. Con la pubblicità ha teleguidato gusti e consigliato acquisti. Poi, col venir meno di antiche certezze, che davano alimento ai partiti tradizionali (sezioni, militanti, comizi, propaganda porta a porta) s’è fatta piazza essa stessa, contaminando la politica, trasformandola a sua immagine. E vennero Santoro e Costanzo, Vespa e Minoli. La politica? Una specie di Grand Hotel. I leader di partito? Gente che va, gente che viene.

Se un simile quadro corrisponde alla realtà odierna della politica italiana, non ha senso né buonsenso la campagna antispot lanciata dal governo al termine di un Consiglio dei ministri di mezza estate. (Per non dire delle contraddizioni più stridenti: «La politica non è una saponetta da vendere», aveva detto D’Alema motivando moralmente il disegno di legge. «Non vogliamo divieti, ma spot gratis per tutti», lo ha corretto Veltroni poche settimane più tardi. Una logica a dir poco scivolosa, una specie di saponetta).
Gli spot possono e debbono essere considerati altrettante informazioni fornite al pubblico (dei consumatori, degli elettori). Nell’era che ha fatto della tv la principale arena della politica, il controllo e il buon uso di questo strumento sono diventati requisiti indispensabili del successo elettorale. Un precursore, De Gaulle, si diceva convinto di possedere due straordinarie armi, a differenza dei suoi avversari: «La tv, perché la so usare; e la tv, perché loro non la sanno usare». (Chissà se un qualche peso, nella lunga durata della sua leadership, avrà avuto per Andreotti la sua capacità mediatica, che lo ha reso per decenni più popolare, più votato e più gradito a gran parte della pubblica opinione, nonostante fossero molti i cavalli di razza, dentro e fuori la Dc).
Eppure, soltanto in tempi più recenti la laicizzazione della politica s’è accompagnata alla personalizzazione della contesa. Anche stavolta, la colpa è della tv. Mai si sarebbero definiti il Pci “partito di Togliatti” o la Dc “partito di De Gasperi”. Ora fioriscono le liste personalizzate: Pannella, Bonino, Dini, Segni, Prodi… E ci sono i partiti di Veltroni e Bertinotti, contro quelli di Berlusconi e Fini. I dibattiti televisivi sembrano svolgersi su un ring, ma lo spettacolo non sempre è assicurato dall’impegno dei contendenti. In compenso, il discorso politico è ridotto a frammenti. Gli studiosi parlano di “effetto clip”, di messaggi in pillole, di jingles radiofonici. Il leader più bravo? Colui che meglio sintetizza e meglio confeziona il cocktail di immagini e parole. È così che nasce lo spot, lo slogan più o meno fortunato. I riflettori, un tempo puntati sul che cosa, oggi guardano al chi e al come.
Viene da dire: «È la politica-bellezza; e non puoi fare nulla per cambiarla». Ma migliorarla sì, forse si può. Perché vi siano ancora margini per trasmettere – anche ma non solo con gli spot – proposte e valori, programmi e messaggi. Perché si riesca a superare lo stallo in cui l’Italia si trascina da troppo tempo, per responsabilità diretta di una classe dirigente più figlia delle scuole di partito che della tv. Leonardo Sciascia sosteneva che «c’è solo una cosa peggiore del fare, o del non fare, una rivoluzione; ed è fare una rivoluzione a metà». Probabilmente è quel che è accaduto da noi. Tornare indietro è impossibile. Andare avanti è difficile.


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