Home > Archivio > 04 - 2007 > I cristiani d’Iraq
RECENSIONE
tratto dal n. 04 - 2007

I cristiani d’Iraq


L’interesse principale di quest’opera sta nella voglia di trasmettere una realtà di sofferenza a un Occidente indifferente e letargico di fronte al destino dei cristiani d’Oriente


di Roberto Morozzo della Rocca


Joseph Yacoub, I cristiani d’Iraq, Milano 2006, Jaca Book, pp. 223, euro 17,00

Joseph Yacoub, I cristiani d’Iraq, Milano 2006, Jaca Book, pp. 223, euro 17,00

Scriveva nel 2004 don Andrea Santoro, il prete romano ucciso a Trebisonda poco più di un anno fa: «In Medio Oriente Satana si accanisce per distruggere la culla in cui siamo stati generati e distruggere con la memoria delle origini la fedeltà a esse. Il Medio Oriente deve essere riabitato come fu abitato ieri da Gesù: con lunghi silenzi, con umiltà e semplicità di vita, con opere di fede, con miracoli di carità, con la limpidezza inerme della testimonianza, con il dono consapevole della vita».
Alla luce di questa pagina si può leggere l’accorato libro di Joseph Yacoub, I cristiani d’Iraq, uscito in edizione francese nel 2003 e ora pubblicato in italiano con ampia revisione e aggiornamento all’ultimo dopoguerra iracheno. Di famiglia assiro-caldea originaria della Siria, Yacoub insegna nell’Università Cattolica di Lione. Il suo libro non è peraltro di tipo accademico.
Yacoub tocca rapidamente tutti i temi principali della storia e del carattere del cristianesimo nello spazio iracheno. Inizia dalla memoria degli “abitanti di Mesopotamia” che ascoltavano Pietro nel giorno di Pentecoste, passa attraverso la grande espansione missionaria della “Chiesa d’Oriente” in India, Cina, Siberia, e finanche a Giava e alle Molucche, e conclude con le vicende degli ultimi anni, ossia il periodo di Saddam e quello dell’occupazione americana. Il pregio del libro non sta in questa affrettata e talora encomiastica retrospettiva di fatti e di glorie del passato. E neppure consiste nell’analisi del tragico presente.
Le diligenti spiegazioni del complesso articolarsi della presenza cristiana nell’Iraq odierno, tra assiro-caldei, siriaci, armeni, latini, melchiti, protestanti, sono un aiuto a capire per chi non ha dimestichezza con il cristianesimo orientale. Come d’aiuto all’esperto e al ricercatore è la mole di documenti e citazioni di cui è intessuta la parte del libro dedicata all’attualità. Ma l’interesse principale dell’opera sta nella maniera in cui essa è scritta, ossia nella foga appassionata, nella partecipazione personale, nella voglia di trasmettere una realtà di sofferenza a un Occidente indifferente e letargico di fronte al destino dei cristiani d’Oriente. Vi sono tratti che avvicinano il lettore ai drammi dei cristiani iracheni, al di là di analisi accademiche scientifiche ma asettiche.
Il destino dei cristiani iracheni è stato largamente determinato dall’Occidente, specie con gli eventi bellici degli ultimi quindici anni. Yacoub svolge quasi un j’accuse. In senso duplice: verso gli europei per i fatti del Novecento (si pensi ai massacri di cristiani nel 1933 utilizzati dal colonialismo britannico); verso gli americani per gli eventi di oggi.
Di certo, il libro merita di essere segnalato in quanto dei cristiani iracheni poco si parla, malgrado si trovino in uno dei momenti più difficili della loro storia bimillenaria. Nel 2003, alla vigilia dell’invasione americana, la loro presenza in Iraq assommava a quasi un milione su 27 milioni di abitanti, poco meno del 4% della popolazione. Come Yacoub riferisce, sotto Saddam essi vivevano in una condizione non ottimale. Dal 1991 in poi il regime aveva annacquato la precedente laicità e l’islam pervadeva sempre più la società irachena. I cristiani dovevano sottostare in molte circostanze alla legge islamica imposta di fatto benché non fosse legge dello Stato. Un cristiano poteva diventare musulmano ma un musulmano non poteva farsi cristiano. Il velo diventava per le donne vieppiù un obbligo. I valori islamici erano esaltati alla televisione e nell’insegnamento. Le scuole venivano impostate come se il Paese avesse un’unica religione. Ma c’era libertà di culto e, se non si faceva politica, si poteva vivere con serenità. Non c’era persecuzione, insomma, ma un certo ordinario disagio dei cristiani in terra d’islam, dove non c’è Stato di diritto o democrazia che pongano adeguato argine alla pressione culturale cui i cristiani sono sottoposti. Nel caso specifico dell’Iraq, le Chiese cristiane sopravvivevano dignitosamente perché riuscivano a presentarsi come elemento di mediazione fra curdi, sciiti e sunniti, ed erano patriotticamente leali al governo. I problemi maggiori erano, dopo il 1991, di natura economica e sanitaria, non politica, a causa delle sanzioni volute principalmente da parte angloamericana (embargo cui la Santa Sede si è sempre opposta). Dal 1991 aumenta la spinta a emigrare e le comunità cristiane perdono soprattutto i giovani istruiti che vanno a lavorare in Occidente.
La catastrofe vera e propria è venuta con l’invasione americana, non desiderata dalle Chiese cristiane che avrebbero preferito continuare a godere della stabilità politica e sociale del regime di Saddam. Non era questione di elogio del principe, ma di garantire condizioni di sopravvivenza per una minoranza che in ogni turbolenza della storia aveva puntualmente subito persecuzioni. La destabilizzazione della società irachena verificatasi a seguito dell’occupazione straniera, fino all’atmosfera di guerra civile che si respira oggi, ha colpito in maniera davvero drammatica i cristiani iracheni, la più inerme e indifesa delle comunità costitutive della nazione mesopotamica. Da Bassora a Mosul è stato un susseguirsi di assassini di cristiani, rapimenti, estorsioni, divieti di esercitare attività economiche non previste dal Corano. Le bombe alle chiese hanno sparso il terrore. Numerosi preti sono stati rapiti e alcuni barbaramente uccisi.
Vi erano due fondamentali condizioni di sicurezza garantite alle comunità cristiane dal Baath di Saddam: che il fondamentalismo islamista non avesse spazio e legalità; che l’Iraq avesse una forma di Stato unitario in cui convivessero popoli e minoranze diverse. I cristiani iracheni, che sono tali da 2000 anni, ossia dai tempi apostolici, si sono sempre sentiti patrioti, anzi i più iracheni di tutti perché discendenti degli antichi assirobabilonesi. Come amano dire: «Noi siamo i primi cristiani d’Iraq, ma anche i primi iracheni». L’occupazione americana ha invece suscitato violentissimi movimenti islamisti; ha scatenato i comunitarismi; ha legittimato ipotesi di spartizione e disintegrazione dell’Iraq, come alternativa alla guerra civile. Gli sciiti hanno colto l’occasione fornita loro dal principio democratico (sono il 60% della popolazione) per sostituirsi ai sunniti nel potere centrale. La democrazia si è concretizzata nel passaggio da un’egemonia sunnita a una sciita. E in Iraq gli sciiti sono più intolleranti dei sunniti in materia religiosa.
Così l’emigrazione cristiana dall’Iraq è aumentata in maniera esponenziale. In tre anni molte comunità si sono dimezzate di numero. Va svanendo una presenza niente affatto trascurabile – si pensi che a Baghdad fino al 2003 c’erano 500mila cristiani su sei milioni di abitanti, con 50 luoghi di culto (25 dei caldei cattolici, 9 degli assiri, 7 dei siriaci, 3 degli armeni, e il resto di altri). Significativamente Yacoub scrive a volte di «esilio» anziché di «emigrazione».
Una dichiarazione di un sacerdote di Mosul, nel 2003, chiariva bene le nuove difficoltà della minoranza cristiana davanti alla maggioranza islamica: «Nella mentalità della maggioranza dei musulmani, un uomo non può essere privo di religione. Per loro Bush è un cristiano e un crociato, dunque i cristiani d’Iraq sono degli agenti di Bush, mentre quest’ultimo non conosce neppure l’esistenza dei cristiani di Mosul».
La messa di Pasqua in una chiesa caldea di Baghdad

La messa di Pasqua in una chiesa caldea di Baghdad

L’afflusso di missionari neoprotestanti ed evangelical, quasi embedded nell’esercito statunitense, o comunque nella sua ideale scia, doveva confermare simili idee. E del resto lo svanire di tali missioni è poi avvenuto parallelamente alla messa in scacco delle truppe statunitensi nel Paese, libere di circolare soltanto a loro rischio e pericolo. A questo proposito l’analisi di Yacoub non è molto aggiornata, per soverchio timore del proselitismo evangelical. «Il Paese esausto» egli scrive «non è forse una facile preda per le sette che accompagnano i furgoni dell’esercito a caccia di prediche?». A ragione invece egli rileva lo stupore dei cristiani iracheni di fronte a tale proselitismo, stupore dovuto alla fierezza di due millenni di cristianesimo, fondato tra l’altro sulla lingua aramaica di Gesù ancora in uso nelle liturgie. I cristiani iracheni sentono di non avere lezioni da ricevere sulla fede, dopo aver resistito fino al sangue in tante persecuzioni. Come osservava il 23 agosto 2005 il patriarca della Chiesa caldea unita a Roma, Emmanuel III Delly, gli evangelical «non vogliono il bene dell’Iraq, né del cristianesimo. Eccitano i giovani con il denaro. Noi eravamo qui prima di loro, siamo dei cristiani apostolici, originari dell’Iraq. Perché cercano di convertirci?».
Yacoub non risparmia osservazioni critiche sull’esportazione americana della democrazia di cui l’Iraq è stato un infausto laboratorio. Il «discorso democratico» a suo parere sconta una «eccessiva moralizzazione» e una «ideologizzazione». E sostiene: «Ogni componente del popolo iracheno teoricamente vuole la democrazia, ma secondo la propria logica, per creare nuovi assi che favoriscano innanzitutto il proprio gruppo d’appartenenza. Prevale il comunitarismo e le finalità sono diverse».
Interessanti sono infine alcune precisazioni lessicali di Yacoub che evidentemente sottendono determinate visioni dell’autore. Egli sottolinea l’esistenza di una «Chiesa d’Oriente», piuttosto che di una Chiesa assira o di una Chiesa caldea. Valorizza così un antico sentimento di questi cristiani che si concepivano come gli autentici cristiani orientali, allorché classificavano come cristiani occidentali non solo i latini ma anche i cristiani di ceppo bizantino, greci o slavi che fossero. E questa Chiesa d’Oriente è vista da Yacoub sostanzialmente in via d’unificazione ecumenica, tra assiri “nestoriani” e caldei cattolici, nel quadro di un’unità con Roma. Se questo avverrà, e se avverrà ancora in un contesto mediorientale oppure nello scenario di una completa disseminazione nella diaspora, lo si saprà entro tempi relativamente brevi, seguendo l’evolversi della crisi irachena.


Español English Français Deutsch Português